Sic transit gloria mundi
Trump 2.0 e il suo governo degli impresentabili: la provocazione calcolata che divide il Congresso e tira in ballo il deep state
Matt Gaetz alla Giustizia nonostante le accuse di sesso con una minorenne, Pete Hegseth al Pentagono senza alcuna esperienza militare e con uno scandalo di aggressione sessuale sulle spalle. Tulsi Gabbard alla guida dell’intelligence accusata di rapporti ambigui con Mosca e Robert Kennedy Jr. alla Sanità, no vax e complottista. Trump sfida apertamente il Senato e l’establishment con una squadra di nomine che sembra fatta apposta per scatenare polemiche, puntando sul caos per consolidare il suo potere e rilanciare la sua narrativa contro il “deep state” che gli impedirebbe di governare.
Donald Trump non è mai stato il tipo da passare inosservato. Ma con la lista delle nomine per la sua seconda amministrazione, il presidente sembra aver deciso di trasformare la politica americana in un esperimento sociologico senza precedenti. È difficile guardare alla sua squadra di candidati senza chiedersi se ci troviamo davanti a un atto deliberato di sabotaggio del sistema, una provocazione calcolata per scatenare polemiche e consolidare la sua narrativa di “vittima del deep state”. O, più semplicemente, l’ennesima prova che Trump non ha mai avuto interesse a governare come un presidente razionale, ma solo a interpretare il ruolo dell’outsider perenne in lotta contro i poteri forti. Un chiagni e fotti, per dirla con una popolare vulgata napoletana, spinto all’estremo.
Ecco allora che Trump propone una squadra che sembra uscita più da un romanzo distopico che da una lista di governo. Nomine che lasciano interdetti persino i più fedeli sostenitori repubblicani, costringendo il Senato a una battaglia già esplosiva prima ancora di iniziare. Quattro i nomi sotto accusa, che ben difficilmente passeranno al vaglio del Senato: Matt Gaetz, plurinquisito e con accuse pesanti di rapporti sessuali con una minorenne, dovrebbe prendere il controllo del Dipartimento di Giustizia. Pete Hegseth, ex commentatore televisivo con nessuna esperienza di ruoli di comando militare, è destinato al Pentagono, l’istituzione più imponente della macchina statale americana. Tulsi Gabbard, ex democratica con dichiarate simpatie filo-russe, dovrebbe guidare l’intelligence nazionale. E Robert Kennedy Jr., complottista no vax e figura controversa persino tra i repubblicani, dovrebbe occuparsi di Sanità. Un cast che sembra più una dichiarazione di guerra al sistema che una proposta di governo.
Partiamo da Matt Gaetz, la nomina più esplosiva e controversa. Il deputato della Florida si porta dietro una serie di scandali che lo rendono praticamente indifendibile. Accusato di aver avuto rapporti sessuali con una diciassettenne, la sua vicenda ha visto il coinvolgimento del Comitato Etico della Camera, che non ha ancora concluso le indagini. La ragazza in questione ha testimoniato confermando i rapporti, ma Gaetz si difende sostenendo di non essere stato a conoscenza della sua età. Anche se l’inchiesta non ha portato a incriminazioni formali, il caso ha già fatto danni enormi alla sua immagine, alimentando l’odio persino tra i colleghi repubblicani, molti dei quali lo considerano ormai un personaggio tossico. Non aiuta il fatto che Gaetz abbia giocato un ruolo cruciale nella cacciata dello speaker repubblicano McCarthy, inimicandosi mezzo Congresso. Eppure, per Trump, questi scandali non sono un problema, ma quasi un requisito. Gaetz è un fedelissimo, un uomo disposto a tutto pur di proteggere il presidente e piegare il Dipartimento di Giustizia ai suoi ordini. Che sia un personaggio divisivo e screditato sembra essere un dettaglio irrilevante.
