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Cronaca Nera

Il fenomeno della criminalità organizzata in forte crescita

Un’analisi dettagliata provincia per provincia rivela la pervasività della ‘ndrangheta in Lombardia, con infiltrazioni nei settori economici legali e un controllo capillare del territorio. Dalle dichiarazioni allarmanti di Nicola Gratteri ai risultati delle operazioni di polizia, emerge un quadro complesso e preoccupante della presenza mafiosa nel nord Italia.

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    La Lombardia è stata identificata come la seconda regione in Italia per la presenza della ‘ndrangheta, subito dopo la Calabria. Boss e gregari emigrati dalla Calabria, ormai dai lontani anni ’60, stanno costruendo fortune nelle province di Milano, Monza Brianza, Como, Pavia, Varese, Lecco, Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova. La ricerca dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata (Cross) dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con Cgil Lombardia, ha delineato questa nuova geografia mafiosa.

    La dichiarazione di Nicola Gratteri

    Nicola Gratteri, procuratore di Napoli ha recentemente sottolineato la pervasività dell’organizzazione criminale in Lombardia, affermando che “tutti i supermercati dell’hinterland di Milano e tutti i locali vip del centro sono in mano alla ‘ndrangheta”. Questa affermazione mette in luce l’ampiezza del controllo esercitato dalla ‘ndrangheta nel tessuto economico e sociale della regione. Ma vediamo come è la situazione attuale.

    La mappa della ‘ndrangheta in Lombardia

    Le recenti indagini hanno svelato un’organizzazione ben strutturata della ‘ndrangheta in Lombardia, con una “camera di controllo” e 24 locali distribuiti nella regione. Questa struttura permette all’organizzazione di gestire in modo efficiente attività illecite come il traffico di droga, l’estorsione e il riciclaggio di denaro. La “camera di controllo” funge da organo decisionale centrale, coordinando le operazioni e mantenendo l’ordine tra le varie cosche.

    La situazione a Lecco è particolarmente grave

    Lecco e Calolziocorte sono aree particolarmente colpite dalla presenza della ‘ndrangheta. Nel 2023, le operazioni di polizia hanno rivelato una rete criminale ben strutturata che opera principalmente nel traffico di stupefacenti e nell’estorsione. La posizione strategica di Lecco facilita i collegamenti con altre aree del nord Italia, rendendola un punto chiave per le attività della ‘ndrangheta.

    Il riciclaggio nei locali notturni e supermercati

    A Milano, le indagini hanno evidenziato come i proventi del traffico di cocaina siano stati reinvestiti in attività legali come locali notturni e supermercati. Questi investimenti permettono alla ‘ndrangheta di ripulire il denaro sporco e di esercitare un controllo economico e sociale sul territorio. Le operazioni di polizia hanno rivelato che queste attività spesso sono mascherate da imprese lecite, rendendo difficile l’individuazione delle operazioni illecite.

    Impatto della Pandemia

    Il biennio della pandemia ha facilitato l’espansione della ‘ndrangheta. Secondo un sondaggio della Confcommercio delle province di Milano-Lodi-Monza Brianza, il 20% delle aziende è stato avvicinato con proposte di prestiti da sconosciuti o offerte di rilevamento a prezzi inferiori al mercato. Questi dati evidenziano come la crisi economica abbia aperto varchi per l’infiltrazione mafiosa.

    Operazione Crimine Infinito

    L’operazione Crimine Infinito, condotta dalle DDA di Milano e Reggio Calabria nel 2010, ha rappresentato un punto di svolta nella lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia. Questa operazione ha svelato la portata dell’infiltrazione mafiosa nella regione, portando a numerosi arresti e condanne.

    Settori di interesse e radicamento

    La ‘ndrangheta si è infiltrata in vari settori dell’economia legale, dall’edilizia ai grandi servizi sociali, inclusi la ristorazione e lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri. Il radicamento mafioso è particolarmente evidente nelle province nord-occidentali di Varese, Como e Lecco, che fungono anche da cerniera operativa verso la Svizzera.

    Nuovi “fortini” e strategia dei clan

    I clan della ‘ndrangheta stanno cercando insediamenti più protetti e meno visibili in piccoli centri della provincia pavese, al fine di esercitare un controllo stretto del territorio. Questa strategia rappresenta un nuovo capitolo nell’espansione della ‘ndrangheta, con i clan che privilegiano comuni di dimensioni minori per creare “fortini” meno controllabili dalle forze dell’ordine.

