Cronaca
E’ ufficiale la Starliner resterà in orbita fino alla prossima primavera
Se i problemi della Starliner non verranno risolti, gli astronauti Butch Wilmore e Suni Williams potrebbero dover attendere fino al 2025 per tornare sulla Terra, trascorrendo un tempo significativamente più lungo del previsto sulla ISS.

Due astronauti, partiti a giugno per una missione di test della capsula Starliner di Boeing, che doveva durare una settimana, sono bloccati nello spazio. Attualmente si trovano bloccati sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a causa di problemi tecnici non risolti con la loro navicella. Originariamente dovevano rimanere nello spazio sette, dieci giorni al massimo e invece… Invece potrebbero essere costretti a restare fino alla prossima primavera, quando potrebbero essere riportati sulla Terra con un volo della Crew Dragon di SpaceX.
Situazione sempre più complessa e delicata
La NASA e Boeing sono in disaccordo su come procedere. Boeing suggerisce che il rientro con Starliner potrebbe essere sicuro dopo alcuni test. La NASA preferisce un approccio più cauto, cercando una soluzione definitiva ai problemi della navicella prima di autorizzare il ritorno degli astronauti. Tra le anomalie rilevate ci sono perdite di elio, problemi con le valvole, e malfunzionamenti nei propulsori, che hanno reso la Starliner inaffidabile per un viaggio di rientro sicuro.
Salvate i soldati Butch e Suni
Un’opzione che si sta valutando è l’invio della missione Crew-9 con soli due astronauti, invece dei quattro previsti, per consentire il rientro dei due astronauti bloccati. Tuttavia, questa missione è stata già posticipata e dovrà tenere conto anche della presenza di un cosmonauta russo, secondo un accordo bilaterale con l’agenzia spaziale russa.
Avranno sufficienti viveri?
Se i problemi della Starliner non verranno risolti, gli astronauti Butch Wilmore e Suni Williams potrebbero dover attendere fino al 2025 per tornare sulla Terra, trascorrendo un tempo significativamente più lungo del previsto sulla ISS.
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Italia
Molestie e stalking nel caseificio: capoturno condannato. L’operaia Angelina ritrova la sua dignità
Angelina Castrignano, vittima di molestie sul lavoro, trova giustizia: il capoturno condannato a tre anni di carcere. Per la vittima la fine di un incubo e l’inizio di una nuova vita.

«La fine di un incubo. Giustizia è stata fatta». Con queste parole Angelina Castrignano, 50 anni, di Pinerolo, celebra la sentenza che ha condannato il suo ex responsabile di turno a tre anni di carcere per stalking e violenze sessuali. Dopo anni di paura e umiliazioni, Angelina può finalmente tornare a vivere.
Una molestia dopo l’altra lo stalking è durato anni
Divorziata e madre di due figli ormai adulti, Angelina lavorava come addetta al confezionamento formaggi in un caseificio. Nel maggio 2022, dopo un primo mese di lavoro tranquillo, il suo responsabile ha iniziato a molestarla. Dapprima con tocchi sulla spalla, poi sulle cosce, fino a episodi più gravi come palpeggiamenti e minacce. «Mi seguiva ovunque – racconta Angelina – al supermercato, sotto casa. Convivevo con la paura». Nonostante le colleghe minimizzassero gli abusi, considerandoli «normali» per mantenere il lavoro, Angelina ha deciso di denunciare prima ai superiori e poi ai carabinieri.
Un calvario lungo e difficile
«Mi diceva che comandava lui e che, se non avessi fatto quello che voleva, non mi avrebbero rinnovato il contratto. Io volevo solo essere rispettata». Le molestie si sono trasformate in stalking, con il responsabile che la seguiva persino in bagno e la minacciava. «Mi sentivo umiliata e abbandonata, anche dall’azienda». Il 9 aprile, la giustizia ha finalmente dato ragione ad Angelina. La gup Angela Rizzo ha accolto la richiesta della pm Antonella Barbera, condannando l’imputato a tre anni di carcere con rito abbreviato. «Questa sentenza mi restituisce la mia dignità di donna e mi permette di ricominciare a vivere», ha dichiarato Angelina, che ora può guardare al futuro con speranza.
Storie vere
Taxi a guida autonoma: dal futuro possibile alla figuraccia in un batter d’occhio
Quando la tecnologia ci abbandona nel momento del bisogno.
Il sogno dell’auto che si guida da sola si scontra con la realtà.

