Cronaca Nera
Un aereo caduto, un attentato misterioso e tanto oro. La strana storia dell’incidente della Val di Gesso.
Nella notte tra il 19 e il 20 marzo 1963, un aereo del sovrano saudita Ibn Saud precipitò nell’alta Valle Gesso. Tra leggende di tesori nascosti e ipotesi di attentati, le ricerche del velivolo e delle sue preziose casse furono un’odissea tra neve e intrighi.
Nella notte tra il 19 e il 20 marzo del 1963, un gruppo di operai era di servizio a un cantiere per la costruzione di impianti idroelettrici nell’alta Valle Gesso, in provincia di Cuneo. Sembrava una nottata come tante altre in montagna, ma verso le tre e mezza del mattino accadde qualcosa di inaspettato. Prima si sentì un forte rombo di motori, e quando gli uomini uscirono dalla baracca videro un aereo a bassa quota con la parte posteriore destra in fiamme.
L’aereo, dopo aver sorvolato Sant’Anna, superò le creste del Gruppo del Dragonet per poi precipitare al suolo. Era un quadrimotore Comet 4C di proprietà del sovrano saudita Ibn Saud. Un incidente misterioso che alimenta ancora ipotesi e leggende: come la presenza di un tesoro a bordo.
Come in un romanzo di John le Carré, questo episodio di mistero, potere e tragedia rimane avvolto in una nebbia di congetture e leggende, alimentando ancora oggi la curiosità di storici e appassionati di aviazione.
Il mistero del Comet 4C
Era la notte del 19 marzo 1963, quando il possente quadrireattore del re saudita Ibn Saud decollò da Ginevra con destinazione Nizza. A bordo c’erano il re, le sue spose e figure di spicco della corte. Giunti in Francia, la delegazione reale venne accolta con tutti gli onori, e il re si diresse verso l’hotel Negresco su una fila di lussuose auto. Poco dopo mezzanotte, il Comet rientrò a Ginevra per imbarcare gli ultimi membri della delegazione e una gran quantità di bagagli.
Alle 2:55, il quadrimotore decollò di nuovo, questa volta diretto a Nizza. Le condizioni meteorologiche erano buone quando l’aereo passò sopra Torino, ma dopo aver iniziato la discesa, i piloti persero improvvisamente il contatto con la torre di controllo alle 3:21. Scattò immediatamente l’allarme.
Con l’arrivo delle prime luci del giorno, diversi velivoli si alzarono in volo per perlustrare l’area, ma il peggioramento del tempo rese difficili le ricerche. A metà mattinata divenne evidente che l’aereo si era schiantato. La notizia fece il giro del mondo in un lampo, sollevando subito sospetti di un attentato. Ibn Saud, dal sicuro rifugio del suo hotel, accusò pubblicamente i cospiratori di palazzo di aver piazzato una bomba a bordo per eliminarlo.
Una ricerca tra neve e misteri
La mattina del 20 marzo, un’imponente operazione di ricerca prese il via, ma una nevicata improvvisa rese tutto più complicato. Alpini, Carabinieri, Vigili del Fuoco e volontari del Soccorso Alpino si misero in marcia verso la cima della Vagliotta. Nel frattempo, l’unico bar di Sant’Anna, dotato di telefono, si riempì di giornalisti a caccia di notizie.
Ad alimentare il mistero fu la voce di un tesoro a bordo: si parlava di cinquantadue miliardi di lire in oro e gioielli tra i rottami. Tuttavia, i diplomatici sauditi sembravano più interessati a recuperare una misteriosa valigetta, il cui contenuto resta sconosciuto.
L’uomo più ricco del mondo
Ibn Saud era all’epoca uno degli uomini più ricchi del pianeta, noto per il suo stile di vita stravagante e la costruzione di palazzi sontuosi. Le ricerche procedevano a rilento e le speranze di trovare l’aereo cominciavano a svanire. Alcuni ipotizzavano che il velivolo fosse stato inghiottito dalla neve, mentre altri speculavano che potesse essere atterrato segretamente in Egitto con il suo carico prezioso.