Poi c’è Pete Hegseth, altro fedelissimo di Trump, famoso più per la sua carriera da commentatore televisivo su Fox News che per competenze militari o amministrative. Trump lo ha scelto per il Pentagono con un obiettivo ben preciso: epurare i generali “woke” e trasformare l’esercito in un baluardo di fedeltà trumpiana. Ma Hegseth porta con sé non solo un curriculum vuoto, ma anche uno scandalo di aggressione sessuale. Nel 2017, secondo uno scoop di Vanity Fair, è stato accusato di aver molestato una donna durante un congresso della National Federation of Republican Women. Anche se non ci sono state incriminazioni, l’episodio alimenta ulteriori dubbi sulla sua idoneità a guidare l’apparato militare più potente al mondo. Come sempre, Trump sembra ignorare le competenze in favore della fedeltà personale.
La nomina di Tulsi Gabbard alla direzione dell’intelligence solleva altrettanti dubbi. Gabbard, ex deputata democratica passata a posizioni sempre più vicine alla destra trumpiana, è vista con grande sospetto per i suoi rapporti ambigui con la Russia e il suo filo-putinismo dichiarato e quasi sbandierato in dichiarazioni e interviste. Affidare i segreti più delicati della sicurezza nazionale a una figura del genere appare come una provocazione diretta, persino per molti repubblicani che vedono in questa scelta un rischio enorme per la sicurezza del paese. Trump, però, sembra puntare proprio su questa ambiguità, cercando di sfidare l’establishment e spingere ancora di più l’idea che il sistema sia ostile a chiunque non ne faccia parte.
Infine, Robert Kennedy Jr. alla Sanità. La sua nomina è forse la più ironica di tutte. Famoso per le sue teorie complottiste e per il negazionismo vaccinale, Kennedy rappresenta tutto ciò che il sistema sanitario americano dovrebbe combattere. Ma non è solo il suo complottismo a renderlo impresentabile: Kennedy è visto come troppo abortista dall’ala più conservatrice del partito repubblicano, rendendolo una figura divisiva non solo per i liberal, ma anche per molti tra i suoi stessi alleati politici. Tuttavia, è proprio questa capacità di polarizzare che sembra attrarre Trump, che lo vede come un alleato ideale per la sua battaglia contro le istituzioni tradizionali.
La strategia dietro queste nomine appare chiara. Trump non sta cercando un governo funzionale, ma una squadra di combattenti disposti a scendere in trincea con lui, a costo di distruggere ogni convenzione. Sa benissimo che il Senato avrà enormi difficoltà a confermare candidati con un passato così compromesso. Ma per Trump, le bocciature sono una vittoria. Ogni rifiuto del Senato diventerà un pretesto per gridare al complotto del “deep state”, dipingendosi ancora una volta come vittima di un sistema corrotto che vuole impedire la sua rivoluzione.
C’è poi un’alternativa ancora più estrema: i recess appointments. Questa norma poco usata, nata in un’epoca in cui i senatori viaggiavano a cavallo, permette al presidente di nominare funzionari temporanei quando il Congresso è in pausa. Trump potrebbe usarla per bypassare il Senato e lasciare che i suoi fedelissimi rimangano in carica almeno fino alla prossima sessione. Sarebbe una mossa brutale, che però rischierebbe di alienargli anche molti tra i repubblicani moderati, già scettici nei confronti della sua gestione caotica.
In entrambi i casi, Trump sembra perseguire il caos come strategia politica. La sua priorità non è mai stata quella di governare nel senso tradizionale del termine, ma di creare una narrativa di lotta perpetua contro i poteri forti. Questa squadra di impresentabili non è altro che l’ennesimo capitolo di una saga in cui il caos è l’unica costante, e Trump il protagonista indiscusso. Perché, nel bene e nel male, il trumpismo non è mai stato una questione di politica, ma di puro spettacolo. E in questo The Donald è un maestro indiscusso.
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Se questo è un uomo: quando l’Olocausto è più attuale che mai
Aerei che decollano con uomini in catene. Navi che solcano il mare con il loro carico umano verso centri di detenzione. Mentre guerre e persecuzioni devastano il mondo, le potenze democratiche scelgono la via più antica: deportare, smistare, rimuovere. E nel Giorno della Memoria, il monito di Primo Levi suona più forte che mai.
Oggi è il Giorno della Memoria, il giorno in cui il mondo intero dovrebbe fermarsi a riflettere sulla tragedia dell’Olocausto, il più grande abominio della storia dell’umanità. Eppure, proprio in questo giorno, le immagini che arrivano dagli Stati Uniti e dall’Italia fanno rabbrividire. Uomini incatenati, caricati sugli aerei come bestie per essere deportati in massa. Migranti stipati su navi dirette in Albania, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Lo abbiamo già visto. Sappiamo dove porta questa strada.
