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Sic transit gloria mundi

Elon Musk e il “saluto nazista”: quando le scuse sono peggiori del gesto

Dai giornali americani e israeliani ai social, la condanna è unanime: il proprietario di X e Tesla ha fatto un gesto che non lascia spazio a dubbi. Ma la difesa è goffa e patetica: il suo referente in Italia prima esulta, poi cancella il tweet e cerca di riscrivere la realtà. Musk, dal canto suo, liquida tutto come un “trucchetto sporco”. Ma stavolta il trucco è fin troppo evidente.

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    Elon Musk ha fatto il saluto nazista in diretta TV. Lo ha fatto una volta. Poi, siccome gli era piaciuto, lo ha rifatto. Davanti a una folla in delirio. Il gesto è stato trasmesso ovunque, in tutto il mondo, e ha generato indignazione. Ma, come sempre, Musk non si scusa: nega, attacca, si rifugia nella sua solita narrativa vittimista, in cui lui è il genio perseguitato e gli altri, poveri stolti, sono solo burattini manipolati dai media in cerca di “sporchi trucchetti”.

    Il solito copione: negare, minimizzare, insultare

    Le immagini parlano chiaro. Durante il suo intervento alla Capital One Arena di Washington, Musk si è battuto il petto e ha alzato il braccio teso verso il pubblico. Poi si è voltato e ha ripetuto il gesto. Gli stessi giornali americani e israeliani, da Haaretz al Times of Israel, hanno sottolineato la gravità dell’accaduto, facendo notare che non si tratta di un incidente isolato: Musk ha già una lunga lista di strizzate d’occhio all’estrema destra, dagli attacchi a George Soros al sostegno più o meno esplicito ai movimenti suprematisti bianchi e ai partiti ultraconservatori in Europa.

    Come ha reagito? Con la solita arroganza. «Hanno bisogno di meglio di questi sporchi trucchetti», ha scritto su X, come se tutto fosse un gigantesco complotto ai suoi danni. E poi l’inevitabile vittimismo: «L’attacco tutti sono Hitler ha così stancato…».

    Le scuse che fanno ridere (e piangere)

    La ciliegina sulla torta arriva dai suoi fedeli scudieri, pronti a riscrivere la realtà con la stessa disinvoltura con cui Musk lancia razzi nello spazio. Andrea Stroppa, suo referente in Italia, inizialmente esaltato («L’Impero Romano è tornato, a cominciare dal saluto romano!»), ha cancellato il tweet e cambiato versione. Ora il gesto sarebbe semplicemente un’espressione affettuosa: «Musk è autistico e stava solo cercando di dire “Voglio darvi il mio cuore”». Ah, e ovviamente, «A Elon non piacciono gli estremisti!».

    Se davvero non c’era nulla di male nel gesto, perché cancellare il tweet? Se era un’espressione d’affetto, perché servono giustificazioni così elaborate? Se l’intento era innocente, perché il danno d’immagine è immediatamente apparso evidente perfino ai suoi collaboratori?

    La verità è che Musk sa perfettamente cosa ha fatto, e chi lo difende sta solo cercando di mettere pezze su una voragine che ormai è impossibile da nascondere.

    Dal “cuore” al danno d’immagine

    Il problema non è solo il gesto. Il problema è tutto il contesto che Musk ha costruito attorno a sé negli ultimi anni. Un contesto fatto di strizzate d’occhio al suprematismo bianco, retorica cospirazionista, ammiccamenti ai movimenti di estrema destra e gestione di Twitter (ora X) come una piattaforma sempre più accogliente per il peggior ciarpame dell’odio online.

    Musk provoca, osserva le reazioni, nega l’evidenza e trasforma tutto in uno scontro tra il “sistema” e il suo genio incompreso. Questo teatrino gli ha fruttato popolarità e seguito, ma sta arrivando il momento in cui il gioco diventa pericoloso.

