Storie vere
Scopre per caso che sua nonna era un’aguzzina nazista nei campi di concentramento
Dal silenzio familiare alla testimonianza pubblica: la scoperta di un passato oscuro e il difficile percorso verso l’elaborazione del dolore.
Scoprire di essere il nipote di una custode nei campi di concentramento nazisti non è bello. Per Renzo Samaritani, figlio della scrittrice Helga Schneider è stato uno shock devastante. Una verità che la madre aveva a lungo taciuto, fino alla pubblicazione del libro Il rogo di Berlino (Adelphi, 1995). “Un caro amico mi telefonò dicendo di andare in libreria e leggere quel libro: sei nipote di una kapò di un campo di concentramento, mi disse. Quella rivelazione segnò la perdita di amicizie e rapporti importanti“, racconta oggi Samaritani. Oggi 58enne e residente a Trani insieme al suo compagno, Renzo ha trovato il coraggio di condividere pubblicamente questa dolorosa storia. “Quando mia madre pubblicò il libro, ero già grande. La scoperta mi travolse: il peso di una colpa che non è mia, ma appartiene al passato della mia famiglia, è stato difficile da accettare”.
Un segreto taciuto per proteggere il nipote
Helga Schneider, già segnata dal fallimento di un tentativo di riconciliazione con la madre, aveva scelto di non rivelare al figlio quella parte oscura del passato. “Da bambino, mia madre mi portò una sola volta a Vienna per incontrare mia nonna. Mentre io disegnavo seduto attorno a un tavolo, loro parlarono in un’altra stanza. Solo anni dopo ho saputo che mia nonna, durante quell’incontro, mostrò la sua divisa nazista a mia madre, chiedendole persino di indossarla. Quel gesto, privo di qualsiasi pentimento, ha devastato tanto lei quanto me“, ricorda Renzo. La scelta della madre di tenerlo all’oscuro coinvolse persino la lingua: “Non mi insegnò il tedesco per proteggermi. Ora capisco il suo intento, ma questo ha reso ancora più traumatico il momento in cui ho letto quelle pagine“.
L’arte come terapia
Dopo anni di difficoltà, Renzo ha trovato nella condivisione pubblica una forma di elaborazione. “Sto riuscendo a fare pace con il passato, guardandolo in faccia e raccontandolo“. Il 28 gennaio scorso, è stato protagonista al teatro Mimesis di Trani insieme alla giornalista Stefania De Toma, per un evento dedicato alla memoria della Shoah e alle sue vittime invisibili. “Attraverso l’arte racconterò la mia storia e le nostre sofferenze. Credo che parlare sia il primo passo per guarire“.
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Storie vere
Da un’idea al piatto: Margherita, 9 anni, inventa la pasta a forma di tappo e Barilla la produce
Una bambina di Genova scrive all’amministratore delegato di Barilla per proporre un nuovo tipo di pasta capace di trattenere più sugo. L’azienda risponde alla sua creatività con un prototipo realizzato in 3D.
A volte basta un semplice gesto per trasformare un’idea in realtà. Margherita, una bambina di nove anni e mezzo di Genova, ha compiuto un atto che molti adulti spesso non osano fare: ha preso carta e penna e ha scritto direttamente a Gianluca Di Tondo, amministratore delegato di Barilla, proponendo una nuova tipologia di pasta capace di trattenere al meglio il sugo. La sua creatività ha portato alla nascita di un formato originale che richiama la forma di un tappo, pensato proprio per “catturare” il condimento e regalare un’esperienza gustativa più intensa.
Una lettera che ha fatto la differenza
Nella sua lettera, Margherita ha descritto nei dettagli il suo progetto: una pasta che somigliasse a un tappo di pennarello, capace di raccogliere il sugo all’interno, rendendo ogni boccone più ricco e saporito. “Se vi piace, potete idearla”, ha scritto con innocente determinazione, sperando di vedere realizzata la sua invenzione.
La risposta dell’ad di Barilla non si è fatta attendere troppo. Di Tondo, colpito dalla genuinità e dall’entusiasmo della bambina, ha scritto di proprio pugno una lettera di ringraziamento, in cui si diceva entusiasta dell’idea e prometteva di sottoporla ai colleghi del reparto sviluppo nuovi formati.
Dal sogno alla realtà
E così è stato. Dopo qualche settimana, a casa di Margherita è arrivato un pacco speciale. All’interno, una prima versione della pasta a forma di tappo, realizzata con la tecnologia 3D. “Abbiamo lavorato sulla tua bellissima idea e siamo riusciti a produrre una prima versione del nostro impianto pilota,” ha scritto Di Tondo nel messaggio che accompagnava il prototipo. “Ci potrebbe volere un po’ di tempo per riuscire a produrli su larga scala, ma, nel frattempo, volevamo farli avere a te.”
Una pasta che promette bene
La storia di Margherita e della sua pasta è un esempio di come la creatività, unita alla disponibilità e all’ascolto, possa portare a risultati straordinari. Non solo l’azienda ha accolto con entusiasmo l’invenzione della bambina, ma ha anche dimostrato come, attraverso l’innovazione e la sperimentazione, sia possibile dare forma a idee nuove e originali.
