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Sic transit gloria mundi

Bossi, tessera numero uno dei ribelli nordisti: la provocazione al vertice della Lega lombarda

Paolo Grimoldi, espulso dal Carroccio per le sue critiche a Matteo Salvini, consegna al Senatur la tessera numero uno della nuova associazione ‘Patto per il Nord’. Dure le parole contro l’attuale linea politica del partito e il simbolo ‘Salvini premier’.

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    Umberto Bossi si riprende la scena politica, almeno simbolicamente. Nel giorno dell’incoronazione di Massimiliano Romeo come nuovo segretario della Lega lombarda, spicca la provocazione orchestrata dalla fronda dei bossiani. Paolo Grimoldi, ultimo segretario regionale eletto prima del commissariamento e oggi espulso dal Carroccio, ha annunciato con enfasi la nascita della nuova associazione Patto per il Nord, assegnando al Senatur la tessera numero uno e nominandolo “presidente ad honorem”.

    Un gesto dal forte valore simbolico, che Grimoldi accompagna con dichiarazioni al vetriolo contro l’attuale leadership del partito. “La Lega non esiste più. Oggi, purtroppo, c’è solo la ‘Salvini premier’, uno dei tanti partiti assistenzialisti”, tuona Grimoldi, che punta il dito contro la linea politica del segretario federale. Il nuovo movimento rivendica il ritorno ai principi fondativi del Carroccio: meritocrazia, federalismo e libertà, concetti che, secondo Grimoldi, Bossi incarna da sempre.

    Prima del Patto per il Nord, Grimoldi aveva già lanciato il Comitato Nord, un gruppo interno di bossiani nato per chiedere un ritorno alle origini e contestare alcune scelte strategiche. Tra queste, la candidatura del generale Roberto Vannacci alle Europee e una linea politica percepita come troppo lontana dal territorio. Grimoldi, insieme ad altri dissidenti, aveva anche scritto a Salvini chiedendo un cambio di rotta, senza però ottenere risposta.

    “La speranza non muore mai, e Romeo è il miglior segretario possibile per la Lombardia – aggiunge Grimoldi – ma bisogna cambiare tutto: linea politica, segretario federale e persino il nome. ‘Salvini premier’ va tolto dal simbolo”. Nel frattempo, i ribelli non mollano la presa. Il Patto per il Nord si propone come alternativa concreta, riportando il Senatur al centro di una battaglia per ridare alla Lega il ruolo che aveva agli albori.

    Il gesto della tessera d’onore a Bossi non è solo un tributo al passato, ma un chiaro messaggio di sfida a Salvini e ai vertici del partito. La tensione all’interno della Lega cresce, e il malcontento della base potrebbe essere un elemento chiave per capire il futuro di un movimento che, tra fratture e ambizioni, sembra sempre più lontano dalle sue origini.

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      Conte sogna telefonate infinite a Putin, Grillo sogna teatri pieni: l’ex garante del M5S prepara uno show per sfottere Giuseppi (e salvare il portafogli)

      Beppe Grillo, archiviato il ruolo di garante del M5S e con 300mila euro in meno in tasca, si prepara a tornare sul palco per un tour teatrale che promette di sfottere Conte e le nostalgie geopolitiche del leader pentastellato. Dall’idea di “massacrare Putin di telefonate” alla realtà di una politica in frantumi, il nuovo show punterà su sarcasmo, vendetta e monologhi taglienti.

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        Beppe Grillo si rimette in gioco. No, non in politica – quella ormai gli paga poco e lo diverte ancora meno – ma sul palcoscenico, dove può tornare a fare quello che gli riesce meglio: sfottere chiunque si trovi a tiro, con particolare predilezione per Giuseppe Conte. Sì, proprio lui, l’ex premier diventato leader di quel Movimento 5 Stelle che Grillo aveva fondato con la pretesa di cambiare il mondo e che oggi gli sembra solo un triste simulacro di sé stesso. Così, mentre Giuseppi si immagina grande federatore delle forze progressiste, Grillo si chiude nella sua villa a Sant’Ilario per preparare un tour teatrale in cui sparare a zero sull’ex pupillo.