    Resilienza e rigenerazione dei clan

    Le cosche dimostrano una straordinaria capacità rigenerativa, rimodellandosi di fronte alle pressioni sfavorevoli e sfruttando le opportunità locali e collettive. Nonostante gli interventi incisivi della magistratura e delle forze dell’ordine, i clan riescono a mantenere forme di presenza sociale e controllo del territorio, spesso avvalendosi di una violenza “a bassa intensità”.

    Confisca dei beni

    In Lombardia, gli immobili e le aziende confiscati alle mafie ammontano a 3.607, un numero in continua crescita. La provincia di Milano conta il maggior numero di beni confiscati (1.708), seguita da Monza Brianza e Varese. Questi beni comprendono appartamenti, box, garage, e numerose aziende nei settori delle costruzioni, commercio all’ingrosso e al dettaglio, e attività immobiliari.

    Milano

    La provincia di Milano è un epicentro dell’attività della ‘ndrangheta, con una “camera di controllo” e numerosi locali mafiosi. Le principali aree di insediamento sono l’hinterland sud-ovest (Trezzano sul Naviglio, Corsico, Buccinasco) e la zona nord-occidentale (Rho, Solaro, Legnano). Operazioni come “Infinito-Crimine” hanno rivelato la profondità del radicamento mafioso. Le attività criminali includono traffico di stupefacenti, estorsione e riciclaggio di denaro in settori come la ristorazione e lo smaltimento dei rifiuti.

    Pavia

    La presenza mafiosa a Pavia risale agli anni ’60 e ’70 con il soggiorno obbligato di numerosi mafiosi. Due locali di ‘ndrangheta sono attivi a Pavia e Voghera, con il clan Chindamo-Ferrentino che opera nella zona di Voghera. Il traffico di rifiuti e il riciclaggio di denaro sono le principali attività criminali, con un aumento significativo delle denunce per riciclaggio negli ultimi anni. Le operazioni “Feudo” e “Fire Starter” hanno evidenziato il coinvolgimento di gruppi criminali nel traffico e smaltimento illecito di rifiuti.

    Lodi

    Nel lodigiano, la criminalità organizzata non è fortemente radicata, ma sono emersi eventi estorsivi e traffici di stupefacenti gestiti dalla ‘ndrangheta. La provincia di Lodi è stata utilizzata come punto di smistamento per il traffico internazionale di stupefacenti. La cosca Alvaro di Sinopoli ha proiezioni significative nel territorio lodigiano. Le autorità locali hanno emesso diverse interdittive antimafia contro società colluse con la criminalità organizzata.

    Como

    La provincia di Como è strategica per la sua vicinanza con la Svizzera e altre province lombarde. Otto locali di ‘ndrangheta sono attivi nella zona, con un forte controllo del territorio. Le operazioni di polizia hanno rivelato un alto livello di mimetismo delle organizzazioni criminali, che si infiltrano nell’economia locale e godono del supporto di professionisti e politici locali. La pandemia ha ulteriormente facilitato l’infiltrazione mafiosa nei settori colpiti dalla crisi economica.

    Lecco

    Lecco ha visto un incremento delle operazioni di polizia contro la ‘ndrangheta, che opera nel traffico di stupefacenti e nell’estorsione. La posizione strategica di Lecco facilita i collegamenti con altre aree del nord Italia, rendendola un punto chiave per le attività criminali. La provincia di Lecco ospita numerosi gruppi mafiosi che sfruttano le difficoltà economiche della pandemia per infiltrarsi nelle imprese locali.

    Varese

    Varese è una zona di alta densità mafiosa, con numerosi clan attivi. Le operazioni di polizia hanno rivelato la presenza di gruppi criminali dediti al traffico di droga, estorsione e riciclaggio di denaro. La vicinanza con la Svizzera facilita i traffici illeciti e il riciclaggio internazionale. La provincia di Varese è stata teatro di numerose operazioni antimafia che hanno portato alla luce la complessità delle attività criminali nella zona.

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      Cronaca Nera

      Il procuratore Nicola Gratteri: “Trovato grazie alle intercettazioni”

      La brillante operazione del procuratore Gratteri contro il clan Contini svela orologi di lusso e contanti per milioni di euro

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        Il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ha annunciato una scoperta sorprendente grazie alle intercettazioni telefoniche. Durante una conferenza stampa, Gratteri ha illustrato il sequestro di un tesoro nascosto del clan Contini: 48 orologi di lusso, alcuni pezzi unici dal valore inestimabile, e contanti per oltre 4 milioni di euro. La scoperta è avvenuta in un bunker, trovato durante una perquisizione in una residenza. Il procuratore ha criticato l’efficacia del regime carcerario 41bis, poiché i capi del clan riuscivano ancora a impartire ordini dal carcere.