Negli Stati Uniti, Donald Trump lo aveva promesso e ora i suoi eredi lo stanno realizzando: voli speciali per rispedire i migranti al mittente, in manette, con catene ai polsi e alle caviglie, come criminali. Scene da film in bianco e nero, che ricordano un tempo che credevamo superato. Ma non è un film. È il 2025.
In Italia, il governo di Giorgia Meloni ha trovato un modo per evitare il “problema” dei migranti: non li tiene sul suolo nazionale, li carica sulle navi e li manda in Albania. Non sappiamo cosa succederà loro una volta arrivati nei centri di detenzione. Non sappiamo cosa li aspetta dopo la traversata. Ma sappiamo cosa significa, nella storia, quando gli esseri umani vengono trasferiti forzatamente da un Paese all’altro, senza diritti, senza voce, senza speranza.
E mentre il mondo brucia nelle guerre, mentre Gaza è un cimitero a cielo aperto e l’Ucraina continua a contare i morti, l’Occidente, che si vanta dei suoi valori democratici, rispolvera vecchi metodi: deportare, smistare, allontanare il problema.
Se questo è un uomo, oggi più che mai dovremmo chiederci cosa stiamo diventando. La Storia non è un racconto scritto nei libri: è qui, nelle nostre scelte, nei nostri silenzi. Primo Levi ci ha lasciato un monito: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. Ma se la conoscenza non diventa azione, indignazione, resistenza, allora non abbiamo imparato nulla.
La domanda è: quanto manca al prossimo passo?
Sic transit gloria mundi
La scalata social di Giorgia Meloni: 11 milioni di follower e un primato che scalza Salvini dal trono digitale
Con oltre 11 milioni di follower e una crescita vertiginosa di quasi 2,5 milioni in un anno, Giorgia Meloni diventa il leader politico più seguito in Italia, scalzando per la prima volta Matteo Salvini. Merito di una strategia social ben bilanciata, tra contenuti istituzionali, slogan populisti e vicinanza ai cittadini, e di un’esposizione internazionale che le ha portato migliaia di nuovi fan, soprattutto dall’India, grazie al rapporto con Modi.
Giorgia Meloni non smette di sorprendere, nemmeno sui social. Se pensavate che il primato di Matteo Salvini fosse inattaccabile, preparatevi a rivedere le vostre certezze: per la prima volta, la premier supera il leader della Lega per numero di follower. Un evento storico? Forse no, ma sicuramente emblematico di come la comunicazione politica si stia evolvendo, passando sempre più dal tradizionale al digitale.
I numeri parlano chiaro: con oltre 11 milioni di follower, una crescita di quasi 2,5 milioni in un anno e una post interaction media superiore all’1,8%, Giorgia Meloni ha conquistato la vetta della classifica stilata da DeRev, società specializzata in strategia e comunicazione digitale. Un traguardo che non arriva per caso, ma grazie a una strategia tanto mirata quanto efficace.
Il 2024 segna la seconda conferma consecutiva per Meloni come regina dei social politici italiani. Salvini, abituato a dominare la scena, deve accontentarsi del secondo posto con quasi 10 milioni di follower e una crescita piuttosto contenuta rispetto alla premier: appena 194mila nuovi seguaci nell’ultimo anno. Un sorpasso che non è solo una questione di numeri, ma anche di impatto e visione internazionale.
Ma come ha fatto Giorgia Meloni a compiere questa impresa? Secondo Roberto Esposito, Ceo di DeRev, la recente esposizione internazionale ha giocato un ruolo chiave. “I social sono un mezzo di comunicazione senza confini – spiega Esposito – e l’attenzione globale su Meloni, a partire dagli Stati Uniti fino all’India, ha avuto un effetto trainante.”
Un esempio su tutti? L’incontro con il premier indiano Narendra Modi, che ha portato un’ondata di nuovi follower dall’India, un paese con una delle community social più attive al mondo. Non è un caso che, come sottolinea lo stesso Esposito, il post più popolare tra quelli pubblicati dai leader politici italiani sia proprio quello che ritrae Meloni insieme a Modi.
