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Cronaca Nera

Stefano Conti in carcere a Panama vince il primo round: “Italia riportami a casa come la Salis”

Stefano Conti, un cittadino italiano attualmente detenuto in Panama, ha presentato una richiesta urgente di scarcerazione dopo aver trascorso oltre un anno in condizioni carcerarie estreme. Conti è stato accusato di reati legati alla prostituzione e alla tratta di esseri umani, accuse che egli nega con fermezza.

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    “Italia, riportami a casa come hai fatto con Ilaria Salis.” Questo è l’appello disperato di Stefano Conti, un italiano residente a Panama, che da oltre un anno si trova nel limbo giuridico di un paese straniero, affrontando un processo carico di incertezze e condizioni inumane. Accusato di gravi reati legati alla prostituzione e alla tratta di esseri umani, Conti si è visto catapultato in un inferno giudiziario e carcerario che ha sfidato ogni aspettativa umana di dignità e giustizia.

    La sua storia è una saga di sopravvivenza e disperazione. Da trader di successo, con residenza stabile a Panama e un’attività prospera, Conti è stato brutalmente interrotto nella sua vita il giorno in cui è stato estradato, senza alcuna formalità giuridica, dalle autorità locali. Dal momento del suo arresto, ha trascorso più di un anno in uno dei carceri più infami del mondo, descrivendo la sua esperienza come un incubo fatto di violenza, privazioni estreme e condizioni igieniche aberranti.

    “Quando chiudo gli occhi, rivedo ancora quel carcere, gli scarafaggi che scorrazzano tra i muri scrostati, il caldo opprimente e l’odore di disperazione che permea l’aria”, racconta Conti con voce soffocata dalla rabbia e dalla frustrazione. “Mi hanno strappato dalla mia vita, dalla mia famiglia, senza nemmeno il minimo rispetto per i diritti umani più elementari.”

    La sua difesa si è concentrata su un punto cruciale: le accuse mosse contro di lui sono basate su testimonianze contraddittorie e prove insufficienti. Le presunte vittime, colombiane, hanno fornito testimonianze che hanno oscillato tra il sostegno e il rifiuto delle accuse. In Italia, l’accusa a suo carico si tradurrebbe in una pena potenziale di sei anni di detenzione, una prospettiva molto meno severa rispetto ai 30 anni richiesti dalla giustizia panamense, una sentenza che lui stesso definisce come una condanna a morte in condizioni disumane.

    La sua famiglia, radicata in Brianza, ha affrontato l’incubo della distanza e della separazione forzata. La madre, anziana e vulnerabile, non può fare a meno di preoccuparsi per il figlio intrappolato in un sistema giudiziario che sembra essere più interessato alla retribuzione della giustizia che alla sua applicazione equa e umana.

    “Eppure, in mezzo a tutto questo caos, ho visto il peggio dell’umanità ma anche il meglio”, riflette Conti con un sospiro. “Ho visto la solidarietà di altri detenuti, le piccole gentilezze degli operatori sanitari, la forza della mia famiglia nel sostenere la mia innocenza.”

    La sua voce si spegne momentaneamente, ma poi si accende di nuovo con una determinazione feroce. “Chiedo all’Italia di intervenire, di portarmi a casa come ha fatto con altri connazionali in situazioni difficili. Non voglio essere dimenticato o abbandonato in questo inferno. Ho solo chiesto un processo equo, in un luogo dove i diritti umani siano rispettati, dove la verità possa emergere senza il filtro della disperazione e dell’ingiustizia.”

    La sua battaglia continua, mentre lui, stretto tra le sbarre e le leggi di un paese straniero, lotta per la sua libertà e la sua dignità, nella speranza di un ritorno alla normalità che sembra sempre più lontano.

    Questa è la storia di Stefano Conti, un italiano in cerca di giustizia e di casa, sperando che il suo appello raggiunga le orecchie giuste e porti il cambiamento che tanto desidera e merita.

      Cronaca Nera

      Rai annulla il contratto di Sara Giudice: la giornalista sotto indagine per presunta violenza

      La Rai fa marcia indietro sull’assunzione di Sara Giudice, giornalista indagata per presunta violenza, nonostante la richiesta di archiviazione da parte della Procura. La decisione solleva interrogativi sul garantismo dell’azienda pubblica.

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        La Rai ha deciso di annullare il contratto con Sara Giudice, giornalista che era stata ingaggiata per lavorare nel programma di Antonino Monteleone. La marcia indietro dell’azienda arriva in seguito alla vicenda giudiziaria che vede coinvolta Giudice insieme al marito, il giornalista Nello Trocchia del quotidiano Domani. Entrambi sono indagati per una presunta violenza nei confronti di una collega, avvenuta a fine gennaio 2023, anche se la Procura ha già richiesto l’archiviazione del caso. La decisione finale spetta ora al giudice per le indagini preliminari (gip).