        La guerra personale tra i due va avanti ormai da mesi, con la delicatezza di due rinoceronti in una cristalleria. Grillo, estromesso dal ruolo di garante del Movimento e alleggerito di quei 300mila euro annui che gli spettavano come consulente, ha deciso di vendicarsi nel modo più spettacolare possibile: uno show teatrale che si preannuncia un lungo monologo contro il Mago di Oz – o Oz Onoda, l’ultimo samurai, a seconda dei giorni – e tutto ciò che rappresenta. Perché, se la politica non paga più, gli spettatori forse sì. E Grillo sa bene che, con Conte come bersaglio, il materiale non manca.

        Giuseppe Conte, dal canto suo, non se la passa meglio. Lo immagini seduto alla scrivania, con lo sguardo serio e un telefono in mano, mentre si chiede perché nessuno lo abbia chiamato per risolvere la guerra in Ucraina. “Se fossi stato io presidente del Consiglio – ha recentemente spiegato con tono solenne – avrei massacrato Putin di telefonate. L’avrei sfinito, gli avrei imposto condizioni onorevoli.” E, magari no, non stava scherzando. Nella testa di Conte questa fantapolitica dell’assurdo sembra avere un senso: rompere l’anima a un dittatore per convincerlo a ritirare per sfinimento le truppe con cui ha invaso un Paese vicino, tutto a colpi di squilli e monologhi. Altro che diplomazia. Chissà, forse immagina anche di ricevere il Nobel per la Pace con una motivazione tipo: “Per aver battuto il record di chiamate perse nella storia delle telecomunicazioni.”

        Mentre Conte sogna di essere il mediatore internazionale che risolve tutto con un telefono e una buona dose di insistenza, Grillo si gode lo spettacolo dalla sua villa. Lo immagini che se la ride a crepapelle leggendo i giornali e immaginando Putin rispondere: “Basta, basta Giuseppi! Ritiriamo le truppe, ma smettila di chiamare!” E poi: “Questo lo metto nello spettacolo, non può non far ridere.” Perché sì, nel suo nuovo tour, Conte sarà il protagonista assoluto di una serie infinita di battute e sketch che Grillo sta già preparando con i suoi autori. E poco importa se l’ex avvocato del popolo preferirebbe essere ricordato per la sua “visione geopolitica”. Sul palco di Grillo, sarà ricordato per la sua presunta capacità di logorare persino un dittatore con la potenza del telefono.

        Intanto, il leader del Movimento, tra un’intervista e l’altra, non perde occasione per prendersela con Grillo e la sua “campagna di livore e ingiurie”. E di smarcarsi dagli alleati del PD che più che alleati sembrerebbero i suoi nemici giurati. Lo fa con quella tipica aria di superiorità che nasconde a malapena il nervosismo e confessa: “Io non posso certo competere con Grillo in quanto a sarcasmo e battute.” Un’autodifesa che suona un po’ come un’arrampicata sugli specchi, mentre il comico genovese si prepara a trasformare quelle stesse offese in biglietti venduti.

        Nel frattempo, Grillo non si limita a raccogliere materiale contro Conte: vuole fare cassa e prendersi una rivincita. Dopo il flop del suo ultimo tour, “Io sono un altro”, che tra teatri semivuoti e battute stantie non aveva lasciato il segno, ora punta a un ritorno in grande stile. Sarà un tour tutto “politico”, fatto di monologhi taglienti contro Conte, la classe dirigente del Movimento 5 Stelle e, probabilmente, chiunque si metta sulla sua strada. Perché se c’è una cosa che Grillo ha capito è che, quando la politica ti chiude le porte, il teatro resta sempre un’opzione.

        Mentre Grillo prepara lo show, Conte continua a inseguire il sogno di essere preso sul serio. Ma anche qui non gli va benissimo. Il Pd, che una volta lo definiva “un punto di riferimento fortissimo”, stufo dei suoi chiari di luna, lo considera ora poco più di un alleato scomodo. E il governo Meloni lo ignora con una certa nonchalance. Lui, però, non si arrende. Ogni intervista è un’occasione per parlare di come avrebbe potuto fare meglio, di come gli italiani vogliono la pace e di come lui, a Palazzo Chigi, avrebbe potuto salvare il mondo con una serie di telefonate strategiche. Peccato che, nella realtà, non sia rimasto molto a cui aggrapparsi.