    Musk e la libertà di espressione a senso unico

    Musk è lo stesso che ha costruito la sua narrativa attorno alla libertà di espressione. Ha difeso il diritto di chiunque di dire qualsiasi cosa, anche le peggiori nefandezze. Ha riammesso personaggi banditi da Twitter per incitamento all’odio, ha ridicolizzato chi si opponeva a certe derive.

    Ma quando tocca a lui? Quando viene criticato, Musk non risponde con la libertà di pensiero, risponde con la negazione e il vittimismo.

    L’ipocrisia è palese. E mentre lui finge di non capire, il messaggio è arrivato forte e chiaro: questo non è un caso isolato, è una scelta precisa.

    Ma stavolta, il trucco è troppo evidente. E fa schifo.

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      Vannacci riscrive la storia e rilancia le ipotesi farlocche dei neonazi tedeschi: “Hitler era comunista”

      Il generale si schiera con la leader dell’ultradestra tedesca Weidel e sostiene la sua teoria bislacca. Perché la Storia, quella vera, lo smentisce senza pietà.

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        Quando pensi che l’assurdo abbia raggiunto il suo apice, arriva Roberto Vannacci a dimostrarti che c’è sempre un gradino più in basso. Dopo le dichiarazioni di Alice Weidel, leader dell’AfD tedesca, secondo cui Hitler sarebbe stato un “comunista, socialista e antisemita”, il generale non ha perso l’occasione per ribadire il concetto, con la sua solita spavalderia e una totale noncuranza per la Storia.

        Durante l’ultima puntata di Fuori dal Coro, Vannacci ha sostenuto che il nazismo sia stato un movimento socialista perché “Hitler ha fondato un partito che si chiamava nazionalsocialismo”. Un’argomentazione che farebbe inorridire qualsiasi studente di storia del primo anno, ma che evidentemente trova spazio nel suo personalissimo mondo parallelo.

        Ma il punto è semplice: no, Hitler non era comunista. No, il nazismo non aveva nulla a che vedere con il socialismo, se non nel nome (e pure quello scelto per mera strategia di consenso). Il Terzo Reich ha perseguitato e sterminato i comunisti, ha demonizzato il marxismo e ha costruito un sistema di dominio autoritario basato su razzismo, espansionismo e distruzione delle libertà democratiche.

        La stessa ideologia hitleriana è sempre stata dichiaratamente anti-marxista e antisocialista. Nel 1932, Hitler affermava: “Il socialismo è la scienza di occuparsi del bene comune. Il comunismo non è socialismo. Il marxismo non è socialismo.” Chiara la distinzione, no? Peccato che per Vannacci la Storia sia un optional.

        Forse il generale dovrebbe fermarsi un attimo, sfogliare un libro di storia (vero) e riflettere prima di lanciarsi in crociate revisioniste. Ma forse, proprio come Weidel, è troppo occupato a riscrivere la

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          Trump e i repubblicani contro il porno: dopo Stormy Daniels ipocrisia suprema?

          Dopo gli scandali con Stormy Daniels, il GOP ora vuole “castrare” i siti per adulti con leggi restrittive. La Corte Suprema discute l’obbligo di verifica dell’età, ma i rischi per la privacy preoccupano.

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            Donald Trump ai tempi si divertiva con una pornostar, oggi i repubblicani vogliono bloccare l’accesso ai siti per adulti. Sembra una sceneggiatura surreale, ma è la realtà. La Corte Suprema americana sta valutando l’adozione di restrizioni che potrebbero obbligare i siti porno a verificare l’identità degli utenti, imponendo un controllo rigoroso sui documenti di chi vuole accedere.

            Un paradosso che non passa inosservato: mentre il tycoon cerca di tornare alla Casa Bianca nonostante il processo per il presunto pagamento a Stormy Daniels, il suo partito si lancia in una crociata morale per “salvare” i giovani americani dalla pornografia.