        La reazione della Rai e il dibattito sul garantismo

        La conferma della rottura contrattuale è stata data dallo stesso Antonino Monteleone, che ha dichiarato: «È vero, mi è stato comunicato da Paolo Corsini, direttore dell’approfondimento Rai, che il contratto con Sara Giudice non può essere finalizzato. L’editore mi ha detto che non ci sono le condizioni». Questa decisione ha sollevato un acceso dibattito, alimentato da un articolo pubblicato su Il Foglio, che ha criticato quella che è stata percepita come una mancanza di garantismo da parte della Rai. La Procura aveva infatti chiesto l’archiviazione dell’indagine in tempi molto rapidi, ma la Rai ha comunque deciso di sospendere l’assunzione di Giudice, sollevando dubbi sulla sua posizione rispetto ai diritti degli indagati.

        Il caso e le sue implicazioni

        La vicenda giudiziaria che coinvolge Sara Giudice e Nello Trocchia è stata portata alla ribalta per la prima volta dal quotidiano La Verità. Secondo Giudice e Trocchia, l’episodio di cui sono accusati si sarebbe trattato di baci a tre consensuali, interpretati invece come un abuso dalla collega coinvolta. Questo caso ha scatenato una controversia, soprattutto considerando che la denuncia è arrivata poco dopo un’inchiesta di Domani sui finanziamenti ad Acca Larenzia, firmata proprio da Trocchia.

        Minacce e tensioni crescenti

        A complicare ulteriormente la situazione, Sara Giudice e Nello Trocchia hanno recentemente denunciato di aver ricevuto minacce di morte tramite social media. Una delle minacce più gravi includeva la frase: «Una pallottola in fronte e passa tutto, tr… fottuta», rivolta a Giudice da un utente su Facebook. Di fronte a queste intimidazioni, la coppia ha presentato un esposto in Procura e la polizia postale sta indagando sulla vicenda.

        Un’ombra sulla libertà di stampa e il garantismo
        La decisione della Rai di interrompere il rapporto con Sara Giudice, nonostante la richiesta di archiviazione del caso, solleva preoccupazioni non solo sul garantismo dell’azienda pubblica, ma anche sulla libertà di stampa e sulla tutela dei giornalisti sotto indagine. In un clima già teso, con minacce di morte che aggravano la situazione, il caso di Giudice e Trocchia pone interrogativi importanti sul modo in cui le istituzioni e le aziende mediatiche gestiscono le situazioni in cui i giornalisti diventano oggetto di indagini, ma non di condanne definitive.

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          Cronaca Nera

          Mostro di Firenze, nuova svolta nelle indagini: richiesta di una seconda autopsia su Stefania Pettini

          A cinquant’anni dal delitto, i legali delle vittime insistono per un’autopsia bis su Stefania Pettini, sperando di trovare tracce biologiche del Mostro di Firenze. Le famiglie delle vittime sono divise, mentre si apre un altro capitolo nella richiesta di revisione del processo sul delitto di Scopeti.

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            Alla vigilia del cinquantesimo anniversario del tragico omicidio di Stefania Pettini e del suo fidanzato Pasquale Gentilcore, avvenuto nel settembre 1974, una nuova svolta nelle indagini sul Mostro di Firenze scuote ancora una volta la serenità dei familiari delle vittime. L’avvocato Vieri Adriani, rappresentante dei familiari delle vittime francesi uccise nel 1985 a Scopeti, sta preparando un’importante mossa legale: chiede infatti al sindaco di Borgo San Lorenzo di non trasferire i resti di Stefania, come previsto alla scadenza del termine dei cinquant’anni, al fine di permettere un’eventuale seconda autopsia.

            Individuato un DNA?

            Questa richiesta arriva dopo la consulenza dell’ematologo Lorenzo Iovino, il quale sostiene di aver individuato una sequenza di DNA sconosciuto impressa su un’ogiva esplosa durante il delitto di Scopeti, che potrebbe essere collegata anche ad altri due duplici omicidi. Adriani intende presentare questa scoperta all’autorità giudiziaria, accompagnata da una formale richiesta di esame autoptico. L’obiettivo è chiaro: trovare tracce biologiche che possano far luce sull’identità del misterioso assassino, noto come il Mostro di Firenze.

            Aveva solo 18 anni

            Stefania Pettini, appena 18enne al momento della sua morte, fu brutalmente uccisa insieme a Pasquale, 19 anni, in località Rabatta, nel comune di Borgo San Lorenzo. Il Mostro colpì Pasquale con cinque colpi di pistola e poi si accanì su Stefania con una pioggia di fendenti, infliggendole un destino crudele che ha lasciato cicatrici indelebili nei cuori dei suoi familiari. Il suo corpo, oltraggiato con un tralcio di vite, fu sepolto in un loculo offerto dal Comune come gesto di solidarietà.

