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Storie vere

Bibo, il re del kebab da 40 anni in Italia, trasforma il suo locale in un ristorante

L’egiziano 54enne Bahaa Ewis, detto Bibo, istituzione dello street food torinese diventa ristorante perché la gente è stufa di kebab.

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    Bahaa Ewis, meglio conosciuto come “Bibo“, è un’istituzione dello street food torinese. Nato 54 anni fa in Egitto, è arrivato a Torino nel 1984, quando aveva solo 14 anni. Quarto di sette figli, proveniva da una famiglia benestante, con un padre generale e un fratello che oggi è parlamentare. Ma la sua vivacità lo spinse a cercare nuove avventure in Italia, dove ha costruito un vero e proprio impero con il suo celebre Horas Kebab a San Salvario. Dopo 40 anni in Italia, Bibo annuncia una grande trasformazione: Horas diventerà un ristorante.

    La gente è stufa del kebab

    Perché cambiare? “La gente è stufa del kebab“, racconta Bibo, “dopo 25 anni e 250 kebab venduti al giorno, ho deciso di fare un salto di qualità”. Horas resterà anche fast-food, ma diventerà un ristorante di specialità egiziane, in un ambiente più curato.

    Per Torino ormai è un’istituzione

    Il nome Horas è ormai un brand conosciuto, anche sui social. Bibo ha deciso che sul muro del nuovo ristorante ci sarà la scritta “Benvenuti nel mio paese”. Bibo ha deciso anche di darsi un tono ed evitare alcune delle sue battute famose, come “ciao negro” o “ciao leghista”, che ha promesso di non usare più per evitare malintesi. “Era marketing per rompere il ghiaccio con i clienti, ma i tempi sono cambiati“, si schernisce oggi.

    Un passato di sacrifici

    Bibo ricorda con affetto i primi difficili anni in Italia. Arrivato a Torino senza conoscere la lingua, lavorava nei mercati generali per 5.000 lire al giorno. “Non capivo l’italiano e una signora mi cacciò dal suo mercato. Alla fermata del bus, ho aspettato quattro ore per incontrare un arabo che mi indicasse come tornare a Porta Nuova“, racconta. Dopo aver studiato la lingua Bibo ha lavorato come lavapiatti e si è fatto strada fino a diventare cuoco, imparando le ricette osservando i suoi colleghi.

    … quando un giorno arriva Luciano Moggi

    Uno dei momenti chiave della sua carriera è stato l’acquisto del locale in via Berthollet, dove si trovava il primo kebab del Piemonte. “Luciano Moggi mi ha fatto da garante per comprare il negozio”, racconta Bibo. Da qual momento il successo è stato travolgente, con clienti famosi come il calciatore juventino Zidane, che amava il suo risotto con zucchine, gamberi, zafferano e succo d’arancia.

    Dalla strada al ristorante

    Nonostante il successo Bibo ricorda che la sua vita non è stata priva di difficoltà. Come il pizzo che una sera dei balordi hanno iniziato a chiedergli “ma un amico poliziotto seduto lì vicino è intervenuto“. In un altro episodio, alcuni marocchini stavano pianificando di rapinarlo, ma un connazionale ha preso le sue difese: “Bibo mi ha aiutato quando sono arrivato in Italia, vedetevela con me“.

    Il suo impegno per l’integrazione

    Bibo ha sempre aiutato chiunque ne avesse bisogno, italiani e stranieri. Per lui, un immigrato deve essere ambasciatore del proprio Paese e diffondere la sua cultura. “Le persone razziste esistono in tutto il mondo. La scuola e la cultura possono fare la differenza”, dice. E a questo proposito in merito al dibattito sullo ius scholae lui che è diventato cittadino italiano 15 anni fa, ha le idee molto chiare. “Chi nasce e cresce qui è italiano. La politica non vuole il cambiamento, altrimenti avrebbero già fatto una legge. Gli europei vogliono divertirsi e non fanno più figli. È indispensabile una legge che riconosca l’attuale realtà, lo stato delle cose“. La sua cittadinanza l’ha attesa quasi nove anni perché nel suo fascicolo avevano scritto che ero un salafita. Io, dice ridendo, “al massimo sono un “terrorista” della cucina“.

      Storie vere

      Peccato! L’Autovelox non era omologato: annullata la multa per l’automobilista a 255 km/h

      Sfreccia in auto a 255 all’ora ma la maxi multa viene annullata: l’Autovelox non era omologato.

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        Lui tranquillo sfrecciava in auto a ben 255 km/h su un tratto autostradale con limite di 130, ma la multa salatissima gli è stata annullata per un errore burocratico. Mannaggia!! L’Autovelox usato per la contravvenzione non era omologato. Gasp! L’episodio risale allo scorso maggio quando un automobilista è stato multato per eccesso di velocità, con una sanzione di 845 euro e la sospensione della patente da 6 a 12 mesi.

        Provaci ancora Sam magari la prossima volta ti beccano per davvero

        L’automobilista, assistito dall’avvocato Gabriele Pipicelli di Verbania, ha presentato ricorso alla prefettura di Novara, che ha accolto le sue motivazioni. Il prefetto ha verificato infatti che lo strumento della Polizia Stradale, sebbene “approvato”, non risultava “omologato”, come richiesto dalla legge per validare le rilevazioni di velocità.

        Autovelox omologato, automobilista sanzionato!

        L’avvocato ha spiegato che il ricorso è stato fondato sulla giurisprudenza della Cassazione, che distingue tra “approvazione” e “omologazione” degli apparecchi di rilevazione. Solo quelli omologati garantiscono misurazioni legittime. Di fronte a questa discrepanza, il prefetto ha annullato la multa e tutte le sanzioni correlate, restituendo anche la patente all’automobilista.

