Televisione
La Berlinguer e Mauro Corona sono peggio di… Sandra e Raimondo: è sempre… cartastraccia!
L’ennesimo siparietto fra i due che sembrano sempre più interpretare il ruolo della coppia che… scoppia. Anche se a lungo andare tutto assume i connotati di sottile noia.
Hanno fatto della loro ironia e del loro rapporto una forza anche in chiave televisiva… e nei primi tempi la formula ha perfettamente funzionato, Offrendo ai telespettatori una “coppia” che davvero non ti aspetteresti. Lei, figlia del grande condottiero della sinistra che fu e lui montanaro tagliato con l’accetta, anche se spesso dispensatore di perle filosofiche sull’esistenza e sul senso della vita.
Il copione non cambia per il nuovo anno
Con l’avvento del nuovo anno Mauro Corona e Bianca Berlinguer non sembrano volersi smentire. Nel corso dell’ultima puntata andata in onda su Rete 4 di È sempre Cartabianca, tra la conduttrice e il noto opinionista sono state scintille, anche sulle rispettive condizioni fisiche…
Stavolta si scherza sul fisico
Bianca Berlinguer e il suo ospite fisso, Mauro Corona, hanno offerto l’ennesimo battibecco in diretta, scaturito per una piccola problematica fisica subita dallo scrittore e alpinista. “Un pericolo lo ha avuto. È successo qualcosa, a quanto ho saputo“, ha detto ad un certo punto la giornalista, come ad imbeccare il Corona. Che, dal canto suo, raccoglie l’assist e risponde: “Sono a posto. Il mio primario mi ha messo a posto il ginocchio, prendendomi dalla pancia il grasso, lavorandolo e infilandomelo nel ginocchio. Mi sono spaventato”.
Inconvenienti dell’età
A quel punto Bianchina (come la chiama affetuosamente lui) dice: “Io avevo capito che aveva avuto un problema alla spalla. Invece è il ginocchio”. A quel punto Corona risponde: “No, il ginocchio. La spalla l’anno scorso. Siamo in frantumi ormai”. Mai mossa fu meno azzeccata: parlando al plurale, lo scrittore ha generato la risposta piccata della padrona di casa che -ironicamente – ha ribattuto: “Parli per lei. E’ inutile che parla al plurale. Io non faccio alpinismo”.
Sempre la solita zuppa
A quel punto Corona, chiosando, cerca di ristabilire l’armonia: “La vedo ringiovanita. Probabilmente ha fatto buone feste. La gioia di stare con i suoi cari l’ha ringiovanita”. Che si tratti dell’effetto Mediaset, dove i fantasmi del passato tornano puntualmente a fare visita ai vivi? Stucchevoli e scontati: che barba, che noia…
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Televisione
Marco Giallini e il ritorno di ACAB: tra conflitti, divise e umanità nascosta
Il regista Alhaique svela le sfide di raccontare la complessità umana dietro le divise. Marco Giallini, protagonista, si allontana dal personaggio del film, mentre Stefano Sollima riflette sul valore delle domande senza risposta.
Torna ACAB e lo fa in grande stile. Dopo il film del 2012, tratto dal romanzo di Carlo Bonini, arriva su Netflix la serie in sei episodi diretta da Michele Alhaique. Con un cast d’eccezione e la produzione di Cattleya, la nuova incarnazione promette di esplorare ancora più a fondo il mondo delle squadre mobili, mostrando il confine sottile tra il dovere pubblico e le fragilità private.
Un’eredità importante
«Con Stefano Sollima avevamo un conto in sospeso», confessa Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya, riferendosi al film uscito più di un decennio fa. «Il progetto partì benissimo, ma fu interrotto da un evento raro per Roma: una tempesta di neve. Oggi possiamo finalmente riprenderlo e dargli una nuova vita».
Il regista Stefano Sollima, ora produttore esecutivo, sottolinea il cuore della narrazione: «Non si tratta di imporre un pensiero al pubblico, ma di accompagnarlo in un viaggio, ponendo domande complesse. Le risposte non sempre ci sono, ma è proprio questo a rendere interessante l’approccio».