            Il piano repubblicano: documenti obbligatori per accedere ai siti porno

            La legge al centro del dibattito è la HB 1181, già approvata in Texas nel 2023, che obbliga i siti per adulti a verificare l’età degli utenti attraverso un documento governativo. In pratica, chi vuole accedere a Pornhub & Co. dovrebbe caricare il proprio ID per dimostrare di essere maggiorenne. Il Texas non è solo: altre 16 legislature statali (tutte a guida repubblicana) stanno spingendo per norme simili, tra cui Florida, Alabama e Utah.

            Pornhub ha già reagito nel suo stile: blocco totale del servizio in Texas, lasciando gli utenti frustrati e spingendoli verso le VPN per aggirare il divieto.

            Libertà d’espressione vs. privacy: la Corte Suprema si spacca

            Il cuore della questione è un altro: il Primo Emendamento. La Corte Suprema americana, pur incline a dare ragione ai repubblicani sull’accesso dei minori, deve fare i conti con la libertà d’espressione. Chi si oppone alle restrizioni teme che l’obbligo di fornire dati personali metta a rischio la privacy degli utenti, aprendo la porta a ricatti, abusi e fughe di informazioni sensibili.

            E poi, c’è il punto chiave: i minorenni accedono comunque ai siti porno con metodi alternativi. E se il vero problema fosse l’educazione sessuale, anziché la censura digitale?

            L’ipocrisia a stelle e strisce

            In tutto questo, la contraddizione è evidente. Trump, lo stesso uomo che finì al centro di uno scandalo per il pagamento a Stormy Daniels, è ora il leader di un partito che vuole moralizzare l’America. Un partito che predica libertà assoluta per le armi, ma vuole imporre controlli rigidissimi sul sesso online.

            E mentre i giudici decidono, la pornografia resta il grande tabù americano: demonizzata in pubblico, ma consumata senza sosta nel privato.

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              Vannacci contro Papa Francesco: quando l’autostima diventa una battaglia politica

              L’ex militare se la prende con il Pontefice, accusandolo di incoerenza e lanciando un attacco che sa di provocazione a vuoto. Quando l’autopromozione passa per il pulpito altrui.

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                Roberto Vannacci, noto più per le sue polemiche che per le sue imprese, ha deciso di alzare il tiro e colpire uno dei simboli più universali del dialogo e della speranza: Papa Francesco. In un’uscita sui social, Vannacci ha criticato le posizioni del Pontefice sull’accoglienza dei migranti, sottolineando con un tono sprezzante quella che lui definisce un’ipocrisia del Vaticano.

                Secondo il generale, infatti, il Vaticano applica pene severe contro chi entra illegalmente nei suoi confini, in contrasto con i messaggi di apertura e accoglienza che Francesco continua a promuovere. Una “scoperta” che appare più come una strumentalizzazione piuttosto che una vera critica.

                Non contento, Vannacci ha attaccato anche il messaggio che il Papa ha rivolto ai detenuti del carcere di Rebibbia durante l’apertura della Porta Santa. Con un tono di sdegno, ha insinuato che le vittime dei crimini siano ignorate dal Pontefice, come se fosse dovere del Papa stilare una lista di priorità secondo il gusto di un militare in cerca di visibilità.

                È evidente che dietro a questi attacchi non ci sia altro che l’ennesimo tentativo di Vannacci di costruirsi una piattaforma politica su temi divisivi. Ma attaccare il Papa, figura riconosciuta in tutto il mondo per il suo messaggio di inclusione e speranza, non è solo fuori luogo: è una manovra cinica e destinata a fallire.

                Papa Francesco, con il suo invito all’accoglienza e alla misericordia, rappresenta una voce che tenta di unire in un mondo sempre più frammentato. Vannacci, invece, con le sue uscite urlate e aggressive, sembra impegnato solo a scavare fossati, colpendo chi rappresenta valori che evidentemente non riesce a comprendere.

                Un attacco al Papa è un atto che avrebbe richiesto almeno una riflessione, ma Vannacci sembra aver deciso di sacrificare la ragione sull’altare della provocazione. Un altare che, ironia della sorte, non troverà mai posto nel Vaticano che tanto si affanna a criticare.

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