            Nonostante il passare del tempo, il dramma di Stefania continua a tormentare i suoi cari. Una delle cugine ha recentemente espresso il suo consenso per un’eventuale seconda autopsia, ma non tutte le parenti condividono questa opinione. Anche tra i familiari di Jean Michel, ucciso a Scopeti nel 1985, ci sono divisioni: Adriani aveva suggerito la riesumazione del corpo per ulteriori indagini, ma l’opposizione di uno dei tre fratelli ha fatto cadere questa ipotesi, a meno di una rogatoria internazionale che appare complessa.

            Nel frattempo, un altro capitolo di questo giallo senza fine si apre con la richiesta di revisione del processo sul delitto di Scopeti. Gli avvocati del nipote di Mario Vanni, uno dei presunti “compagni di merende”, intendono presentare nuovi elementi, basati su un esperimento che suggerisce che l’omicidio potrebbe essere avvenuto prima dell’8 settembre 1985, contraddicendo la testimonianza di Giancarlo Lotti. Questo ulteriore sviluppo getta ancora più ombre su un caso che continua a tenere con il fiato sospeso non solo i familiari delle vittime, ma anche un’intera nazione.

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              Moussa Sangare e le sue bugie smascherate: il video della fuga in bici smentisce tutto

              Dalla versione fantasiosa dell’amico minaccioso alla verità mostrata dalle telecamere di sorveglianza, Moussa Sangare ha tentato invano di coprire le sue tracce. Le intercettazioni e i video lo inchiodano, mentre emerge la sua pericolosità e la volontà di colpire ancora.

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                Moussa Sangare, arrestato per l’omicidio di Sharon Verzeni, ha provato a costruire una serie di bugie per confondere gli inquirenti, ma il video della sua fuga in bicicletta e le intercettazioni lo hanno smascherato, svelando tutta la verità dietro l’efferato delitto.

                Le bugie di Sangare: dalla falsa testimonianza alla cruda realtà

                Nel corso dell’interrogatorio, Sangare ha inizialmente negato ogni coinvolgimento nell’omicidio, sostenendo di non essersi recato a Terno d’Isola negli ultimi mesi. Tuttavia, quando i carabinieri gli hanno mostrato il video che riprendeva il suo tragitto notturno, l’uomo è crollato, ammettendo di essere stato presente sul luogo del delitto. Ma anche in quel momento, ha tentato un ultimo disperato tentativo di depistaggio, accusando un fantomatico “amico” di Sharon di aver commesso l’omicidio e di averlo minacciato per aver assistito alla scena.

                Le immagini delle telecamere di sorveglianza, però, raccontano una storia diversa. Sharon Verzeni è stata ripresa mentre camminava da sola, in un tragitto tranquillo e solitario, contraddicendo completamente la versione fornita da Sangare.

                La fuga in bici e le intercettazioni: prove schiaccianti

                Oltre al video, un altro dettaglio ha messo a nudo le menzogne di Sangare: la sua fuga in bicicletta. Le intercettazioni tra Sangare e i due testimoni che lo avevano riconosciuto hanno rivelato particolari che solo l’autore dell’omicidio poteva conoscere, come la velocità della fuga e le urla disperate di Sharon dopo essere stata accoltellata.

                In una conversazione intercettata, Sangare stesso ha evocato l’idea del fermo, mostrando consapevolezza della gravità della situazione: “Ti immagini che ci fermano… non andiamo più a casa”. Questa frase, insieme alle altre prove raccolte, ha convinto gli inquirenti della sua colpevolezza e della sua pericolosità sociale.

                Un tentativo di depistaggio maldestro

                Sangare ha anche cercato di nascondere il suo aspetto, sostenendo di essersi tagliato i capelli “due o tre mesi” prima dell’audizione. Tuttavia, la lunghezza dei capelli al momento dell’interrogatorio ha smentito questa affermazione, dimostrando che il taglio doveva essere avvenuto in epoca molto più recente, probabilmente subito dopo l’omicidio, in un tentativo di cambiare il proprio aspetto e sfuggire alla giustizia.

                Il trasferimento in carcere e la pericolosità di Sangare

                Vista la sua pericolosità, Sangare è stato trasferito dal carcere di Bergamo a quello di San Vittore a Milano, anche per motivi di sicurezza, dopo che altri detenuti avevano tentato di aggredirlo lanciandogli bottiglie incendiarie. Il trasferimento è stato deciso anche per evitare che l’uomo potesse dissotterrare il coltello utilizzato nell’omicidio, nascosto nei pressi degli argini dell’Adda, che Sangare aveva pianificato di conservare come macabro “souvenir”.

                L’insieme delle prove raccolte ha quindi permesso agli inquirenti di chiudere il cerchio intorno a Moussa Sangare, confermando il suo coinvolgimento nell’omicidio di Sharon Verzeni e smascherando tutte le sue menzogne. Un caso che ha scosso profondamente la comunità e che ora si avvia verso la fase processuale, con la speranza che la giustizia possa fare il suo corso.

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