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          Storie vere

          La fabbrica di cioccolato, per Rossella e i suoi colleghi è diventato un mondo che svanisce

          La storia di Rossella e dei 115 colleghi della fabbrica di cioccolato Barry Callebaut che ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra. Cercasi acquirente disperatamente…

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            C’era una volta, in un piccolo angolo d’Italia, una fabbrica che profumava di cacao, di sogni e di cioccolato. Per trent’anni, Rossella Criseo ne ha respirato l’aria, ne ha assaporato il gusto, ne ha sentito il ritmo. Un po’ come Charlie Bucket – personaggio principale del romanzo di Roald Dahl La Fabbrica di Cioccolato da cui sono stati tratte numerose versioni cinematografiche. Anche lei ha trovato nella fabbrica di cioccolato di Intra un mondo tutto suo, un microcosmo dove il tempo scorreva al ritmo dei macchinari e il profumo del cacao avvolgeva ogni cosa. Ma a differenza del fortunato protagonista del romanzo di Dahl, per Rossella questa fabbrica non è stata una porta magica verso un mondo incantato, bensì un luogo di lavoro, un pezzo della sua vita.

            Dal sogno all’incubo: vite sospese tra cioccolato e precarietà

            Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena diciotto anni, ero una ragazzina“, racconta Rossella con la voce velata dalla tristezza. “Ho vissuto più di trent’anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo“, dice sconsolata.

            Trent’anni di fedeltà ripagati con la disoccupazione: la rabbia dei lavoratori

            Eppure, la sua storia, e quella dei suoi 115 colleghi, è ben lontana dalla fiaba. La Barry Callebaut, la multinazionale svizzera che ha rilevato la fabbrica, ha deciso di chiudere lo stabilimento. “Da un giorno all’altro“, dice Rossella, “ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso. È come se ci avessero tolto il tappeto da sotto i piedi.” Rossella e i suoi colleghi hanno dato tutto per questa fabbrica. Hanno lavorato sodo, fatto straordinari, sacrificato il tempo libero. Si sono sempre dati da fare. “Siamo stati i primi in Italia a fare le ‘squadrette‘, a lavorare sette giorni su sette. E ora l’azienda ci ripaga così?“, dice con un retrogusto molto amaro. Lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente.

            Il marito conosciuto tra una squadretta al fondente e una al latte

            La loro fabbrica era più di un semplice luogo di lavoro. Era un pezzo della loro identità, un punto di riferimento per la comunità. “Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento“, ricorda Rossella. “Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più.” Ora, mentre si avvicina la data della chiusura, Rossella e i suoi colleghi vivono nell’incertezza. Il futuro per lei e il marito conosciuto in fabbrica, è un’incognita. “Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo“, confida. “I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere.”

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              Lana arcobaleno: una moda sostenibile e inclusiva grazie a ovini “gay”

              La collezione “Rainbow Wool” è un tentativo di unire moda, sostenibilità e inclusione. Utilizzando filati provenienti da lana ricavata da montoni scartati dagli allevamenti perché non più riproduttivi, si rivolge alle comunità Queer e LGBTQ+.

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                Al centro di una nuova e controversa tendenza nel mondo della moda c’è un’idea semplice ma a dir poco assai provocatoria. La lana creata grazie a ovini “gay.” Ovvero? Ovvero utilizzare la lana di ovini che, per scelta naturale o genetica, non si riproducono. Si tratta di ovini, spesso scartati dagli allevamenti tradizionali, che grazie a questa trovata diventano i protagonisti della collezione “Rainbow Wool“, un progetto che si propone di unire moda e sostenibilità, sostenendo al contempo le comunità LGBTQ+. Ma sarà etico attribuire un’orientamento sessuale umano agli animali? L’etichetta di “montoni gay” è stata oggetto di molte critiche, in quanto considera un comportamento naturale degli animali sotto una lente antropocentrica e riduttiva.

                Un filato speciale per un progetto inclusivo

                La lana di questi montoni, considerata un prodotto di nicchia e di alta qualità, viene utilizzata per creare una linea di abbigliamento che va dai cappelli alle toppe per le scarpe. Dietro questa iniziativa c’è l’idea di dare una nuova vita a questi animali, spesso destinati al macello, e di creare un prodotto esclusivo e sostenibile. Il ricavato della vendita della collezione sarà devoluto alla Lsdv+, la Federazione Queer Diversity in Germania, a sostegno dei progetti per l’uguaglianza e l’inclusione delle persone LGBTQ+. Ma sarà per davvero una moda sostenibile? La produzione di abbigliamento, anche se realizzato con materiali naturali e etici, comporta sempre un impatto ambientale. In questo come in casi analoghi sarebbe necessario valutare attentamente l’intero ciclo di produzione per garantire che questa iniziativa sia davvero sostenibile.

                Un testimonial d’eccezione e un’adozione da remoto

                Per lanciare la collezione “Rainbow Wool”, è stato scelto come testimonial Bill Kaulitz, frontman dei Tokio Hotel e noto influencer nel mondo della moda. Kaulitz, da sempre impegnato nella difesa dei diritti LGBTQ+, ha adottato due montoni della fattoria, sottolineando così il valore simbolico di questo progetto. L’adozione a distanza dei montoni è un’altra delle iniziative promosse dai creatori della collezione, con l’obiettivo di sostenere l’allevamento e garantire una vita dignitosa a questi animali.

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