Connect with us

Mondo

Condannato ma impunito: Trump e il caso Stormy Daniels, una macchia senza conseguenze

Donald Trump condannato nel caso dei pagamenti a Stormy Daniels, ma niente carcere e nessuna multa. Una sentenza che solleva polemiche e dubbi sul sistema giudiziario.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Un verdetto che fa discutere quello pronunciato dal giudice Juan Merchan sul caso dei pagamenti a Stormy Daniels. Il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato formalmente condannato, ma non sconterà nemmeno un giorno di carcere, né dovrà pagare una multa. La sentenza, pur aggiungendo una macchia sulla fedina penale di Trump, non comporta conseguenze pratiche per il tycoon, che non ha esitato a definire il procedimento una “caccia alle streghe politica”.

    In un videocollegamento successivo alla lettura della sentenza, Trump ha respinto le accuse con veemenza: “Sono innocente. È stata una caccia alle streghe politica per danneggiare la mia reputazione”, ha dichiarato, rincarando la dose contro il sistema giudiziario di New York, che ha definito “un fallimento totale”.

    Una sentenza simbolica

    La condanna, legata ai controversi pagamenti per comprare il silenzio della pornostar Stormy Daniels durante la campagna elettorale del 2016, è stata descritta dagli analisti come una vittoria simbolica per i detrattori di Trump. Tuttavia, l’assenza di pene concrete – niente carcere, niente multe – lascia aperto il dibattito su come il sistema giudiziario statunitense tratti le figure più potenti del Paese.

    La vicenda dei pagamenti a Daniels, che ha coinvolto anche l’ex avvocato personale di Trump, Michael Cohen, è stata al centro delle cronache per anni, alimentando dubbi sulla trasparenza e sull’etica dell’allora candidato alla presidenza. Cohen stesso aveva scontato tre anni di carcere per il suo ruolo nel caso, ma per Trump, la giustizia sembra essersi fermata a una condanna priva di effetti reali.

    Reazioni e polemiche

    Il verdetto ha scatenato reazioni contrastanti. Mentre i sostenitori del presidente eletto si affrettano a definirlo l’ennesimo tentativo di colpirlo politicamente, i critici sottolineano come questa sentenza rafforzi l’immagine di un sistema giudiziario indulgente verso i potenti.

    Trump, dal canto suo, continua a presentarsi come una vittima delle circostanze: “Questo caso non è altro che un tentativo di distruggermi politicamente. Ma io andrò avanti”, ha promesso, con il tono combattivo che lo ha reso un maestro nella narrativa dell’assedio.

    Un presidente con la fedina penale macchiata

    Con questa condanna, Trump diventa il primo presidente eletto degli Stati Uniti con una fedina penale macchiata. Una macchia che, però, non sembra intaccare il suo seguito tra i sostenitori più fedeli. Per loro, il tycoon resta una figura vittimizzata da un sistema ostile, mentre per i detrattori è la prova definitiva di un uomo che ha sempre giocato ai limiti della legalità.

    Resta da vedere se questa sentenza, seppur simbolica, influenzerà il futuro politico di Trump, o se finirà per alimentare ulteriormente la narrazione di un leader perseguitato da forze oscure.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Mondo

      Pasqua 2025: Papa Francesco sarà a San Pietro, ma con alcune rinunce

      Migliorano le condizioni fisiche di Papa Francesco, che sarà presente a San Pietro per la Pasqua. Alcuni riti, però, saranno affidati a collaboratori per alleggerire i suoi impegni.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        Papa Francesco si prepara a celebrare la Pasqua 2025, con qualche importante adattamento al programma. Dopo settimane di incertezza legate alla sua salute, il recupero appare evidente: la voce è più ferma, il tono meno esitante rispetto alla domenica delle Palme. Segnali che confermano la sua presenza in Piazza San Pietro per la Messa di Pasqua e, soprattutto, per l’attesa benedizione Urbi et Orbi.

        Sebbene la celebrazione della Messa pasquale potrebbe essere affidata, in parte, a un cardinale di curia, la benedizione dalla Loggia della Basilica spetta esclusivamente al Pontefice. L’ipotesi di un testo accorciato per facilitarne la lettura resta sul tavolo, ma il Vaticano non ha ancora confermato ufficialmente modifiche al tradizionale rito.

        Nel frattempo, Francesco ha già delegato ad altri cardinali alcune celebrazioni del Triduo Pasquale. La Messa in Coena Domini sarà presieduta dal cardinale Calcagno, mentre il cardinale Gugerotti guiderà la celebrazione del Venerdì Santo. Anche la Via Crucis al Colosseo, i cui testi sono stati scritti dallo stesso Papa, sarà affidata al cardinale vicario Angelo De Donatis.