        Il ruolo delle intercettazioni e le reazioni delle autorità Le intercettazioni telefoniche, spesso discusse, si sono rivelate fondamentali per l’operazione. Gratteri ha elogiato la collaborazione tra Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza. Giovanni Leuci, capo della Squadra Mobile di Napoli, ha sottolineato l’organizzazione del clan nonostante il regime 41bis. Il colonnello Paolo Consiglio ha evidenziato come il tesoro sia frutto di schemi di frode e riciclaggio attraverso società di facciata.

        Una scoperta straordinaria Il tesoro, oltre agli orologi e ai contanti, comprendeva oggetti d’oro, come un accendino con le iniziali del boss. La perizia ha confermato la rarità degli orologi, molti dei quali pezzi unici. Gratteri ha dichiarato che l’operazione è la prova dell’importanza delle intercettazioni nel combattere la criminalità organizzata.

        Questa scoperta rappresenta un duro colpo al clan Contini e mette in luce le sfide nel mantenere l’efficacia del regime 41bis. Le autorità continueranno a vigilare e a lavorare per smantellare le organizzazioni criminali e i loro complessi schemi di riciclaggio e frode.

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          Cronaca Nera

          Le bugie di Francesco «Sandokan» Schiavone per salvare il clan

          Le sue dichiarazioni sono state ritenute inutili e marginali, in un tentativo fallito di sfuggire all’ergastolo ostativo senza compromettere il clan. L’episodio del bacio con il figlio Emanuele, simbolo di omertà, sottolinea l’intricata dinamica familiare e mafiosa.

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            Francesco “Sandokan” Schiavone, noto boss della camorra, è tornato al regime di carcere duro, il 41 bis, dopo aver fallito nel tentativo di collaborare con la giustizia. Le informazioni fornite da Schiavone sono state ritenute inutili o non credibili. Ha cercato di evitare il carcere a vita offrendo solo dettagli marginali, senza compromettere gli equilibri politico-mafiosi esistenti.

            La falsa speranza della collaborazione

            La collaborazione con la giustizia, spesso motivata da vantaggi personali piuttosto che da un pentimento morale, non ha portato a risultati concreti per Schiavone. Dopo oltre trent’anni di carcere, il boss della camorra ha visto nella collaborazione un’opportunità per aggirare l’ergastolo ostativo, una pena senza benefici per i crimini di stampo mafioso.

            L’illusione della libertà

            Il pentimento di Schiavone avrebbe significato la perdita della sua leadership all’interno dell’organizzazione criminale. Anche se alcuni capi mafiosi hanno mantenuto un certo grado di controllo durante la collaborazione, Schiavone non è riuscito a ingannare lo Stato con informazioni di poco valore. L’esperienza di altri collaboratori di giustizia, come Augusto La Torre e Giuseppe Setola, ha dimostrato che la collaborazione può essere una strategia per preservare parte del potere, ma solo se supportata da informazioni realmente utili alle indagini.

            Il peso del silenzio

            Durante una visita in carcere, il figlio Emanuele Libero Schiavone ha cercato di baciare il padre attraverso il vetro che li separava. Sandokan non ha ricambiato il gesto, interpretato come una promessa di omertà. Il tentativo di Schiavone di collaborare è stato segnato dalla tensione con il figlio Emanuele Libero Schiavone, il quale ha percepito il pentimento del padre come un tradimento che avrebbe distrutto la loro autorità. Il bacio mancato tra padre e figlio, durante una visita in carcere, è simbolico della promessa di silenzio che Schiavone non poteva più mantenere.

            La vendetta e la fuga

            La vita di Emanuele Libero Schiavone è stata segnata dalla violenza e dalla paura. Dopo il fallimento della collaborazione di Schiavone, il figlio ha tentato di ripristinare l’autorità familiare, ma è stato arrestato prima di poter agire. La sua fuga a Napoli con il fratello Ivanhoe e il loro status di “morti viventi” riflette la realtà brutale dei figli dei boss mafiosi, destinati a vivere tra il carcere e la vendetta.

            La complessità della collaborazione

            La collaborazione con la giustizia è diventata un’arma a doppio taglio per lo Stato, che, nonostante la fragilità e la mancanza di risorse, deve bilanciare l’uso delle informazioni dei collaboratori con il rischio di mantenere il potere mafioso intatto. La legge RICO, utilizzata negli Stati Uniti, ha mostrato come la collaborazione possa essere utilizzata anche per mantenere il controllo all’interno delle organizzazioni criminali, sacrificando alcuni membri per il bene del clan.