Finalmente, il primo maggio, l’aereo venne ritrovato: si era schiantato a quota 2.750 metri contro la cima Bifida. Diciotto persone persero la vita nell’incidente. Durante quei mesi, alla ricerca ufficiale si affiancò quella dei valligiani, speranzosi di trovare il leggendario tesoro. Tesoro che, sebbene mai rinvenuto ufficialmente, sembra aver lasciato qualche traccia, con banconote straniere e abiti di lusso che cominciarono a circolare in valle.
Le indagini
La commissione d’inchiesta escluse guasti ai motori, incendi e esplosioni, concludendo che l’ipotesi più probabile fosse un errore umano: una discesa troppo repentina verso Nizza. Sergio Costagli e Gerardo Unia ricostruirono questa storia nel loro libro “Ali spezzate” (Nerosubianco). Unia, all’epoca tredicenne, ricorda: «Vedere le mie montagne in tv legate alla scomparsa dell’aereo del re d’Arabia mi emozionava. Anni dopo, ho iniziato a studiare quell’incidente». I due autori divennero amici di Philip Rouse, figlio dell’ingegnere di bordo, e lo accompagnarono sul luogo del disastro. «La vista di quei resti e il ricordo del padre furono per lui una grande emozione».
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Cronaca Nera
Giulio Regeni, il racconto delle torture: «Bendato e portato a spalla, sfinito dal dolore»
Durante il processo contro quattro 007 egiziani, un testimone racconta il brutale trattamento subito da Giulio Regeni. In aula, il video proiettato da Al Jazeera e la commossa testimonianza della sorella riportano alla luce dettagli atroci.
Giulio Regeni «ammanettato con le mani dietro la schiena, bendato, portato a spalla da due carcerieri perché sfinito dalla tortura». È questo uno dei dettagli emersi oggi durante il processo in corso a Roma contro quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati della morte del ricercatore friulano, rapito e ucciso al Cairo nel 2016.
Un cittadino palestinese, ex detenuto in una struttura di sicurezza egiziana, ha raccontato in un video trasmesso da Al Jazeera e proiettato in aula: «L’ho visto uscire da un interrogatorio. Era piegato dal dolore, non riusciva a stare in piedi. Lo riportavano alle celle sorreggendolo».
Le parole strazianti del testimone si sono unite alla commovente testimonianza di Irene Regeni, sorella di Giulio, che ha ricordato in lacrime il fratello: «Era un ragazzo normale, appassionato di storia e culture diverse. Studiava l’arabo ed era entusiasta di partire per l’Egitto. Per me era un esempio, il fratellone che dava consigli. Non immaginavamo che sarebbe finita così».
La famiglia Regeni non ha mai smesso di cercare la verità. Durante l’udienza, Irene ha raccontato come scoprì della tortura inflitta a Giulio: «Ricordo una telefonata di mia madre: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».
Anche il medico legale incaricato di analizzare il corpo di Giulio ha confermato le atroci sofferenze subite: «Bastonate sui piedi, bruciature e ammanettamento di polsi e caviglie. È stato sottoposto a torture indicibili».
Il processo rappresenta un tentativo di fare luce su uno dei casi di violazione dei diritti umani più controversi degli ultimi anni, con un’attenzione crescente da parte della comunità internazionale.
Cronaca Nera
Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati
Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.
Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.
Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.
Come difendersi dallo spoofing
Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.
Cronaca Nera
Mostro di Firenze: riesumati i resti di Francesco Vinci, l’ex moglie crede che sia ancora vivo
Esami sul DNA per verificare l’identità del cadavere trovato carbonizzato nel 1993. La famiglia sospetta una messa in scena. La riesumazione di Francesco Vinci potrebbe essere il tassello mancante di un puzzle complesso, che lega la sua vicenda personale a quella più ampia e tragica del Mostro di Firenze. Un’ombra lunga che continua a pesare sulla cronaca nera italiana.