        Resta incerta, invece, la celebrazione del rito della lavanda dei piedi. Negli anni scorsi Francesco aveva voluto compierlo in carceri e strutture di accoglienza. Quest’anno, considerate le condizioni fisiche, si valuta l’ipotesi di una cerimonia privata a Santa Marta, con pochi presenti. Come spesso accade con il Pontefice, ogni decisione definitiva dipenderà dalle sue condizioni al momento.

        Dopo la lunga degenza, Francesco appare più energico: è stato visto in sedia a rotelle ma senza ossigeno, e l’attività di governo è ripresa regolarmente. I medici avevano consigliato prudenza e limitazioni nei contatti con le folle, ma il Papa sembra aver scelto la via della normalità, incontrando fedeli e bambini senza particolari restrizioni.

        Un’ulteriore conferma della risonanza dell’evento pasquale arriva dagli ospiti internazionali: sul sagrato di San Pietro sarà presente anche il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, segno del forte interesse globale intorno a questa Pasqua 2025.

        Papa Francesco, pur tra inevitabili limitazioni, dimostra ancora una volta la volontà di essere presente nei momenti più importanti della vita della Chiesa. La sua presenza alla benedizione Urbi et Orbi sarà un simbolo potente di speranza e resilienza, proprio mentre i cattolici di tutto il mondo si preparano a celebrare il mistero della Resurrezione.

          Continua a leggere

          Mondo

          Su le mutande, siamo in guerra! Gli Usa vietano il sesso con i cinesi per paura delle spie

          La nuova direttiva americana vieta agli impiegati e contractor in Cina di avere qualsiasi rapporto sentimentale o sessuale con la popolazione locale. L’eco della Guerra fredda torna sotto le lenzuola, tra ambasciate, consolati e campus universitari. Pechino reagisce allertando studenti, turisti e persino aziende. Intanto i social si stringono attorno al cestista Cui Yongxi, temendo che anche lui finisca vittima collaterale del gelo Usa-Cina.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

            Altro che spionaggio cibernetico e dazi commerciali: la nuova frontiera del conflitto tra Stati Uniti e Cina passa dalla biancheria intima. E anche stavolta, l’intelligence ha deciso che non si può più “scendere a compromessi”: d’ora in poi, i funzionari americani che operano nel territorio cinese dovranno tenere chiuse le braguette oltre che la bocca. Vietatissimi i flirt, proibiti i baci, aboliti gli amori da esportazione: chi sgarra viene impacchettato e rispedito in patria, con buona pace della diplomazia… e dei sensi.

            La direttiva — che sa più di castità forzata che di sicurezza nazionale — è stata varata a gennaio per volere dell’ambasciatore Nicholas Burns, poco prima di levare l’ancora. Ma la mano che stringe il nodo della cravatta è quella, neanche troppo invisibile, dell’apparato federale, da tempo in allarme per le cosiddette “honey trap”: trappole al miele che non si trovano nei barattoli, ma tra le lenzuola. Il rischio? Che una notte focosa si trasformi in un incubo da dossier classificato.

            Le agenzie americane in Cina — ambasciata di Pechino, consolati sparsi e persino Hong Kong — hanno ricevuto l’ordine tassativo: niente ammiccamenti, zero Tinder, nemmeno un caffè offerto per sbaglio. Solo chi è già regolarmente impegnato con un cittadino o una cittadina cinese può tirare un sospiro di sollievo e continuare a portare fiori. Tutti gli altri: muti, casti e controllati. I contractor della sicurezza si trovano così a fare la guardia con lo spray al peperoncino in una mano e il cilicio metaforico nell’altra.

            La risposta di Pechino? Rapida, puntuale e vagamente passivo-aggressiva. Il Ministero della Cultura ha subito diffuso un messaggio rivolto a chi avesse in programma una gitarella negli Stati Uniti: “Valutate i rischi. Potreste incontrare un americano”. Come dire: se li riconoscete, evitateli. Se li amate, scappate. Meglio una vacanza in Siberia che in Florida, e non solo per il clima.

            Ma non è finita qui. Il Ministero della Scuola ha lanciato un’allerta a tutti gli studenti cinesi che frequentano college e università a stelle e strisce. E il Ministero del Commercio ha affondato il colpo contro sei nuove compagnie americane accusate di vendere armamenti a Taiwan. Insomma: tu mi vieti il sesso, io ti taglio i droni.

            Sullo sfondo, l’ombra lunga della propaganda. Quella che qualche anno fa, ai tempi del “China Virus” targato Trump, aveva acceso le micce del sospetto e della paranoia. Cinque anni dopo, siamo di nuovo lì. Anzi: peggio. Perché ora, oltre alle dogane, ci sono i letti monitorati e i cuori sotto sorveglianza.