Protagonisti e complessità
Al centro della serie c’è una squadra del reparto mobile di Roma, composta da Ivano “Manzinga” Valenti (Marco Giallini), Michele Nobili (Adriano Giannini), Marta Sarri (Valentina Bellè) e Salvatore Lovato (Pierluigi Gigante). Ogni personaggio porta con sé un bagaglio di conflitti interni e contraddizioni.
«Mentalmente mi sono allontanato dal personaggio del film – spiega Giallini – e ho cercato di esplorarne la psicologia». Un approccio condiviso dagli altri attori: Giannini interpreta un poliziotto progressista, costretto a scontrarsi con l’ortodossia del reparto, mentre Bellè affronta il tema della femminilità in un contesto dominato dagli uomini. Gigante, invece, dà vita a un personaggio diviso tra devozione al lavoro e un vuoto personale che cerca di colmare con ambiguità.
La trama
La squadra, dopo una notte di violenti scontri in Val di Susa, si ritrova orfana del proprio comandante, ferito gravemente. Tornati a Roma, i poliziotti devono fare i conti con un nuovo capo e un’indagine interna che minaccia di destabilizzare ulteriormente il reparto.
«Quando ho letto i copioni – racconta Michele Alhaique – ho subito percepito l’opportunità di raccontare due sfere: quella pubblica, con la divisa addosso, e quella privata, fatta di fragilità e contrasti».
Un viaggio ipnotico
Per tradurre questa dualità, Alhaique ha scelto di partire dalla musica: «Ho chiesto ai Mokadelic di creare un tappeto sonoro che fosse un algoritmo ipnotico, continuo, capace di andare in profondità senza esplodere in un tema riconoscibile. La macchina da presa, nelle mie intenzioni, doveva vedere oltre le divise e i corpi, svelando l’umanità nascosta».
Una riflessione sul conflitto
Marco Giallini, con il suo solito candore, riassume il cuore della narrazione: «Ogni conflitto è una guerra tra poveri. Da ragazzo non ho mai partecipato a nessuna lotta: ero sempre troppo piccolo o troppo grande. Forse è per questo che oggi mi affascina raccontare queste storie».
ACAB non è solo una serie sulla violenza o il dovere, ma un’indagine sulle persone dietro le uniformi, su ciò che le divide e ciò che le accomuna. Dal 15 gennaio, Netflix offre una nuova occasione per immergersi in questo universo complesso e umano.
Televisione
Lo “iettatore” di Avanti un altro, fra pregiudizi, disillusioni e un ruolo incollato addosso
Da anni presenza fissa nel cast di personaggi di Avanti un altro, il programma condotto da Paolo Bonolis. Una storia artistica, la sua, conosciuta dalla maggior parte dei telespettatori per il personaggio iconico di “posta-sfortuna”. Oggi svela i retroscena della sua vita e carriera. Attraverso l’analisi delle sue esperienze, dall’infanzia alle avventure nel mondo del cinema, l’attore condivide un percorso intriso di passione, sfide e una profonda riflessione personale.
La storia di Franco Pistoni rappresenta un classico percorso di identificazione con uno specifico personaggio. Quello che ricorda molto la figura di Totò nella sua interpretazione de La patente di Pirandello (contenuta nel film Questa è la vita del 1954). Ma Pistoni è tanto altro… e ci tiene a ribadirlo in una recente intervista rilasciata al sito Fanpage.it, raccontando i pregiudizi subiti, la sua brillante e poco conosciuta carriera, le poesie che scrive per la figlia Chandra, il rapporto con Paolo Bonolis, la disillusione politica, la sua visione della morte e il rifiuto della mondanità. E sul suo futuro in TV e al cinema per il quale dichiara senza timore: “Confesso che se potessi ritirarmi lo farei più che volentieri”.
Nel 2012 entra nel cast di Avanti un altro nel ruolo dello Iettatore, un personaggio del quale lui sottolinea: “Con precise radici pirandelliane, dove si narra dei giudizi superficiali che ancora oggi vengono applicati a ciò che ci sembra diverso, esteriormente e non, negli altri. Per il vestiario ci si è ispirati al film interpretato da Totò e io fui contattato perché, al cinema, avevo interpretato un paio di Iettatori: in ‘O Re di Luigi Magni e in Tutti al mare di Matteo Cerami.”
Anche in film famosi
Originario di Rieti, l’attore vanta una carriera ricca di esperienze di prestigio. Era nel cast di film del calibro de Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud e Le vie del Signore sono finite di Massimo Troisi. Due apparizioni di prestigio che vanno a sommarsi a quarant’anni di teatro. Franco Pistoni oggi ha 68 anni e di cose nel mondo dello spettacolo – ma anche nella vita vera – ne ha vissute tante. Come i pregiudizi che hanno accompagnato la sua adolescenza, l’arte della recitazione che ha impreziosito le sue giornate, la sua visione della morte, il rifiuto della mondanità e il desiderio di ritirarsi dalle scene.
Figlio di un deportato
Dice: “Ero considerato uno stravagante, uno strano fino a quando non partecipai al mio primo film, Il nome della Rosa. Da allora diventai quello che aveva lavorato con Sean Connery. Mi dichiaravo di sinistra, oggi la politica mi annoia ma ovviamente sono sempre per la difesa dei diritti e della libertà. La destra di Giorgia Meloni? Sono figlio di un deportato nei campi di concentramento in Germania, mai mi avvicinerei a certe folli decadenze”.
Bambino molto riservato nei tumultuosi anni ’60
Alla domanda su che genere di bambino fosse nell’infanzia, risponde: “Erano gli anni ’60, un’apoteosi di fisicità, si giocava in strada, ci si arrampicava sugli alberi, il bagno nei fiumi, si apparteneva a una tribù. Il tutto condito da affascinanti stimoli culturali: l’enciclopedia comprata a rate, la musica che si strimpellava nei garage. Ecco, la mia infanzia si è svolta in questi territori variopinti pur essendo sempre stato, contemporaneamente, un bimbo molto riservato e introspettivo.”
L’ottusità della cultura provinciale
Durante l’adolescenza Pistoni ha dovuto fare i conti con alcuni vergognosi pregiudizi. Un padre addirittura picchiò la figlia dopo averla vista in sua compagnia. Un ricordo che è rimasto indelebilmente stampato nella sua memoria: “Sì, era sera e riaccompagnai una ragazza a casa dopo essere usciti dalla sede di una “radio libera”: il padre non gradì la mia cortesia… Ero figlio della mia generazione, capelli lunghi, artista, indossavo l’orecchino e quindi pagavo, insieme ai miei coetanei, l’ostracismo di quella società che ci stava stretta soprattutto in provincia”.
Il valore assoluto del teatro
L’attore si accende quando gli si parla del mondo dello spettacolo: “Ricordo che il sabato sera, in una specie di ritualità, le famiglie si riunivano nella casa di chi possedeva un televisore e si guardavano varietà e sceneggiati. Mi colpiva la differenza che percepivo tra gli attori: c’era chi appariva falso e chi vero nel recitare, perché era il personaggio. Un circolo anarchico che frequentavo organizzò un seminario con il Living Theater e lì misi in pratica questo sentire, questo vivere realmente il personaggio. Percepivo una sacralità, una religiosità nel recitare. Scoprii che il teatro non era intrattenimento ma una vera disciplina atta a trasmettere interrogativi alti.”
Fianco a fianco di alcuni mostri sacri
Avendo avuto, in carriera, il privilegio di avvicinare sul set personaggi del calibro di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Massimo Troisi, li ha sempre osservati con una curiosità particolare, soprattutto dal punto di vista umano. Di loro dice: Ha dei ricordi particolari legati a questi maestri del cinema Italiano? “Mi attraeva soprattutto osservarli umanamente. Persone che venivano considerate simili a Dei ma che percepivo, al contrario, essere possedute da una fragilità sconcertante. Certo, in scena erano mostruosamente padroni del mestiere ma, spenti i riflettori, mi incuriosivano di più: vederne l’uomo, l’essere umano, il mortale e, devo dire, siamo tutti uguali.”
Il suo giudizio sulla televisione
Sulla televisione, che attualmente rappresenta il suo luogo di lavoro, dice: “Potrà sembrare paradossale ma da anni per me la televisione è solo un elettrodomestico come il frigorifero, soprattutto di questi tempi in cui è diventata un’incantatrice ipnotizzante e imbarazzante oltre che un mezzo di propaganda. Confesso che se potessi ritirarmi lo farei più che volentieri.”
Televisione
Papa Francesco da Fazio, Cecilia Sala e la beatificazione televisiva: “Che tempo che fa” meglio del Vaticano
Domenica 19 gennaio il Pontefice sarà ospite del salotto di Fabio Fazio, affiancato dalla giornalista Cecilia Sala, reduce dalla prigionia in Iran. Il conduttore mette a segno un doppio colpaccio televisivo.
Un Papa, una quasi beata e un Fabio Fazio sempre più camerlengo dell’informazione. Domenica sera, nella prima puntata del 2025 di Che tempo che fa, sul NOVE, si compirà il piccolo miracolo televisivo: Papa Francesco sarà ospite in diretta, per la seconda volta, dopo la lunga intervista di gennaio 2024. Con lui ci sarà Cecilia Sala, fresca di liberazione dal carcere di Evin, pronta a iniziare il percorso di canonizzazione mediatica.
Il ritorno del Papa in tv, tra guerre, dimissioni e acciacchi
L’annuncio è arrivato direttamente da Fabio Fazio sui social: “Sua Santità Papa Francesco domenica a ‘Che tempo che fa’”. Una presenza che arriva in un momento delicato: il Pontefice, infatti, è reduce da una caduta a Casa Santa Marta, che gli ha procurato una contusione all’avambraccio destro. Nulla di grave, ma abbastanza per alimentare nuovi rumors sulle sue condizioni di salute e sulle voci di possibili dimissioni, che già un anno fa Francesco aveva liquidato con un “sono ancora vivo”.
Come sempre, il Papa non si tirerà indietro sulle questioni più calde: il conflitto tra Israele e Hamas, la crisi umanitaria a Gaza e il suo continuo attacco ai “signori della guerra” e ai “fabbricanti di morte”. Un anno fa aveva ribadito la sua vicinanza alla parrocchia di Gaza, con aggiornamenti quotidiani sulla strage in corso. Ora, con le nuove ipotesi di tregua, il suo commento sarà particolarmente atteso.
Cecilia Sala, dal carcere iraniano al trono della narrazione televisiva
Se l’arrivo del Papa è una certezza, quello di Cecilia Sala è la consacrazione definitiva della giornalista come simbolo di resistenza e libertà d’informazione. Arrestata in Iran il 19 dicembre e rilasciata l’8 gennaio, Sala è diventata in pochi giorni il volto dell’inviato moderno, intrappolato tra dittature e dinamiche mediatiche.
Domenica sera racconterà la sua esperienza, tra interrogatori, minacce e isolamento. Ma sarà anche il primo passo verso un cammino già segnato: da martire dell’informazione a icona dell’attualità, passando per la santificazione in prima serata.
Fazio, il vero vincitore
Al netto della sacralità della puntata, il vero miracolo lo ha fatto Fabio Fazio. Con un doppio colpaccio televisivo, ha reso Che tempo che fa l’epicentro del dibattito pubblico italiano, relegando Santa Marta al ruolo di seconda sede papale. Per una sera, le confessioni non si faranno in Vaticano, ma davanti alle telecamere.
E chissà, magari tra qualche anno, più che un talk show, il programma verrà ricordato come una beatificazione in diretta.
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