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Sic transit gloria mundi

Trump e i repubblicani contro il porno: dopo Stormy Daniels ipocrisia suprema?

Dopo gli scandali con Stormy Daniels, il GOP ora vuole “castrare” i siti per adulti con leggi restrittive. La Corte Suprema discute l’obbligo di verifica dell’età, ma i rischi per la privacy preoccupano.

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    Donald Trump ai tempi si divertiva con una pornostar, oggi i repubblicani vogliono bloccare l’accesso ai siti per adulti. Sembra una sceneggiatura surreale, ma è la realtà. La Corte Suprema americana sta valutando l’adozione di restrizioni che potrebbero obbligare i siti porno a verificare l’identità degli utenti, imponendo un controllo rigoroso sui documenti di chi vuole accedere.

    Un paradosso che non passa inosservato: mentre il tycoon cerca di tornare alla Casa Bianca nonostante il processo per il presunto pagamento a Stormy Daniels, il suo partito si lancia in una crociata morale per “salvare” i giovani americani dalla pornografia.

    Il piano repubblicano: documenti obbligatori per accedere ai siti porno

    La legge al centro del dibattito è la HB 1181, già approvata in Texas nel 2023, che obbliga i siti per adulti a verificare l’età degli utenti attraverso un documento governativo. In pratica, chi vuole accedere a Pornhub & Co. dovrebbe caricare il proprio ID per dimostrare di essere maggiorenne. Il Texas non è solo: altre 16 legislature statali (tutte a guida repubblicana) stanno spingendo per norme simili, tra cui Florida, Alabama e Utah.

    Pornhub ha già reagito nel suo stile: blocco totale del servizio in Texas, lasciando gli utenti frustrati e spingendoli verso le VPN per aggirare il divieto.

    Libertà d’espressione vs. privacy: la Corte Suprema si spacca

    Il cuore della questione è un altro: il Primo Emendamento. La Corte Suprema americana, pur incline a dare ragione ai repubblicani sull’accesso dei minori, deve fare i conti con la libertà d’espressione. Chi si oppone alle restrizioni teme che l’obbligo di fornire dati personali metta a rischio la privacy degli utenti, aprendo la porta a ricatti, abusi e fughe di informazioni sensibili.

    E poi, c’è il punto chiave: i minorenni accedono comunque ai siti porno con metodi alternativi. E se il vero problema fosse l’educazione sessuale, anziché la censura digitale?

    L’ipocrisia a stelle e strisce

    In tutto questo, la contraddizione è evidente. Trump, lo stesso uomo che finì al centro di uno scandalo per il pagamento a Stormy Daniels, è ora il leader di un partito che vuole moralizzare l’America. Un partito che predica libertà assoluta per le armi, ma vuole imporre controlli rigidissimi sul sesso online.

    E mentre i giudici decidono, la pornografia resta il grande tabù americano: demonizzata in pubblico, ma consumata senza sosta nel privato.

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      Vannacci riscrive la storia e rilancia le ipotesi farlocche dei neonazi tedeschi: “Hitler era comunista”

      Il generale si schiera con la leader dell’ultradestra tedesca Weidel e sostiene la sua teoria bislacca. Perché la Storia, quella vera, lo smentisce senza pietà.

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        Quando pensi che l’assurdo abbia raggiunto il suo apice, arriva Roberto Vannacci a dimostrarti che c’è sempre un gradino più in basso. Dopo le dichiarazioni di Alice Weidel, leader dell’AfD tedesca, secondo cui Hitler sarebbe stato un “comunista, socialista e antisemita”, il generale non ha perso l’occasione per ribadire il concetto, con la sua solita spavalderia e una totale noncuranza per la Storia.

        Durante l’ultima puntata di Fuori dal Coro, Vannacci ha sostenuto che il nazismo sia stato un movimento socialista perché “Hitler ha fondato un partito che si chiamava nazionalsocialismo”. Un’argomentazione che farebbe inorridire qualsiasi studente di storia del primo anno, ma che evidentemente trova spazio nel suo personalissimo mondo parallelo.

        Ma il punto è semplice: no, Hitler non era comunista. No, il nazismo non aveva nulla a che vedere con il socialismo, se non nel nome (e pure quello scelto per mera strategia di consenso). Il Terzo Reich ha perseguitato e sterminato i comunisti, ha demonizzato il marxismo e ha costruito un sistema di dominio autoritario basato su razzismo, espansionismo e distruzione delle libertà democratiche.

        La stessa ideologia hitleriana è sempre stata dichiaratamente anti-marxista e antisocialista. Nel 1932, Hitler affermava: “Il socialismo è la scienza di occuparsi del bene comune. Il comunismo non è socialismo. Il marxismo non è socialismo.” Chiara la distinzione, no? Peccato che per Vannacci la Storia sia un optional.

        Forse il generale dovrebbe fermarsi un attimo, sfogliare un libro di storia (vero) e riflettere prima di lanciarsi in crociate revisioniste. Ma forse, proprio come Weidel, è troppo occupato a riscrivere la

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          Vannacci contro Papa Francesco: quando l’autostima diventa una battaglia politica

          L’ex militare se la prende con il Pontefice, accusandolo di incoerenza e lanciando un attacco che sa di provocazione a vuoto. Quando l’autopromozione passa per il pulpito altrui.

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            Roberto Vannacci, noto più per le sue polemiche che per le sue imprese, ha deciso di alzare il tiro e colpire uno dei simboli più universali del dialogo e della speranza: Papa Francesco. In un’uscita sui social, Vannacci ha criticato le posizioni del Pontefice sull’accoglienza dei migranti, sottolineando con un tono sprezzante quella che lui definisce un’ipocrisia del Vaticano.

            Secondo il generale, infatti, il Vaticano applica pene severe contro chi entra illegalmente nei suoi confini, in contrasto con i messaggi di apertura e accoglienza che Francesco continua a promuovere. Una “scoperta” che appare più come una strumentalizzazione piuttosto che una vera critica.

            Non contento, Vannacci ha attaccato anche il messaggio che il Papa ha rivolto ai detenuti del carcere di Rebibbia durante l’apertura della Porta Santa. Con un tono di sdegno, ha insinuato che le vittime dei crimini siano ignorate dal Pontefice, come se fosse dovere del Papa stilare una lista di priorità secondo il gusto di un militare in cerca di visibilità.

            È evidente che dietro a questi attacchi non ci sia altro che l’ennesimo tentativo di Vannacci di costruirsi una piattaforma politica su temi divisivi. Ma attaccare il Papa, figura riconosciuta in tutto il mondo per il suo messaggio di inclusione e speranza, non è solo fuori luogo: è una manovra cinica e destinata a fallire.

            Papa Francesco, con il suo invito all’accoglienza e alla misericordia, rappresenta una voce che tenta di unire in un mondo sempre più frammentato. Vannacci, invece, con le sue uscite urlate e aggressive, sembra impegnato solo a scavare fossati, colpendo chi rappresenta valori che evidentemente non riesce a comprendere.

            Un attacco al Papa è un atto che avrebbe richiesto almeno una riflessione, ma Vannacci sembra aver deciso di sacrificare la ragione sull’altare della provocazione. Un altare che, ironia della sorte, non troverà mai posto nel Vaticano che tanto si affanna a criticare.

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              Zuckerberg si toglie la maschera: Meta abbandona inclusione e diversità per superare (a destra) Elon Musk nei favori di Trump

              Con la chiusura dei programmi di diversità e l’allineamento alla nuova amministrazione americana,
              Meta abbandona la sua storica bandiera di pari opportunità e inclusione. Zuckerberg rinnega i valori che
              aveva dichiarato di voler difendere e si posiziona persino più a destra di Musk, mettendo Facebook e
              Instagram al servizio del potere politico.

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                Mark Zuckerberg, quello che un tempo si dipingeva come il profeta dell’inclusione e del progresso, ha deciso di gettare la maschera. Dopo anni passati a vendere l’immagine di un visionario illuminato, il bravo ragazzo di Silicon Valley ha sacrificato ogni principio dichiarato per saltare sul carro di Donald Trump superando a destra persino l’eterno rivale Elon Musk. Dopo l’eliminazione del fact-checking negli Stati Uniti, un regalo confezionato su misura per il ritorno del tycoon alla Casa Bianca, Meta ha annunciato la cancellazione dei programmi di diversità, equità e inclusione (Dei), dimostrando che tutti i discorsi sulla responsabilità sociale erano, in fondo, solo marketing. Insomma, Zuckerberg ora mostra il suo vero volto: quello di un manager interessato solo a consolidare il potere, compiacendo chi detiene le leve del comando.

                Questa svolta è arrivata senza preavviso. Non ci saranno più squadre per garantire pari opportunità nell’assunzione, formazione o scelta dei fornitori. Il messaggio è chiaro: il futuro di Meta non è inclusivo, è esclusivo. Ed esclusivo di chi? Di chi decide cosa si può dire e chi può avere un posto al tavolo.

                Le giustificazioni ufficiali, ovviamente, non mancano. La vicepresidente delle risorse umane, Janelle Gale, ha dichiarato: «Il panorama legale e politico intorno agli sforzi per la diversità, l’equità e l’inclusione negli Usa sta cambiando». Ha aggiunto: «La Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente preso decisioni che indicano un cambiamento nel modo in cui i tribunali tratteranno i programmi Dei». L’azienda afferma ora di voler «applicare pratiche eque e coerenti che mitigano i pregiudizi per tutti, indipendentemente dal background». In altre parole, si nega la necessità di corsie preferenziali per «supportare meglio le persone sottorappresentate», un obiettivo fino a poco tempo fa centrale nella strategia inclusiva dell’azienda.

                Ma questa spiegazione suona vuota: Meta non si sta adattando, sta scegliendo di allinearsi (a destra). Anzi, sembra quasi entusiasta di cavalcare questa nuova direzione. Con Trump pronto a tornare alla Casa Bianca, Zuckerberg sa benissimo da che parte stare. Il ceo di Meta, che ora parla con orgoglio di avere “maggiore controllo” sulle policy aziendali, non sta solo voltando le spalle ai valori che diceva di sostenere: sta mettendo la sua azienda al servizio di una narrazione politica ben precisa. Non è più un arbitro, ma un giocatore. E come tale ha deciso di muoversi senza più guardare in faccia nessuno.

                La cancellazione dei programmi di diversità non è solo un atto simbolico, è una dichiarazione d’intenti. Nonostante i progressi dichiarati nel 2022, con il 37% della forza lavoro composto da donne e percentuali irrisorie di dipendenti neri (4,9%) e ispanici (6,7%), Meta ha deciso di abbandonare ogni sforzo per migliorare. Invece di affrontare le sue lacune, Meta le nasconde sotto il tappeto. Non c’è più traccia dell’azienda che prometteva di costruire un ambiente sicuro per tutti.

                Il clima dentro Meta è ormai incandescente. Sulla piattaforma interna Workplace, un dipendente ha scritto: “È folle. Tutto questo sta succedendo solo perché il potere è cambiato?”. Roy Austin, vicepresidente dei Diritti Civili, si è dimesso, denunciando un contesto che rende impossibile qualsiasi azione concreta. Le proteste interne crescono, ma sembra che Zuckerberg abbia già deciso di ignorarle.

                E poi ci sono le parole di Biden, che ha definito “vergognosa” l’abolizione del fact-checking, ricordando quanto sia importante combattere la disinformazione. Ma Zuckerberg non sembra minimamente toccato. Anzi, accusa l’amministrazione Biden di averlo costretto a “censurare” contenuti durante la pandemia. È una narrazione comoda, ma suona vuota considerando quante vite sono state salvate evitando che le fake news sui vaccini si diffondessero incontrollate.

                Meta non è più un’azienda tecnologica, è una macchina politica al servizio di chi può garantirne il potere. Zuckerberg non vuole più nascondersi dietro ai principi, perché sa che non ne ha più bisogno. E mentre celebra la sua “libertà” ritrovata, il mondo osserva con preoccupazione il tracollo dei valori che avrebbero dovuto definire il futuro delle piattaforme digitali. Non c’è più traccia dell’azienda “liberal” all’avanguardia nell’integrazione e nei diritti civili. Ora c’è solo Meta, pronta a fare qualsiasi cosa per restare in cima. E c’è Zuckerberg, sempre più simile a un imperatore senza regole, guidato da un solo principio: il suo interesse personale.

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