            A farne le spese potrebbe essere anche un ragazzo di 21 anni, del tutto ignaro della bufera geopolitica: Cui Yongxi, alias Jacky Cui, primo cinese nella storia dei Brooklyn Nets, squadra NBA controllata dal miliardario taiwanese-canadese Joseph Tsai. Lui corre, schiaccia, sorride. Ma sui social già si leva il coro: “Per favore, non fischiatelo. È solo basket, non è una guerra fredda”.

            Peccato che oggi, in tempi di sanzioni incrociate, restrizioni affettive e amore blindato, anche un tiro libero possa sembrare un gesto sovversivo.

              Continua a leggere

              Mondo

              Scarpe da ginnastica sotto attacco: i dazi di Trump fanno tremare Nike e Adidas

              Nike, Adidas e Puma producono in Vietnam per abbattere i costi, ma ora rischiano grosso con le nuove tariffe volute da Trump. Spostare la produzione non sarà facile né rapido. Intanto aumentano i prezzi, crollano le Borse e si moltiplicano i timori per la catena globale della sneaker.

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                La guerra commerciale a stelle e strisce colpisce anche ai piedi. Nike, Adidas, Puma e tutti i principali produttori di scarpe sportive sono finiti nel mirino delle nuove tariffe Usa, e a farne le spese rischiano di essere sia i marchi internazionali sia gli stessi consumatori americani.

                Il presidente Donald Trump ha deciso di applicare una nuova tassa del 46% sulle scarpe importate dal Vietnam, attuale centro mondiale della produzione di calzature sportive. Un colpo durissimo per aziende che, da anni, hanno spostato l’intera filiera produttiva nel sud-est asiatico per ridurre i costi. Ora però, quelle stesse scarpe diventano improvvisamente troppo costose da importare negli Stati Uniti.

                Il peso del Vietnam nel mondo delle sneaker

                Nike, solo per citare il gigante del settore, ha avviato la produzione in Vietnam nel 1995 e oggi conta 130 fabbriche fornitrici nel Paese. Da lì arriva la metà della sua produzione di calzature. Anche Adidas dipende fortemente dal Vietnam, da cui importa quasi il 40% delle sue scarpe. Puma, stessa storia.

                Il Vietnam è diventato un pilastro della sneaker economy dopo che, nel primo mandato di Trump, molte aziende avevano abbandonato la Cina per evitare i dazi dell’epoca. Un processo lungo e complesso, reso possibile grazie a fornitori locali e a investimenti di gruppi sudcoreani e taiwanesi. Ora, il rischio è di dover traslocare di nuovo. E in fretta.

                Prezzi su, Borsa giù

                Secondo l’American Apparel & Footwear Association, la tariffa del 46% voluta da Trump si somma a dazi già esistenti del 20% sulle scarpe con tomaia in tessuto. Per restare a galla, le aziende dovranno alzare i prezzi fino al 20%, stima Adam Cochrane della Deutsche Bank.

                Nike ha già lanciato l’allarme nel suo rapporto trimestrale: “Navigare in questo ambiente incerto sarà complicato”, tra geopolitica, tariffe, valute e instabilità globale. Il risultato si è visto subito in Borsa: le azioni dell’azienda sono crollate ai minimi degli ultimi otto anni.

                Nuovi hub produttivi? Non prima di due anni

                Per chi vuole fuggire dal Vietnam, le opzioni non mancano: Messico, Brasile, Turchia ed Egitto sono tra i Paesi indicati dagli analisti come potenziali nuovi poli manifatturieri. Ma servono tempo, strutture, manodopera qualificata e soprattutto contratti.

                Lo spostamento della produzione richiederà dai 18 ai 24 mesi, spiegano gli esperti. E nel frattempo, i dazi restano. Anche perché Trump ha imposto tariffe minime del 10% su quasi tutti i partner commerciali, con picchi ben più alti su Cina e Indonesia, altri due importanti produttori di scarpe.

                Il paradosso della produzione americana

                Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma la realtà è che gli Stati Uniti non hanno fabbriche attrezzate né forza lavoro qualificata per realizzare scarpe sportive di alta gamma. Per questo, molti osservatori temono che l’unico effetto immediato sarà l’aumento dei prezzi per i consumatori americani.

                E intanto, in un mercato in cui il 99% delle calzature è importato, le grandi aziende valutano scenari alternativi: ridurre i volumi per gli Usa, dirottare i prodotti verso Europa, Medio Oriente o Cina, e tagliare i costi ovunque possibile. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica – osserva con amara ironia il Financial Times – quando la gente pagava i turisti per un paio di Levi’s originali.

                Le sneaker, insomma, sono diventate l’ultima vittima della guerra commerciale made in Trump. Un altro tassello nella strategia dei dazi che, più che rilanciare la manifattura americana, rischia di affossare le aziende e svuotare i portafogli dei consumatori. A colpi di dogana.

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù