Cronaca Nera
Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati
Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.
Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.
Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.
Come difendersi dallo spoofing
Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.
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Cronaca Nera
Mostro di Firenze: riesumati i resti di Francesco Vinci, l’ex moglie crede che sia ancora vivo
Esami sul DNA per verificare l’identità del cadavere trovato carbonizzato nel 1993. La famiglia sospetta una messa in scena. La riesumazione di Francesco Vinci potrebbe essere il tassello mancante di un puzzle complesso, che lega la sua vicenda personale a quella più ampia e tragica del Mostro di Firenze. Un’ombra lunga che continua a pesare sulla cronaca nera italiana.
Questa mattina, nel cimitero di Montelupo Fiorentino, sono stati riesumati i resti di Francesco Vinci, una delle figure chiave della cosiddetta “pista sarda” legata ai delitti del Mostro di Firenze. L’operazione è stata disposta dalla Procura di Firenze, ma la richiesta iniziale era partita dalla famiglia dello stesso Vinci. La vedova, Vitalia Velis, e i figli vogliono sapere se quel corpo ritrovato incaprettato e carbonizzato nel 1993 sia realmente il loro caro. Secondo la donna, infatti, il cadavere potrebbe non essere di Vinci, e sostiene addirittura di aver visto il marito ancora vivo dopo la sua presunta morte.
Chi era Francesco Vinci?
Originario di Villacidro, in Sardegna, Francesco Vinci era uno dei principali sospettati nella “pista sarda” sui delitti del Mostro di Firenze, il serial killer responsabile di otto duplici omicidi tra il 1968 e il 1985. Vinci fu incarcerato nel 1982, ma venne poi rilasciato quando, nel 1983, avvenne il delitto dei ragazzi tedeschi a Giogoli mentre lui era in prigione. La sua morte, avvenuta nel 1993, è sempre stata avvolta nel mistero.
Il macabro ritrovamento
Il corpo, trovato carbonizzato in una Fiat Uno nelle campagne di Chianni, vicino Pisa, era irriconoscibile. A complicare ulteriormente l’identificazione, il cadavere era privo delle mani, elemento che impediva un riconoscimento certo. All’epoca, Vinci fu identificato solo grazie a una fede e a un orologio trovati nel veicolo, oggetti che avrebbero potuto essere messi lì da chiunque. La situazione ha alimentato i sospetti della famiglia, convinta che il cadavere potesse non appartenere a lui.
Il sospetto della moglie e la riesumazione
La moglie Vitalia Velis ha raccontato di aver visto Francesco dopo la sua presunta morte, in un’auto, e di averlo perfino salutato. Un’ipotesi che sembrerebbe assurda, ma che ha spinto la famiglia a chiedere un esame del DNA per chiarire la questione. Ora, grazie alla riesumazione e all’analisi del materiale genetico, si cercherà di stabilire con certezza se i resti appartengano davvero a Vinci. L’esame comparativo del DNA verrà condotto con il materiale genetico dei figli e i risultati potrebbero finalmente chiudere questo capitolo ambiguo.
I dubbi degli inquirenti
Il criminologo Davide Cannella, che assiste la famiglia, ha sottolineato come, sin dall’inizio, ci siano state delle anomalie. “Dall’autopsia emergono elementi che non quadrano. Chi ha ucciso Vinci e Angelo Vargiu, trovato insieme a lui nell’auto, ha cercato di rendere impossibile il riconoscimento”, ha dichiarato. Mancano, infatti, le mani, e non è stato mai trovato il proiettile che avrebbe potuto fornire ulteriori indizi.
L’importanza del DNA
Il lavoro degli esperti sarà cruciale. Se il genetista riuscirà a estrapolare il DNA dai resti riesumati, verrà comparato con quello dei figli di Vinci. Questo permetterà di confermare, o smentire, l’identità del corpo ritrovato. In caso di corrispondenza, il campione genetico verrà inserito nella banca dati delle indagini sui delitti del Mostro di Firenze, un’inchiesta che, nonostante gli anni, continua a sollevare interrogativi e a cercare risposte.
Un’indagine senza fine
Alla riesumazione, oltre alle pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti, erano presenti anche i figli di Vinci e i loro consulenti: il genetista forense Eugenio D’Orio e il medico legale Aldo Allegrini. I resti sono stati trasportati all’istituto di medicina legale di Firenze, dove saranno esaminati dai periti. La speranza è che i risultati possano fornire un po’ di chiarezza a una storia che, a trent’anni di distanza, ancora non ha trovato il suo epilogo.
Cronaca Nera
“Meglio un figlio morto che come me”: la lettera di Filippo Turetta ai genitori dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin
Filippo, ora in attesa di giudizio, chiede ai genitori di rinnegare il loro legame e racconta il suo tentativo fallito di togliersi la vita. “Ho perso la persona più importante per me e tutto questo per colpa mia. Non esiste perdono, e non lo voglio”. La sentenza definitiva è attesa per il 3 dicembre.
“Ho perso la persona più importante, rinnegatemi”. Con queste parole Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, scrive ai suoi genitori dalla cella del carcere di Halle, in Germania, dove fu detenuto dopo essere stato arrestato. Una lettera che mostra tutta la disperazione di un giovane consapevole del gesto estremo che ha compiuto e del dolore che ha causato. La missiva è agli atti del processo che si è aperto ieri mattina a Venezia, dove Turetta è accusato di omicidio volontario aggravato da premeditazione, crudeltà, efferatezza, stalking e occultamento di cadavere.
