Cronaca Nera
Case degli orrori: quando tragedie e crimini diventano un affare immobiliare
Da hotel di lusso a semplici abitazioni, le case degli orrori si trasformano in opportunità di guadagno. Il confine tra business e rispetto per le vittime.
Le case legate a eventi tragici o crimini violenti, definite spesso “case degli orrori”, hanno da sempre esercitato un fascino macabro su pubblico e mercato immobiliare. Dalla leggendaria villa di Gianni Versace a Miami, teatro del suo omicidio nel 1997, alla villetta di Cogne, dove fu commesso il delitto del piccolo Samuele Lorenzi nel 2002, queste proprietà diventano spesso oggetto di compravendite milionarie e trasformazioni redditizie.
La villa di Gianni Versace: dal crimine al lusso
A Miami, la “Casa Casuarina”, luogo dell’omicidio dello stilista Gianni Versace, rappresenta un caso emblematico. Nel 2013, la villa è stata venduta all’asta per 41,5 milioni di dollari e successivamente trasformata in un hotel di lusso. Nonostante il suo passato oscuro, l’immobile è oggi una destinazione turistica e un simbolo di glamour, dimostrando che il fascino del macabro può generare profitti nel settore immobiliare.
La villetta di Cogne: l’orrore all’asta
Anche in Italia il fenomeno si ripete. La villetta di Cogne, teatro di uno dei delitti più discussi della cronaca italiana, è stata recentemente messa all’asta con un prezzo base di circa 800.000 euro. L’abitazione, pignorata su richiesta dell’avvocato Carlo Taormina per onorari non pagati da Annamaria Franzoni, continua ad attirare interesse, confermando che il passato non sempre scoraggia gli acquirenti.
Un mercato in espansione: il fenomeno del “murderabilia”
Questi casi si inseriscono nel più ampio fenomeno del murderabilia, l’interesse per oggetti o proprietà legati a crimini violenti. Dalla vendita di memorabilia appartenuti a serial killer fino alle case di famosi omicidi, il murderabilia rappresenta un mercato controverso e in crescita.
Non mancano le critiche: monetizzare tragedie personali può essere percepito come una mancanza di rispetto verso le vittime e le loro famiglie. Allo stesso tempo, c’è chi sostiene che queste proprietà abbiano il diritto di essere reintegrate nel mercato e utilizzate.
Questioni etiche e il turismo macabro
La commercializzazione di immobili legati a tragedie pone inevitabilmente interrogativi etici. Da un lato, c’è l’opportunità economica; dall’altro, il rischio di alimentare un turismo macabro che potrebbe ulteriormente traumatizzare le comunità colpite.
Nel caso della villetta di Cogne, ad esempio, le polemiche sulla vendita si intrecciano con la memoria di un evento che ha segnato profondamente l’opinione pubblica italiana. A Miami, invece, la villa di Versace è riuscita a trasformare il proprio passato oscuro in un simbolo di lusso e raffinatezza.
Il confine tra business e rispetto
Se il mercato immobiliare dimostra che anche le proprietà con un passato oscuro possono trovare acquirenti, resta da capire dove tracciare il confine tra guadagno e rispetto. Come bilanciare la monetizzazione di queste case con la memoria delle vittime e il rispetto per le comunità coinvolte?
Mentre queste proprietà continuano a circolare, il dibattito su etica e profitto rimane aperto, dividendo chi vede in queste transazioni un’opportunità e chi, invece, le percepisce come una speculazione sul dolore umano.
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Cronaca Nera
Sentenze che indignano: doppio femminicidio a Modena, niente ergastolo per “motivi umanamente comprensibili”
Salvatore Montefusco, 70 anni, uccise la moglie Gabriela Trandafir e la figlia Renata a fucilate. La Corte d’Assise di Modena riconosce attenuanti generiche, evitando l’ergastolo per un crimine atroce.