        E così, mentre Grillo affila le sue battute e Conte mette a punto le sue nostalgie geopolitiche, il pubblico si prepara a scegliere da che parte stare. Meglio l’Elevato o il Mago di Oz? Forse nessuno dei due, perché in fondo, che si tratti di politica o di teatro, ciò che conta davvero è che lo spettacolo continui. Su questo, almeno, i due litiganti sembrano essere perfettamente d’accordo.

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          Matteo Salvini e la giornata da incubo: Pier Silvio lo bacchetta, il Tar lo stoppa, Open Arms lo aspetta. Le disavventure di un povero ministro in mezzo ai guai.

          Un giorno da dimenticare per Matteo Salvini, bloccato dal Tar sullo sciopero, colpito dalla Cassazione sull’autonomia, in attesa del verdetto su Open Arms e criticato da Pier Silvio Berlusconi. Quando il destino decide di prenderti a schiaffoni, non c’è via di scampo.

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            Se fosse una giornata normale, Matteo Salvini si troverebbe al solito: tweet, video in diretta, un selfie con una bella fetta di panettone artigianale e uno con la cioccolata calda, poi via con gli impegni. Ma oggi, il destino ha deciso di farlo protagonista di una personalissima versione di Fantozzi al governo. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha ricevuto più ceffoni in dodici ore che in un’intera carriera politica, al punto che sembra quasi che tutti abbiano deciso di fargliela pagare nello stesso giorno. Un vero nubifragio di brutte notizie per il prode vice primo ministro, che oggi si è trovato al centro di una tempesta perfetta di sberle giudiziarie, politiche e mediatiche da far impallidire un protagonista di commedia anni ’70. Mancava solo il secchio d’acqua in testa e un cane che gli morde la gamba per completare il quadro.

            La giornata nera del leader leghista si apre con il verdetto del Tar del Lazio, che blocca l’ordinanza firmata dallo stesso Salvini per ridurre lo sciopero dei trasporti di domani, 13 dicembre, a sole quattro ore. Una decisione presa senza troppi complimenti: secondo il Tribunale amministrativo, lo sciopero deve fare il suo corso, disagi inclusi. Perché sì, lo sciopero è proprio quella cosa che causa disagi, e cercare di limitarlo senza una giustificazione straordinaria è un po’ come voler togliere le spine dalle rose perché pungono.

            Con un decreto monocratico, il Tribunale ha accolto il ricorso dell’Unione Sindacale di Base (Usb) e sospeso l’ordinanza ministeriale. La motivazione? Salvini non può decidere di “precettare” senza che ci siano ragioni urgenti e straordinarie. Il Tar, con la grazia di un insegnante severo ma giusto, ricorda al ministro che i problemi causati dallo sciopero sono “fisiologici” e non necessitano di interventi draconiani. Insomma, la prossima volta, meglio pensarci due volte prima di mettere mano alla penna per fermare quello che è un sacrosanto diritto di sindacati e lavoratori.

            Non passa nemmeno un’ora e arriva il secondo ceffone: la Cassazione ha pensato bene di aggiungere il suo contributo alla giornata di fuoco del ministro, dando il via libera al referendum per l’abrogazione totale dell’autonomia differenziata, uno dei cavalli di battaglia storici della Lega. Sì, proprio quella riforma che Salvini ha sventolato come una bandiera, quella che doveva essere la riforma simbolo del Nord operoso e indipendente finisce in balia delle urne e sarà il popolo a decidere se tagliarla fuori dai giochi. E quando il popolo entra in campo, le cose si complicano.

            Non bastava la Corte Costituzionale che aveva già fatto a pezzi il testo lo scorso mese. Ora arriva la Cassazione a piazzare un sigillo di legittimità sul referendum. Un colpo basso per il leader leghista, che di certo non aveva immaginato questo finale per la sua “grande riforma”. Gli avversari politici intanto brindano, mentre Salvini si ritrova a guardare il suo progetto di autonomia sfaldarsi pezzo per pezzo, come un castello di sabbia sotto un’onda del mare.