Filippo si rivolge direttamente ai genitori, chiedendo loro di dimenticarlo e, se possibile, di rinnegare il loro legame: “Capirei e accetterei se d’ora in poi volete dimenticarmi e rinnegarmi come figlio… e probabilmente sarebbe la scelta migliore per la vostra vita. Probabilmente sarebbe meglio un figlio morto che un figlio come me”, scrive il 23enne nella lettera che risale al novembre del 2023, pochi giorni dopo l’omicidio della sua ex fidanzata, il cui corpo venne ritrovato sette giorni dopo, nella zona del lago di Barcis, in provincia di Pordenone.
Il tentativo di suicidio e il senso di colpa
Nella lettera, Filippo racconta anche di aver tentato il suicidio: “Ho provato a soffocarmi con un sacchetto di plastica in testa, ma all’ultimo l’ho strappato. Volevo fare un incidente mortale, un frontale contro un muro o albero, che non mi lasciasse scampo, ma neanche in questo sono riuscito”. Le sue parole tradiscono una consapevolezza amara e dolorosa: “Sono stato la maggior parte delle ore degli ultimi giorni seduto in macchina puntandomi il coltello alla gola o al torace, aspettando di riuscire a sferrare i colpi. Invidio molto chi ha avuto il grande coraggio di farlo, a differenza mia”.
La lettera continua con un’ammissione di colpa che cerca una sorta di giustificazione impossibile: “Ho perso la persona che è tutto per me e che da due anni penso ininterrottamente ogni giorno… e tutto questo per colpa mia. Non so perché l’ho fatto, non avrei mai pensato o voluto succedesse niente del genere. Io non sono cattivo, lo giuro… Vorrei tutto tornasse indietro e non fosse successo niente”.
Il dolore dei genitori e l’attesa della sentenza
Non ci saranno testimoni durante il processo, ma questa lettera sarà uno degli elementi centrali del dibattimento. Il prossimo 25 ottobre, Filippo Turetta verrà interrogato in aula dai giudici della Corte d’Assise di Venezia. Seguiranno altre quattro udienze prima della sentenza, attesa per il 3 dicembre. Intanto, il padre di Giulia, Gino Cecchettin, continua a battersi perché la storia della figlia non venga dimenticata e diventi un simbolo di lotta contro la violenza sulle donne.
“Non sapevo e non avrei immaginato che sarei diventato così famoso e questo mi fa tanta paura. Ho generato tanto odio e tanta rabbia. E me lo merito”, scrive ancora Filippo ai suoi genitori. Un riconoscimento di colpa che, però, non attenua il dolore di una famiglia e di una comunità intera devastata dalla perdita di Giulia.
“Mi merito tutto questo dopo quello che ho fatto. Non sono neanche riuscito a uccidermi… vivrò la mia intera vita in carcere… non potrò più laurearmi, conoscere persone, avere una famiglia e godere di quello che ho già…”, conclude Filippo. Parole che non lasciano spazio a giustificazioni, ma che segnano l’inizio di un percorso giudiziario destinato a concludersi con una sentenza che sarà, inevitabilmente, una condanna per un gesto che ha tolto la vita a una giovane ragazza e distrutto molte altre esistenze.
Cronaca Nera
Caso Sharon Verzeni: sul coltello dell’omicidio nessuna traccia di sangue, ma il giudizio immediato per Sangare è vicino
Nonostante l’assenza di tracce di sangue sul coltello usato per uccidere Sharon Verzeni, Moussa Sangare potrebbe affrontare un giudizio immediato grazie alla sua confessione e a ulteriori prove. Il dettaglio inatteso emerso dai Ris apre però domande inquietanti su un caso che ha scosso la comunità.
Un dettaglio sorprendente scuote l’inchiesta sull’omicidio di Sharon Verzeni: sul coltello indicato come arma del delitto da Moussa Sangare, reo confesso, non è stata rinvenuta alcuna traccia di sangue della vittima. Questo particolare, emerso dalle analisi dei Ris e riportato dal Corriere della Sera, solleva interrogativi, ma non impedirà alla Procura di procedere con il caso. Infatti, le autorità giudiziarie, convinte della colpevolezza del 33enne, sono pronte a richiedere il giudizio immediato.
L’omicidio di Sharon Verzeni: ricostruzione e prove
La sera del 30 luglio, Sharon Verzeni, 33 anni, viene accoltellata mentre si appresta a fare una camminata serale a Terno d’Isola, in provincia di Bergamo. Estetista e impiegata in un bar, Sharon viveva con il compagno, Sergio Ruocco, che era rimasto addormentato a casa quella notte. La giovane donna non ha mai fatto ritorno, vittima di un’aggressione brutale che le ha tolto la vita con tre coltellate. La perdita ha lasciato un vuoto profondo: Ruocco, colpito dal lutto, ha lasciato la casa condivisa con Sharon e vive dai suoi suoceri a Bottanuco, segnato dalla tragedia.
Il mistero dell’assenza del Dna
L’arma, nascosta vicino al fiume Adda, non ha conservato tracce del sangue di Sharon. Secondo gli esperti, il terreno umido potrebbe aver cancellato i residui ematici, complicando l’analisi genetica. Questo dettaglio ricorda il caso di Yara Gambirasio, nel quale erano stati utilizzati test su vasta scala per rintracciare il colpevole, una pista che qui si è però rivelata non praticabile. In questo caso, il Dna non è stato determinante, ma la confessione di Sangare e le prove tecnologiche raccolte sembrano più che sufficienti.
Un giudizio immediato per chiudere il caso
Grazie alla confessione di Sangare e agli indizi raccolti tramite telecamere e analisi dei telefoni, il pubblico ministero Emanuele Marchisio punta a un rapido processo, senza ulteriori indagini. L’assenza di tracce ematiche non mette quindi in dubbio la colpevolezza del sospettato, ma aggiunge un tassello inquietante a una vicenda già carica di dolore e rabbia.
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