In Italia, il valore della vita sembra pesare diversamente nelle aule di tribunale. È il caso di Salvatore Montefusco, autore del doppio femminicidio avvenuto il 13 giugno 2022 a Cavazzona di Castelfranco Emilia (Modena). Gabriela Trandafir, 47 anni, e la figlia Renata, 22, furono crudelmente uccise a colpi di fucile. Tuttavia, per i giudici, l’ergastolo non era una pena adeguata: 30 anni, ecco il verdetto.
Le motivazioni della Corte d’Assise di Modena lasciano attoniti. Nella sentenza si parla di “motivi umanamente comprensibili” per spiegare le attenuanti riconosciute a Montefusco. Una scelta che ha già sollevato un’ondata di critiche e interrogativi sull’equità del sistema giudiziario.
Un crimine annunciato
Il dramma di Gabriela e Renata era iniziato ben prima di quel tragico giorno. Gabriela aveva denunciato il marito per maltrattamenti, stalking, appropriazione indebita e furto, opponendosi all’archiviazione chiesta dalla Procura. Montefusco aveva risposto con una controdenuncia, in un clima di crescente tensione.
La mattina dopo l’omicidio, le due donne sarebbero dovute comparire in tribunale per l’udienza di separazione e per rispondere alle accuse mosse contro Montefusco. Renata aveva confidato a una vicina di temere per la loro sicurezza: «È una persona cattiva, mi aspetto di tutto».
La paura si è trasformata in realtà. Montefusco ha sparato sette, forse otto colpi, colpendo prima Renata nel cortile e poi Gabriela. Un’escalation di violenza che non ha lasciato scampo.
Le attenuanti che offendono
Perché Montefusco non ha ricevuto l’ergastolo, come richiesto dalla Procura? La Corte, presieduta da Ester Russo, ha riconosciuto attenuanti generiche, ritenendole equivalenti alle aggravanti. Nella sentenza si legge che Montefusco era “un uomo incensurato” e che il suo gesto sarebbe stato dettato da “disagio, umiliazione ed enorme frustrazione” derivanti dal conflitto familiare e dalla prospettiva di perdere la casa e il controllo sul figlio.
Non solo: i giudici hanno escluso la premeditazione e l’aver agito con crudeltà, considerando i maltrattamenti “assorbiti” negli omicidi. Una formulazione che solleva dubbi e lascia spazio a interpretazioni pericolose.
Un messaggio devastante
Riconoscere “motivi umanamente comprensibili” per un doppio femminicidio suona come una giustificazione che rischia di normalizzare la violenza domestica. Un segnale inquietante in un Paese dove il femminicidio è un’emergenza quotidiana.
Le denunce di Gabriela e le paure di Renata non sono bastate a salvarle. Ora, il verdetto sembra negare loro persino la giustizia. Un sistema che assolve, in parte, chi uccide per “frustrazione” lascia le vittime e le loro famiglie senza una vera risposta.
L’Italia merita di meglio: un sistema che tuteli le vittime, che riconosca la gravità della violenza di genere e che non conceda attenuanti a chi priva due donne della loro vita. Perché ogni parola spesa per “comprendere” un assassino è un insulto a chi non può più difendersi.
Cronaca Nera
Fedez nei guai per il caso Iovino: pestaggio sotto accusa, verbali e nuovi dettagli
Risse, telefonate sospette e accuse: cosa è successo quella notte tra il 21 e il 22 aprile in via Ulpio Traiano a Milano. Nuovi verbali gettano luce sull’episodio avvenuto nell’aprile scorso.
Una notte di violenza e mistero. Tra il 21 e il 22 aprile scorso, Cristiano Iovino, noto personal trainer, è stato aggredito da un gruppo di ultras della curva del Milan sotto la sua abitazione in via Ulpio Traiano, a Milano. La vicenda, emersa grazie all’inchiesta “Doppia Curva” della Procura, coinvolge anche un nome di primo piano dello spettacolo italiano: Federico Lucia, in arte Fedez.