Questa mattina, nel cimitero di Montelupo Fiorentino, sono stati riesumati i resti di Francesco Vinci, una delle figure chiave della cosiddetta “pista sarda” legata ai delitti del Mostro di Firenze. L’operazione è stata disposta dalla Procura di Firenze, ma la richiesta iniziale era partita dalla famiglia dello stesso Vinci. La vedova, Vitalia Velis, e i figli vogliono sapere se quel corpo ritrovato incaprettato e carbonizzato nel 1993 sia realmente il loro caro. Secondo la donna, infatti, il cadavere potrebbe non essere di Vinci, e sostiene addirittura di aver visto il marito ancora vivo dopo la sua presunta morte.
Chi era Francesco Vinci?
Originario di Villacidro, in Sardegna, Francesco Vinci era uno dei principali sospettati nella “pista sarda” sui delitti del Mostro di Firenze, il serial killer responsabile di otto duplici omicidi tra il 1968 e il 1985. Vinci fu incarcerato nel 1982, ma venne poi rilasciato quando, nel 1983, avvenne il delitto dei ragazzi tedeschi a Giogoli mentre lui era in prigione. La sua morte, avvenuta nel 1993, è sempre stata avvolta nel mistero.
Il macabro ritrovamento
Il corpo, trovato carbonizzato in una Fiat Uno nelle campagne di Chianni, vicino Pisa, era irriconoscibile. A complicare ulteriormente l’identificazione, il cadavere era privo delle mani, elemento che impediva un riconoscimento certo. All’epoca, Vinci fu identificato solo grazie a una fede e a un orologio trovati nel veicolo, oggetti che avrebbero potuto essere messi lì da chiunque. La situazione ha alimentato i sospetti della famiglia, convinta che il cadavere potesse non appartenere a lui.
Il sospetto della moglie e la riesumazione
La moglie Vitalia Velis ha raccontato di aver visto Francesco dopo la sua presunta morte, in un’auto, e di averlo perfino salutato. Un’ipotesi che sembrerebbe assurda, ma che ha spinto la famiglia a chiedere un esame del DNA per chiarire la questione. Ora, grazie alla riesumazione e all’analisi del materiale genetico, si cercherà di stabilire con certezza se i resti appartengano davvero a Vinci. L’esame comparativo del DNA verrà condotto con il materiale genetico dei figli e i risultati potrebbero finalmente chiudere questo capitolo ambiguo.
I dubbi degli inquirenti
Il criminologo Davide Cannella, che assiste la famiglia, ha sottolineato come, sin dall’inizio, ci siano state delle anomalie. “Dall’autopsia emergono elementi che non quadrano. Chi ha ucciso Vinci e Angelo Vargiu, trovato insieme a lui nell’auto, ha cercato di rendere impossibile il riconoscimento”, ha dichiarato. Mancano, infatti, le mani, e non è stato mai trovato il proiettile che avrebbe potuto fornire ulteriori indizi.
L’importanza del DNA
Il lavoro degli esperti sarà cruciale. Se il genetista riuscirà a estrapolare il DNA dai resti riesumati, verrà comparato con quello dei figli di Vinci. Questo permetterà di confermare, o smentire, l’identità del corpo ritrovato. In caso di corrispondenza, il campione genetico verrà inserito nella banca dati delle indagini sui delitti del Mostro di Firenze, un’inchiesta che, nonostante gli anni, continua a sollevare interrogativi e a cercare risposte.
Un’indagine senza fine
Alla riesumazione, oltre alle pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti, erano presenti anche i figli di Vinci e i loro consulenti: il genetista forense Eugenio D’Orio e il medico legale Aldo Allegrini. I resti sono stati trasportati all’istituto di medicina legale di Firenze, dove saranno esaminati dai periti. La speranza è che i risultati possano fornire un po’ di chiarezza a una storia che, a trent’anni di distanza, ancora non ha trovato il suo epilogo.
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