            Ma non è finita qui. A peggiorare le cose, arriva la notizia che la Corte di Palermo ha confermato che la sentenza sul caso – in cui l’ex ministro è accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio – arriverà prima della fine dell’anno. Niente brindisi tranquilli con il panettone, quindi, ma un Natale con la toga per il leader leghista, che dovrà affrontare le gravissime accuse per aver bloccato nel 2019 lo sbarco di 147 migranti a bordo della nave ONG spagnola.

            La vicenda, che ha già fatto il giro del mondo, rischia di trasformarsi in un simbolo non solo della sua politica migratoria, ma anche delle sue battaglie giudiziarie. E, diciamocelo, non è proprio il tipo di simbolo che vuoi vedere appeso all’albero di Natale.

            E proprio quando pensi che la giornata non possa andare peggio, arriva Pier Silvio Berlusconi a tirare l’ultimo colpo, quello che manda K.O. Durante la conferenza stampa natalizia con i giornalisti, l’amministratore delegato di Mediaset ha deciso di regalare a Capitan Matteo un momento da ricordare: ha definito la sua proposta di abbassare il canone Rai una “proposta strampalata”. «Salvini mi sta simpatico, ma la politica è la politica, e questa sembra solo propaganda», ha commentato con un sorriso che più ironico non si può. Non contento, Pier Silvio ha aggiunto che indebolire la Rai significa indebolire l’intero sistema editoriale italiano, mandando un messaggio chiaro: caro Matteo, noi di Mediaset abbiamo pazienza, ma tu stai giocando con il fuoco.

            Una chiusura col botto, quindi, e un altro sberlone. A fine giornata, chiuso nel suo ufficio, Matteo Salvini deve essersi sentito come il protagonista di una di quelle commedie in cui il malcapitato viene preso a schiaffi da chiunque incontri. Tar, Cassazione, giudici di Palermo, Pier Silvio: non manca nessuno all’appello. E mentre i suoi avversari gongolano, il ministro incassa con il sorriso (ma chissà cosa avrà pensato davvero). Tra sentenze, referendum e battute al vetriolo, la giornata nera di Salvini è destinata a diventare un caso di scuola: mai far arrabbiare troppa gente contemporaneamente. Chissà, forse domani andrà meglio. Forse.

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              Il Nulla avanza? Il festival Atreju di Fratelli d’Italia nel mirino degli eredi di Michael Ende: “Non rappresenta i valori del protagonista”

              La kermesse di Fratelli d’Italia al Circo Massimo si scontra con l’indignazione degli eredi di Michael Ende, che criticano l’uso politico del nome di Atreju, protagonista del romanzo La storia infinita. Il giovane eroe, simbolo di inclusione e resistenza al nichilismo, non rappresenta i valori della destra, sottolineano gli eredi, denunciando la mancanza di autorizzazione per un’appropriazione giudicata impropria e contraria agli ideali del celebre autore tedesco.

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                Il giovane guerriero di Fantàsia non è mai stato così fuori posto. Il nome di Atreju, protagonista del celebre romanzo fantasy La storia infinita di Michael Ende, campeggia da anni sull’evento politico simbolo di Fratelli d’Italia. Ma l’uso di quel nome, avverte Roman Hocke – agente letterario e amico dello scrittore – non è mai stato né richiesto ai legittimi proprietari, gli eredi dell’autore morto nel 1995, né è stato da loro autorizzato. Ed è una scelta che, secondo lui, tradisce tutto ciò che il personaggio rappresenta: apertura, inclusione e un’arte che unisce invece di dividere.

                Da quando il festival di destra ha iniziato a utilizzare il nome di Atreju, Roman Hocke, agente letterario e amico di Michael Ende, ha manifestato apertamente il suo disappunto, definendo la scelta un “malinteso enorme”. Secondo Hocke, Atreju non è solo un personaggio di fantasia, ma un simbolo di valori universali: “Atreju è figlio di tutti,” spiega, sottolineando che nel romanzo La storia infinita il giovane guerriero è cresciuto dalla comunità della sua tribù, senza una famiglia tradizionale. Questa caratteristica riflette un messaggio importante: l’identità personale non è rigidamente legata all’ascendenza o alle origini, ma si costruisce attraverso le scelte e le responsabilità individuali.

                L’agente – che è tutt’ora il legittimo rappresentante legale dei diritti d’autore di Ende – ritiene che questi valori siano in netto contrasto con quelli associati a Fratelli d’Italia che organizza il festival: “Leggendo bene La storia infinita si capisce che i valori del libro sono tutt’altro rispetto a quelli della destra.” Non è solo una questione di nome, dunque, ma di rispetto per il messaggio originale dell’opera di Ende, che secondo Hocke è stato frainteso e distorto. Questa posizione chiara mira a proteggere l’integrità dell’opera e i suoi ideali di apertura, inclusione e responsabilità individuale.

                L’evento Atreju nasce nel 1998 come festival dei giovani di destra, passando da Azione Giovani al PdL e poi a Fratelli d’Italia. Ma solo negli ultimi anni il suo nome è arrivato all’attenzione degli eredi di Ende. “La segnalazione è arrivata tardi, quando l’evento era già noto,” spiega Hocke. Da allora, l’agenzia letteraria Ava International ha cercato di fare chiarezza, ma la questione è ingarbugliata. La legislazione sui diritti d’autore varia da Paese a Paese. Se in Italia il nome di un personaggio potrebbe non essere protetto come parte dell’opera, in Germania la tutela è più stringente. Ma anche qui, il nodo è filosofico prima che legale: Ende non avrebbe mai voluto associare le sue creazioni a partiti politici.

                Michael Ende, figlio di un pittore perseguitato dal nazismo, ha sempre considerato l’arte come uno strumento di unione. “La cultura appartiene a tutti e ha il compito di unire,” ripeteva. Proprio per questo si teneva lontano dalla politica, pur essendo vicino a idee progressiste come quelle dei Verdi e dei socialisti tedeschi. La strumentalizzazione di Atreju per fini partitici, dice Hocke, sarebbe stata per lui inconcepibile: “Atreju è un simbolo contro il nichilismo, ma questo è un concetto filosofico, non politico.” La cultura per Ende aveva un valore universale, e usarla per dividere, come fanno i partiti, equivale a tradirne l’essenza.

                La premier italiana, che ha reso il nome Atreju un’icona della sua narrazione politica, ha spiegato la scelta nella sua autobiografia Io sono Giorgia. “Atreju è un giovane coraggioso impegnato a combattere il Nulla che avanza,” scrive, associando il personaggio alla lotta contro il nichilismo. Ma la visione politica si scontra con quella artistica. Ende vedeva il Nulla come una forza distruttiva, non tanto politica quanto esistenziale. “Attribuire a un’opera d’arte uno scopo politico significa snaturarla,” avverte Hocke, ribadendo che l’arte deve “orientare gli individui nel mondo” e non essere piegata a obiettivi di partito.

                Dove finisce l’omaggio e inizia l’appropriazione indebita? È una domanda che emerge ogni volta che un’opera d’arte o un personaggio letterario viene usato per scopi politici. E nel caso di Atreju, il confine è stato ampiamente superato, secondo Hocke. L’agente letterario denuncia non solo l’uso non autorizzato, ma anche la mancanza di rispetto per il lascito di Ende. “Non ci è mai stata chiesta l’autorizzazione, né c’è stata mai l’intenzione di rinunciare a questo uso,” afferma. E così, un personaggio nato per unire diventa il simbolo di una parte politica di matrice nazionalista, con buona pace dell’universalità che Ende voleva rappresentare.

                Per ora, il caso resta aperto, più sul piano etico che legale. La complessità delle normative sui diritti d’autore rende difficile un intervento diretto. Ma Hocke non intende arrendersi: “Continueremo a difendere l’integrità dell’opera di Ende.” Nel frattempo, Atreju continuerà a campeggiare sugli striscioni di Fratelli d’Italia, una presenza che, per chi conosce il messaggio originale del libro, suona come un’ironia amara. Il Nulla avanza davvero, ma non è quello che Atreju avrebbe mai immaginato di combattere.

                Il nodo dei diritti d’autore non è solo una questione tecnica, ma una battaglia culturale. Perché appropriarsi di un simbolo significa riscriverne la storia, adattarlo a scopi che l’autore non avrebbe mai condiviso. E mentre l’evento Atreju si svolge al Circo Massimo tra applausi e slogan, resta l’amaro in bocca per l’ennesima volta in cui la cultura viene piegata a logiche di parte. Atreju, nato per combattere il Nulla, ora deve combattere per difendere il suo nome.

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