Lite in discoteca e l’agguato
L’origine dell’aggressione, secondo i verbali inediti, risalirebbe a una discussione avvenuta qualche ora prima al The Club, una nota discoteca milanese. Motivo del diverbio? Futili questioni legate ai tavoli, secondo quanto raccontato dal dj e produttore Salvatore A., amico di Iovino.
Dopo il diverbio, Fedez avrebbe telefonato a Iovino, invitandolo a scendere nel cortile del palazzo. Qui, ad attenderlo, un van nero con a bordo un gruppo di ultras. La guardia giurata in servizio quella notte, Vincenzo B., ha descritto agli inquirenti una scena caotica: otto o nove aggressori hanno accerchiato il personal trainer. Iovino, nel tentativo di rifugiarsi nell’edificio, è stato seguito dal gruppo, che ha fatto irruzione nel portone approfittando dell’apertura concessa dalle guardie di sicurezza.
“Macchie di sangue ovunque”
Secondo i verbali, l’aggressione è stata brutale. Vincenzo B. ha dichiarato: «Quando Iovino ha aperto la porta del suo appartamento ai carabinieri, aveva il volto sporco di sangue e si notavano vistose macchie sul pianerottolo». Gli amici di Iovino, presenti durante l’agguato, si sarebbero dileguati senza prestare soccorso, e finora non sono stati rintracciati né interrogati.
Il ruolo di Fedez
Il nome di Fedez emerge più volte nei verbali. La guardia giurata ha riferito di averlo sentito pronunciare dagli amici di Iovino durante il pestaggio. Inoltre, la telefonata ricevuta dal personal trainer poco prima dell’agguato sarebbe stata fatta proprio dal rapper.
Indagine e misteri
La Procura ha chiesto il giudizio immediato per il caso, che si inserisce nell’ambito di un’inchiesta più ampia denominata “Doppia Curva”. Restano aperti molti interrogativi: quale ruolo ha giocato Fedez? Quali erano i reali motivi della lite? E perché Iovino non ha sporto denuncia?
Mentre le indagini proseguono, il caso getta un’ombra su uno degli artisti più noti e controversi del panorama italiano, alimentando discussioni sui social e nei salotti televisivi.
Cronaca Nera
Io Bestia di Satana vi racconto la mia verità sul satanismo, la setta e gli omicidi di quei tempi
Nel mistero delle Bestie di Satana, il tragico destino di Chiara Marino e Fabio Tollis si svela: una storia di violenza e oscuri segreti che continua a suscitare orrore e interrogativi.”
«Io non mi sono mai sentito un mostro». A vent’anni dai delitti delle Bestie di Satana, Mario Maccione, conosciuto come “Ferocity”, rompe il silenzio e propone una versione dei fatti diversa da quella raccontata fino ad oggi. In un podcast di Luca Casadei, intitolato “One more time”, Maccione si apre e racconta la sua verità su quella serie di efferatezze che hanno scosso l’Italia alla fine degli anni ’90 e all’inizio del 2000.
Condannato a 19 anni di carcere
Mario Maccione, ora 43enne e residente in Sardegna, è stato condannato a 19 anni di carcere, dei quali ne ha scontati 16 effettivamente. Oggi, libero, cerca di ricostruire la sua vita, ma decide di affrontare il passato e confessare la sua versione dei fatti. Maccione emerge come una figura chiave per comprendere gli eventi legati alle Bestie di Satana, poiché è uno dei pochi membri del gruppo ad aver accettato di parlare pubblicamente.
Presunto medium
Tra i membri della setta, Maccione era noto come il presunto medium in grado di entrare in contatto con forze demoniache e soprannaturali durante i rituali. Sebbene non fosse un intellettuale nel vero senso del termine, aveva una certa familiarità con testi di esoterismo, come quelli di Allan Kardec e Howard Lovecraf, che gli hanno conferito il ruolo di “stregone” all’interno del gruppo.