Eppure, non è solo questione di fortuna o circostanze favorevoli. La premier ha saputo costruire una presenza digitale ben bilanciata, che mantiene un tono istituzionale senza perdere il contatto con i cittadini. Un equilibrio non facile, soprattutto per chi ricopre una carica così delicata. Meloni riesce a parlare al suo elettorato con post autentici, alternando immagini ufficiali a momenti più personali, come i saluti natalizi o le giornate con la famiglia.
La classifica di DeRev non si limita a misurare il numero di follower, ma prende in considerazione diversi indicatori: crescita dell’audience, numero di interazioni e post pubblicati. Dietro a Meloni e Salvini troviamo Giuseppe Conte, Carlo Calenda ed Elly Schlein, mentre Matteo Renzi e Antonio Tajani chiudono la graduatoria. Insomma, una mappa del consenso social che riflette, in parte, i rapporti di forza della politica italiana.
E Salvini? Il leader della Lega, che per anni ha dominato il panorama social con i suoi post diretti e spesso provocatori, sembra aver perso un po’ di smalto. Forse paga lo scotto di una strategia comunicativa che non si è evoluta al ritmo delle nuove tendenze. Oppure, più semplicemente, è stato scalzato da una leader che ha saputo interpretare meglio il momento storico.
Guardando al futuro, la sfida per Meloni sarà mantenere il suo primato. Se il 2024 ha confermato la sua forza, il mondo digitale cambia rapidamente e non concede pause. Tuttavia, una cosa è certa: il suo approccio strategico e la capacità di adattarsi ai contesti fanno di lei una leader che sa giocare con abilità su tutti i fronti, compreso quello dei social.
Per ora, la premier può godersi questo ennesimo traguardo, con buona pace degli altri leader politici. Chissà che il sorpasso social non sia il preludio a un nuovo capitolo per la comunicazione politica italiana. In ogni caso, Giorgia Meloni ha dimostrato che, per vincere, non basta essere presenti: bisogna essere rilevanti. E su questo, al momento, non sembra avere rivali.
Sic transit gloria mundi
Donald & Melania, il matrimonio di ghiaccio: 20 anni insieme, ma solo sui social
Il tycoon dedica alla moglie un messaggio talmente freddo che sembra scritto con i guanti, mentre lei sceglie il silenzio. Nessun commento, nessuna reazione. Un’unione sempre più congelata.
Donald e Melania Trump hanno (ufficialmente) festeggiato il loro ventesimo anniversario di matrimonio. Il condizionale è d’obbligo, perché il clima di celebrazione pare sia stato lo stesso di un ricevimento nuziale in una camera frigorifera.
L’ex presidente ha deciso di onorare la ricorrenza con un post su X (ex Twitter), in cui si è sforzato di scrivere: «Buon 20esimo anniversario a Melania!». Parole caldissime, certo. Peccato che il tutto fosse accompagnato da una foto sgranata del giorno delle nozze, celebrate nel 2005 a Palm Beach, nella chiesa episcopale di Bethesda-by-the-Sea.
Sull’account @potus, invece, Trump ha alzato (di poco) il livello dell’impegno, pubblicando una foto più recente della coppia, con una dedica che sembra scritta da un ufficio stampa in modalità pilota automatico: «Festeggiando 20 anni con la mia bellissima moglie e la nostra incredibile First Lady, Melania. Sei una moglie straordinaria e una mamma meravigliosa. Buon anniversario».
E Melania? Ha risposto con il più sonoro dei silenzi. Nessun like, nessun repost, nessun accenno di gratitudine digitale. D’altronde, il matrimonio tra il tycoon e l’ex modella slovena sembra ormai una faccenda più formale che sentimentale. L’ultima volta che si erano scambiati un bacio in pubblico risale all’Inauguration Day del 2017, e già allora sembrava forzato come un sorriso alle dogane.
Se Trump sperava in una risposta affettuosa, forse ha dimenticato che per farla arrivare servirebbe almeno un po’ di calore. E il loro anniversario, più che una celebrazione d’amore, sembra l’ennesima conferma di un matrimonio di cartongesso, perfetto per le foto, ma fragilissimo nella realtà.
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