            La dote Conte Ugolino

            L’inchiesta “Infinito” sulla ‘ndrangheta a Milano ha rivelato l’esistenza della dote Conte Ugolino, che permette ai boss di sacrificare membri del clan per salvare l’organizzazione. Questa logica di tradimento e sacrificio interno è diventata una parte intrinseca delle dinamiche mafiose, cambiando le regole dell’omertà e della collaborazione.

            Un futuro incerto

            Francesco “Sandokan” Schiavone torna al 41 bis, consapevole del fallimento del suo tentativo di ingannare lo Stato. La sua storia riflette le contraddizioni e le difficoltà della lotta contro la criminalità organizzata, dove la collaborazione con la giustizia è un’arma necessaria ma rischiosa. La sua vicenda è un monito per tutti coloro che credono di poter sfuggire alla giustizia con mezze verità e compromessi.

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              Bossetti shock: “Incastrato così, hanno provato a farmi confessare”

              Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha recentemente rilasciato dichiarazioni scioccanti, sostenendo di essere stato manipolato dagli inquirenti per ottenere una confessione.

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                Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, torna a far parlare di sé con nuove e inquietanti dichiarazioni. Il muratore di Mapello, infatti, accusa gli inquirenti di aver utilizzato metodi coercitivi e pressioni psicologiche per ottenere una confessione. “Mi hanno trattato come un mostro sin dall’inizio, senza darmi la possibilità di spiegarmi,” ha dichiarato Bossetti, sollevando dubbi su uno dei casi più mediatici e controversi degli ultimi anni in Italia.

                Il caso Yara Gambirasio

                Il 26 novembre 2010, Yara Gambirasio scomparve mentre tornava a casa dalla palestra. Il suo corpo fu ritrovato tre mesi dopo in un campo a Chignolo d’Isola. Le indagini portarono nel 2014 all’arresto di Massimo Bossetti, grazie a una traccia di DNA trovata sugli indumenti della vittima. Bossetti è stato condannato all’ergastolo nel 2016, e la sua condanna è stata confermata in Cassazione nel 2018.

                Le accuse di Bossetti

                In una recente intervista, Bossetti ha descritto i metodi usati durante gli interrogatori come “psicologicamente devastanti”. Ha dichiarato: “Mi hanno trattato come un mostro sin dall’inizio, senza darmi la possibilità di spiegarmi. Le pressioni erano insopportabili e mi sentivo continuamente minacciato”. Bossetti ha inoltre sostenuto che gli inquirenti avrebbero manipolato le prove per incastrarlo, insistendo su dettagli irrilevanti per costruire un caso contro di lui.

                Le prove contro Bossetti

                La condanna di Bossetti si basa principalmente su prove genetiche. Il DNA trovato sugli indumenti di Yara è stato determinante per la sua incriminazione. Tuttavia, Bossetti e i suoi legali hanno sempre contestato la validità di queste prove, sostenendo che ci siano state contaminazioni e errori nelle procedure di raccolta e analisi. “Il DNA non è stato l’unica prova e non può essere considerato infallibile,” ha ribadito Bossetti.

                Le reazioni dell’opinione pubblica

                Il caso di Yara Gambirasio ha profondamente toccato l’opinione pubblica italiana. Le nuove dichiarazioni di Bossetti hanno riacceso il dibattito su come siano state condotte le indagini e sull’affidabilità delle prove presentate. Molti si chiedono se sia stato fatto tutto il possibile per garantire un processo equo e trasparente.

                Le dichiarazioni della difesa

                Claudio Salvagni, avvocato di Bossetti, ha ribadito che il suo assistito è vittima di un errore giudiziario. “Abbiamo sempre sostenuto l’innocenza di Bossetti e queste nuove rivelazioni confermano i nostri dubbi sulle modalità con cui sono state condotte le indagini. Continueremo a lottare per la verità e la giustizia,” ha dichiarato Salvagni.

                Il futuro di Bossetti

                Le dichiarazioni di Bossetti sollevano numerose domande sul sistema giudiziario italiano e su come vengano gestiti i casi di grande rilevanza mediatica. Se le sue accuse trovassero conferma, si aprirebbe un nuovo capitolo in uno dei casi più controversi degli ultimi anni. Intanto, la sua difesa continua a lavorare per una possibile revisione del processo, sperando di poter ribaltare una condanna che ritengono ingiusta.

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