Mike Johns, un imprenditore di Los Angeles, stava per prendere un volo. Aveva scelto la comodità di un taxi autonomo, ma quello che doveva essere un viaggio tranquillo si è trasformato in un’esperienza surreale. Seduto a bordo del veicolo senza conducente, Johns si è ritrovato intrappolato in un loop infinito, mentre l’auto girava in tondo nel parcheggio dell’aeroporto.
“Sembrava una scena di un film di fantascienza“, ha raccontato l’uomo in un video diventato virale sui social media. “Pensavo che qualcuno stesse scherzando o che l’auto fosse stata hackerata“. La realtà, purtroppo, era ben più prosaica: un semplice malfunzionamento del sistema di guida autonoma aveva trasformato un mezzo di trasporto in una gabbia mobile.
C’è da viaggiare ancora un po’ prima di avere fiducia sull’auto senza conducente
L’incidente, avvenuto lo scorso dicembre, ha messo in evidenza i limiti della tecnologia e ha sollevato interrogativi sulla sicurezza e l’affidabilità dei veicoli a guida autonoma. Se da un lato queste automobili promettono di rivoluzionare il modo in cui ci muoviamo, dall’altro dimostrano ancora di avere bisogno di importanti miglioramenti. L’episodio di Johns ha fatto il giro del mondo, alimentando il dibattito sulla reale utilità e sicurezza dei taxi senza conducente. Molti si chiedono se siamo davvero pronti ad affidare la nostra vita a macchine che possono commettere errori.
“Se questa è l’innovazione“, ha commentato Johns, “allora preferisco guidare da solo“. E in effetti, è difficile non condividere il suo scetticismo. L’idea di un’auto che si guida da sola è affascinante, ma finché queste tecnologie non saranno in grado di garantire una sicurezza assoluta, è difficile immaginare un futuro in cui i veicoli autonomi sostituiranno completamente quelli tradizionali.
Le sfide dell’automazione nei taxi
L’incidente di Johns ha messo in luce alcune delle sfide che devono ancora essere affrontate per rendere la guida autonoma una realtà sicura e affidabile.
La prima sfida riguarda i malfunzionamenti tecnici. I sistemi di guida autonoma, infatti, sono complessi e possono essere soggetti a errori, come dimostra l’episodio di Johns.
La seconda sfida che devono affrontare i produttori delle auto a guida autonoma riguarda una vasta gamma di condizioni ambientali a cui le auto sono sottoposte, dal traffico intenso alle condizioni meteorologiche avverse. Terza sfida: la sicurezza. È fondamentale garantire che i veicoli autonomi siano in grado di reagire in modo sicuro e tempestivo a situazioni impreviste. La guida autonoma solleva anche importanti questioni etiche, come ad esempio chi è responsabile in caso di incidente. Convincere le persone ad abbandonare il volante sarà sempre più difficile fino a quando non saremo in grado di garantire che i veicoli autonomi siano completamente sicuri.
Mondo
Su le mutande, siamo in guerra! Gli Usa vietano il sesso con i cinesi per paura delle spie
La nuova direttiva americana vieta agli impiegati e contractor in Cina di avere qualsiasi rapporto sentimentale o sessuale con la popolazione locale. L’eco della Guerra fredda torna sotto le lenzuola, tra ambasciate, consolati e campus universitari. Pechino reagisce allertando studenti, turisti e persino aziende. Intanto i social si stringono attorno al cestista Cui Yongxi, temendo che anche lui finisca vittima collaterale del gelo Usa-Cina.

Altro che spionaggio cibernetico e dazi commerciali: la nuova frontiera del conflitto tra Stati Uniti e Cina passa dalla biancheria intima. E anche stavolta, l’intelligence ha deciso che non si può più “scendere a compromessi”: d’ora in poi, i funzionari americani che operano nel territorio cinese dovranno tenere chiuse le braguette oltre che la bocca. Vietatissimi i flirt, proibiti i baci, aboliti gli amori da esportazione: chi sgarra viene impacchettato e rispedito in patria, con buona pace della diplomazia… e dei sensi.
La direttiva — che sa più di castità forzata che di sicurezza nazionale — è stata varata a gennaio per volere dell’ambasciatore Nicholas Burns, poco prima di levare l’ancora. Ma la mano che stringe il nodo della cravatta è quella, neanche troppo invisibile, dell’apparato federale, da tempo in allarme per le cosiddette “honey trap”: trappole al miele che non si trovano nei barattoli, ma tra le lenzuola. Il rischio? Che una notte focosa si trasformi in un incubo da dossier classificato.
Le agenzie americane in Cina — ambasciata di Pechino, consolati sparsi e persino Hong Kong — hanno ricevuto l’ordine tassativo: niente ammiccamenti, zero Tinder, nemmeno un caffè offerto per sbaglio. Solo chi è già regolarmente impegnato con un cittadino o una cittadina cinese può tirare un sospiro di sollievo e continuare a portare fiori. Tutti gli altri: muti, casti e controllati. I contractor della sicurezza si trovano così a fare la guardia con lo spray al peperoncino in una mano e il cilicio metaforico nell’altra.
La risposta di Pechino? Rapida, puntuale e vagamente passivo-aggressiva. Il Ministero della Cultura ha subito diffuso un messaggio rivolto a chi avesse in programma una gitarella negli Stati Uniti: “Valutate i rischi. Potreste incontrare un americano”. Come dire: se li riconoscete, evitateli. Se li amate, scappate. Meglio una vacanza in Siberia che in Florida, e non solo per il clima.
Ma non è finita qui. Il Ministero della Scuola ha lanciato un’allerta a tutti gli studenti cinesi che frequentano college e università a stelle e strisce. E il Ministero del Commercio ha affondato il colpo contro sei nuove compagnie americane accusate di vendere armamenti a Taiwan. Insomma: tu mi vieti il sesso, io ti taglio i droni.
Sullo sfondo, l’ombra lunga della propaganda. Quella che qualche anno fa, ai tempi del “China Virus” targato Trump, aveva acceso le micce del sospetto e della paranoia. Cinque anni dopo, siamo di nuovo lì. Anzi: peggio. Perché ora, oltre alle dogane, ci sono i letti monitorati e i cuori sotto sorveglianza.
A farne le spese potrebbe essere anche un ragazzo di 21 anni, del tutto ignaro della bufera geopolitica: Cui Yongxi, alias Jacky Cui, primo cinese nella storia dei Brooklyn Nets, squadra NBA controllata dal miliardario taiwanese-canadese Joseph Tsai. Lui corre, schiaccia, sorride. Ma sui social già si leva il coro: “Per favore, non fischiatelo. È solo basket, non è una guerra fredda”.
Peccato che oggi, in tempi di sanzioni incrociate, restrizioni affettive e amore blindato, anche un tiro libero possa sembrare un gesto sovversivo.
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