La sua confessione offre una nuova prospettiva sulla dinamica della setta e sulle motivazioni che hanno portato ai terribili crimini commessi. È un tassello importante per comprendere più a fondo la complessità di questa storia di orrore e tragedia che ha segnato la cronaca italiana.
Un terribile omicidio
E questo evento cruciale è legato al numero 16. Mario aveva appena compiuto 16 anni quando, in una gelida notte di gennaio del 1998, insieme agli altri membri delle Bestie di Satana, ha perpetrato un terribile omicidio ai danni dei suoi amici Chiara Marino e Fabio Tollis. I loro corpi sono stati brutalmente trucidati a martellate e coltellate, per poi essere sepolti in una buca in un bosco di Somma Lombardo, in provincia di Varese. Questi corpi sono rimasti lì fino al maggio del 2004.
La domanda che sorge spontanea è: qual era il grado di consapevolezza di un sedicenne coinvolto in un duplice omicidio così atroce? Come ha maturato il piano e come è riuscito a mantenere il terribile segreto per sei lunghi anni, senza mostrare alcun segno di rimorso?
Chiara Marino e Fabio Tollis
La ricostruzione processuale ha stabilito che Chiara Marino e Fabio Tollis sono stati uccisi in un contesto che sembrava essere un rito satanico, un vero e proprio sacrificio umano. Tuttavia, ai giudici interessava soprattutto stabilire se Maccione e i suoi complici fossero effettivamente i responsabili di questi delitti, senza essere influenzati da motivazioni soprannaturali.
Il racconto di Mario Maccione getta nuova luce su uno degli episodi più bui della storia italiana, consentendo di andare oltre le semplici sentenze giudiziarie e di comprendere più a fondo le motivazioni e la psicologia dietro questi atti mostruosi.
Le Bestie di Satana
Le parole di Mario Maccione, pronunciate nel corso degli anni e raccolte anche nel recente podcast One more time, gettano nuova luce sui tragici eventi legati alle Bestie di Satana. Contrariamente a quanto suggerito dalle teorie esoteriche, Maccione offre una spiegazione più terrena e inquietante: la tragedia non è stata alimentata da forze oscure, ma da un mix di suggestione, droghe, e l’influenza di una subcultura dark.
Prove di coraggio
Maccione rivela di essere stato coinvolto nel gruppo a causa di prove di coraggio e auto-suggestione, alimentate dall’uso di sostanze stupefacenti e dall’estetica dark. Pur non essendosi mai considerato un mostro, si è trovato a indossare una maschera che lo ha trasformato nella figura del terrore. Tuttavia, il suo racconto non fornisce una spiegazione consolatoria per i terribili crimini commessi.
Il retroterra familiare di Maccione non sembra fornire chiavi di lettura valide per comprendere il suo coinvolgimento nei delitti. Cresciuto in una famiglia con un certo margine di sicurezza economica, ha frequentato istituti religiosi prima di ribellarsi al rigore religioso e avvicinarsi al metal e al satanismo.
Assenza di un background criminale
L’elemento cruciale sembra essere il suo coinvolgimento precoce nei delitti, avvenuto all’età di 16 anni. Nonostante l’assenza di un background criminale o familiare problematico, Maccione e i suoi complici hanno compiuto atti di estrema violenza. Il podcast rivela che Maccione ha considerato l’omicidio come una prova di coraggio, non prevedendo le conseguenze tragiche che ne sarebbero seguite.
La falsa pista del satanismo emerge come una mera messinscena, mentre il vero motore dietro ai delitti sembra essere stato il desiderio di potere e il gioco del coraggio estremo. Maccione stesso ammette di aver commesso un errore irreparabile, perdendo il controllo durante un attacco di panico e scatenando la tragedia.
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