Cucina
Involtini di pollo con mirtilli rossi: un gusto da non perdere!
Immaginate un secondo piatto che sia allo stesso tempo raffinato e semplice. Un piatto gourmet che non richiede ore in cucina: gli involtini di pollo con mirtilli rossi sono facili da preparare, perfetti per una cena elegante o un pranzo domenicale in famiglia.

Conquista tutti con la presentazione scenografica di questi involtini. Un piatto raffinato e gustoso che lascerà il segno e che diventerà un must nella vostra cucina.
Un’idea in più: se ami i sapori decisi, puoi aggiungere al ripieno un pizzico di pepe rosa o un filo di balsamico invecchiato. Per un gusto più delicato, invece, potete utilizzare mirtilli rossi disidratati al posto di quelli freschi.
Involtini di pollo ai mirtilli rossi
Ingredienti per 4 persone
4 fettine di petto di pollo sottili (circa 150 g l’una)
4 fettine di pancetta tesa affettata affumicata
100 g di mirtilli rossi freschi (o surgelati)
50 g di granella di noci
Mezzo bicchiere di vino bianco secco
Erbe aromatiche tritate tra rosmarino e salvia
Olio extravergine d’oliva q.b.
Sale e pepe q.b.
Preparazione
In una ciotola, mescola i mirtilli rossi, la granella di noci, le erbe aromatiche, un pizzico di sale e pepe. Spiana le fettine di pollo su un tagliere, battile leggermente, poi regola di sale e pepe, stendi la pancetta su ogni fetta, copri con il ripieno di mirtilli rossi distribuendo uniformemente, quindi arrotola gli involtini, avvolgendo ogni fetta ben stretta.
Fissa gli involtini con gli stecchini di legno, sigillando bene i bordi, disponili in una padella antiaderente con olio, sale e pepe, rosola a fuoco medio per 2-3 minuti per lato, fino a doratura uniforme. Sfuma con il vino bianco e cuoci per altri 5 minuti, poi copri, aggiungi acqua all’occorrenza fino a completa cottura della carne per altri 10 minuti. Servi gli involtini caldi o tiepidi a fette.
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Cucina
Valerio Braschi: Il “Mad Scientist” della cucina sbarca in Piazza Duomo
Il più giovane vincitore di MasterChef Italia, apre il suo ristorante The View in Piazza Duomo a Milano. Con piatti eccentrici e sperimentazioni culinarie ardite (compreso un cioccolatino all’aglio, olio e peperoncino), promette di sorprendere i palati più curiosi. Ma tra critiche sui prezzi e lodi per la sua creatività, Braschi ha le idee chiare: “Milano merita gratitudine”.

Classe 1997, romagnolo doc, cresciuto tra le tagliatelle della nonna, Valerio Braschi si distingue per la sua creatività senza freni. E, come in ogni storia di successo, la sua passione per la cucina nasce in modo piuttosto rocambolesco.
Esperienze pericolose
“Avevo quattro anni, mi sono messo a leccare un frullatore a immersione dopo che mia madre aveva fatto la crema pasticcera. Involontariamente ho schiacciato il pulsante e… beh, diciamo che ho scoperto subito cosa significa il dolore!”, racconta ridendo. Ma non si è mai fermato: a sedici anni, dopo un intervento alla schiena, passava il tempo tra una dose di antidolorifici e le prime sperimentazioni culinarie. “Volevo preparare una zuppa thailandese complicatissima. Appena passava l’effetto dei farmaci, tornavo in cucina. Lì ho capito che la mia strada era questa”.
L’avventura milanese con The View
Dopo la vittoria a MasterChef nel 2017 e varie esperienze, tra cui il ristorante Vibe a Milano e “1978” a Roma, Braschi realizza il sogno: un ristorante tutto suo in Piazza Duomo. “Qui ho trovato chi crede davvero in me”, dice con entusiasmo. La terrazza con vista sulla cattedrale è già un successo, ma Braschi vuole che il suo ristorante non sia solo un luogo “instagrammabile”. “Spero che la gente venga per i miei piatti, non solo per il panorama”. E, a giudicare dal menu, di motivi per provarli ce ne sono tanti.
Il cioccolatino che proprio non ti aspetti
Se c’è una cosa che distingue Braschi, è la voglia di sperimentare. E chi pensava che la piccola pasticceria fosse un territorio già esplorato, si sbagliava. “La piccola pasticceria classica mi ha stufato. Voglio fare qualcosa di unico”, spiega. Il risultato? Un cioccolatino all’aglio, olio e peperoncino e un altro ripieno di genovese. “Ci vuole un mese per mettere a punto un cioccolatino. So che sembro folle, ma amo questo lavoro”.
Prezzi e Polemiche: “Gli Ingredienti di qualità costano”
Milano non è una città facile per i ristoratori, e Braschi lo sa bene. Già al “Vibe” era stato criticato per la carta delle acque minerali, ma lui non si scompone. “Erano acque di pregio, non una trovata commerciale”. Ora rilancia con un’altra idea: “Farò una carta degli oli extravergine. E sto introducendo il carrello dei formaggi, che adoro”. Ma la questione prezzi resta un punto caldo. “La mia cucina è fatta di materia eccelsa. Se vuoi un pomodoro da 20 euro al chilo, devi metterlo in conto”.
Carne e scelte etiche
Tra i piatti iconici di Braschi c’è la cotoletta alla milanese, rivisitata con doppia panatura e un biscotto di fondo di vitello liofilizzato. “La cotoletta è intoccabile, volevo darle un tocco senza snaturarla”. Quanto alla carne, segue il principio del “less meat, better meat”. “Non smetterò mai di cucinarla, ma deve essere di qualità. Uso il maiale Grigione del Montefeltro, che costa 50 euro al chilo, ma ti fa sognare”.
“Non sputo nel piatto in cui ho mangiato”
A differenza di alcuni colleghi che criticano Milano per i costi elevati e le difficoltà del settore, Braschi la vede diversamente: “Milano merita gratitudine. Dà tantissime opportunità, soprattutto nel food”. E dopo Milano? “Sogno Londra. Ma prima voglio mettere radici qui. Alzo lo sguardo, vedo il Duomo, e mi sento un privilegiato”. Con questa determinazione e un pizzico di follia creativa, Braschi ha tutte le carte in regola per lasciare il segno sulla scena gastronomica italiana.
Cucina
La rivoluzione del tavolo silenzioso: ecco dove mangiare in pace (finalmente)
Per chi vuole cenare senza ascoltare le telefonate altrui, evitare l’intrattenimento a tutto volume o semplicemente godersi un momento di vera conversazione, nascono i tavoli silenziosi. E diventano un trend globale. Perché il vero lusso, oggi, è non dover sentire niente.

Avete presente la scena: ristorante elegante, piatti curati, luci soffuse. E al tavolo accanto, un tizio che urla al telefono con la madre. O una comitiva che ride a volume da stadio, mentre sullo sfondo lo speaker annuncia “karaoke night”. La cena romantica si trasforma in sopravvivenza acustica. Ma qualcosa sta cambiando: si chiama “quiet table”, ed è il nuovo lusso della ristorazione contemporanea.
Non si tratta di un’invenzione da monaci zen o di una moda radical chic. Il quiet table è una risposta concreta al rumore costante che inquina le nostre vite. Sempre più locali, dalle trattorie stellate alle caffetterie scandinave, stanno riservando uno o più tavoli in zone protette del locale: lontani dall’ingresso, distanti dalla cucina, schermati da piante o pannelli fonoassorbenti. Lì, niente musica ad alto volume, niente chiamate ammesse, niente bambini che scorazzano. Solo silenzio. O, meglio, quiete: quel sottofondo umano e morbido che fa da tappeto alla vera conversazione.
In molti casi, bisogna prenotarlo esplicitamente. In altri, come in alcuni locali di Tokyo o Berlino, il quiet table è addirittura tematizzato: zero parole durante il pasto, sguardi e gesti consentiti, un foglio e una matita per comunicare, se proprio non se ne può fare a meno. E sorpresa: la gente ne esce felice. Meno stressata. Con la digestione migliore. E con l’idea che, forse, si può mangiare anche senza aggiornare il mondo su Instagram tra un boccone e l’altro.
In Italia il trend è agli inizi, ma promette bene. A Milano, un paio di ristoranti gourmet hanno iniziato a proporlo come opzione nella prenotazione online. A Firenze, uno chef ha creato una “stanza del silenzio” con pochi coperti, musica ambientale quasi impercettibile e divieto assoluto di squilli, vibrazioni, selfie e notifiche. Un altro locale, a Roma, ha fatto ancora di più: propone il “Menu Quiete”, dove ogni portata è abbinata a una breve pausa di silenzio guidato tra un piatto e l’altro, per centrare i sensi e gustare meglio.
C’è anche una componente psicologica forte. In un mondo in cui siamo perennemente sovrastimolati, in cui i momenti di silenzio sono visti con sospetto, ritagliarsi un angolo di quiete è diventato rivoluzionario. Alcuni clienti dicono che è come una piccola spa dell’anima. Altri lo vivono come una sfida: riuscirò a stare un’ora senza scrollare TikTok?
Naturalmente, non è per tutti. Chi cerca la cena-spettacolo o la socialità rumorosa probabilmente continuerà a preferire i ristoranti “con atmosfera” (e decibel da concerto). Ma il quiet table ha intercettato un bisogno sommerso: quello di rallentare. Di ascoltare. Di lasciare che siano i sapori a parlare, e non l’influencer al tavolo accanto.
La ristorazione, come ogni fenomeno culturale, rispecchia il nostro tempo. E se oggi il massimo del lusso è potersi permettere di non sentire niente, forse stiamo finalmente tornando a considerare il silenzio non come un vuoto da riempire, ma come uno spazio da custodire. Anche con forchetta e coltello in mano.
Cucina
Il grande bluff del gourmet: piatti poveri che ora costano un patrimonio
Farinata, trippa, cacio e pepe e pane e panelle: piatti della fame che oggi trionfano nei menù dei ristoranti gourmet. Ma dietro l’estetica minimal e le posate in argento, resta una domanda: è giusto pagare 18 euro per ciò che un tempo si mangiava con le mani sul marciapiede?

Una volta c’erano le osterie. Quelle vere. Dove il vino si versava nei bicchieri di vetro spesso, il pane era duro da far paura e la trippa costava meno di un pacco di gomme da masticare. Poi sono arrivati loro: gli chef stellati con la nostalgia selettiva, i bistrot urbani col design da show room, le cucine “di territorio” che hanno dimenticato il prezzo del territorio. E così ci siamo ritrovati a pagare 14 euro per un piatto di polenta, 12 per un assaggio di farinata “rivisitata” e 18 euro per tre listarelle di trippa “alla moda del quartiere”.
La cucina povera, quella nata per necessità, è diventata la nuova miniera d’oro del gourmet contemporaneo. Il miracolo? Servire cibo da contadini con la retorica del comfort food e l’impiattamento da laboratorio di architettura.
Prendiamo ad esempio il pane e panelle. In Sicilia si mangia in piedi, bruciandosi le mani e imprecando felici. Adesso invece te lo servono su pietra lavica, con coulis di finocchietto e arie al limone di Amalfi. Prezzo? “Dodici, ma pane fatto in casa.” Grazie tante, lo era anche nel 1870.
E vogliamo parlare della pasta e patate? Un tempo piatto unico di chi non aveva altro che una cipolla e un mozzico di provola. Oggi la trovi con chips croccanti e profumi d’oriente, impiattata con le pinzette. Con buona pace delle nonne, che te la buttavano nel piatto con la mestolata larga.
Poi c’è il trionfo dei piatti “poveri ma dignitosi”: la zuppa di ceci, la farinata, la minestra riscaldata. Presentati come esperienze sensoriali, “ritorni all’essenza”, “poesia del cucchiaio”. Il cucchiaio è in acciaio satinato. La poesia, spesso, è quella del conto.
Il massimo si tocca con la cacio e pepe, già trasformata in simbolo di orgoglio culinario nazionale. Oggi fa pendant col vino naturale e si accompagna a spiegoni sul pecorino invecchiato “sotto grotta”. Ma sotto grotta una volta ci viveva chi la cacio e pepe la faceva davvero, col formaggio buono ma senza troppe cerimonie.
Non si tratta di difendere la nostalgia a tutti i costi. È sacrosanto che la cucina si evolva, che certi sapori tornino a vivere. Ma c’è un limite tra omaggio e appropriazione, tra riscoperta e furto con destrezza ai danni del popolo affamato.
Perché se un piatto nasce per i poveri, va benissimo celebrarlo. Ma non si può venderlo a peso d’oro. Anche perché, come diceva il cuoco della mensa operaia: “Se vuoi fare il ricco con la minestra, aggiungi l’acqua e non le bolle di tartufo”.
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