Ora non resta che attendere per vedere se i “tappi di Margherita” arriveranno davvero sugli scaffali dei supermercati, ma una cosa è certa: il sogno di una bambina è diventato realtà, regalando a tutti noi una storia di creatività e speranza.
Storie vere
Precariato in un centro commerciale di Parma, senza pausa pranzo e con il timore di andare in bagno
Storie di moderno sfruttamento, come quella che avviene in un centro commerciale di Parma, dove le commesse – confermate di mese in mese con uno stipendio misero – non godono della pausa pranzo e temono di concedersi una pausa caffè o di recarsi in bagno.
Una commessa racconta al sito Parmatoday le condizioni di lavoro che è costretta a subire, in un negozio di un centro commerciale della città emiliana dove lavora, con un contratto in somministrazione lavoro, con l’intermediazione di un’agenzia. 900 euro al mese per 24/30 ore settimanali senza pausa pranzo, vivendo con la paura che anche le sacrosante “pause bagno” possano essere prese come scusa dall’azienda per non prolungare il rapporto di lavoro. «Le aziende possono fare di loro ciò che vogliono», commenta il segretario territoriale Ugl Parma, Giorgia Costantino.
Fondata sul lavoro… senza etica
Domande personali fatte in sede di colloquio, contratti rinnovati mensilmente («così possono lasciarci a casa a ogni scadenza») e i turni festivi e le domenica pagate poco più di sei euro all’ora. Condizioni vergognose per un paese che si fregia di essere “una Repubblica fondata sul lavoro”. Specchio sempre più dilagante di un mondo del lavoro che ha perso ogni valore etico ed ogni dignità gestionale.
Difficile conciliare la vita privata col lavoro
Secondo quanto racconta la commessa, che ha chiesto di rimanere anonima per paura delle ripercussioni, il degrado inizia dal primo colloquio di lavoro. «Mi hanno chiesto se ho figli, se sono fidanzata, se convivo e se ho qualcuno che possa stare con i miei figli mentre lavoro», ha rivelato. «Una volta passato il colloquio ti chiedono di iscriverti a un’agenzia di lavoro in modo che l’assunzione avvenga tramite loro». L’avvio del rapporto di lavoro avviene attraverso un contratto settimanale a poco più di sei euro l’ora, «poi di un mese e poi di un altro mese». E così via, con la struttura di part time con orari che difficilmente permettono di conciliare vita privata e occupazione. Mettendo i lavoratori nella difficile condizione di dover lavorare anche nei giorni festivi e durante le domeniche: «Non riusciamo a fare altro, per esempio stare un po’ in famiglia e con i nostri figli».
Sotto ricatto costante, dove un caffè diventa un lusso da dimenticare
Le commesse subiscono quindi la perversa “strategia” del rinnovo mensile: «Nessuna di noi si oppone a lavorare tutti i festivi. Sai che sei sotto ricatto e puoi essere lasciata a casa ad ogni scadenza del contratto». Un solo giorno di riposo a settimana, mai nel weekend. Niente pausa pranzo, ovviamente, e anche la necessità di un caffè deve essere accantonata «per paura di essere riprese dai capi».
necessità fisiologiche solo se estremamente impellenti
«Andiamo in bagno se abbiamo bisogno ma cerchiamo di limitarci». A questo si aggiungono le richieste di fermarsi oltre l’orario di lavoro «fino a quando c’erano clienti nel negozio», o di arrivare almeno in quarto d’ora prima dell’inizio del turno «senza retribuzione aggiuntiva». La mansione – quella di “scaffalista” – risulta esattamente paritetica a quella di lavoratrici assunte, salvo disporre di meno garanzie, risultando sotto la categoria di “somministrazione lavoro”: «Le persone effettivamente assunte sono meno de 50% del totale». E quando finiscono le proroghe del contratto? Semplice, «cambiano agenzia e ti rifanno il contratto, così riparte tutto da zero».
Moderni schiavi
Commenta duramente Giorgia Costantino, segretario territoriale di Parma dell’Unione generale del lavoro: «Le agenzie di somministrazione hanno peggiorato il mondo del lavoro». Le paghe risultano bassissime e spesso i dettagli dell’accordo non sono resi noti: «Ho dovuto insistere in alcune agenzie perché diverse lavoratrici hanno avuto la maggiorazione al 30 e non al 50%», come stabilisce un accordo territoriale con Confcommercio a Parma. Insomma «le lavoratrici non hanno il diritto di andare da un sindacato per farsi tutelare. Sei ci vanno vengono lasciate a casa». La crescita di un paese, spesso strombazzata strumentalmente dal governo di turno, passa necessariamente attraverso l’etica aziendale. Un insieme virtuos di valori e norme che si prefiggono l’obiettivo di migliorare l’ambiente di lavoro e promuovere l’uguaglianza e il rispetto dei diritti. Senza di lei… c’è solo schiavitù: moderna, svolta in ambienti confortevoli (come quello di un centro commerciale), senza catene di metallo e bastonate. Ma sempre e solo con il medesimo obiettivo.
Storie vere
La madre attrice porno, il figlio le fa da regista. Lavorano insieme senza vergogna
La madre crea contenuti hard e il figlio le fa da regista. Nonostante le polemiche i due restano uniti e proseguono il loro lavoro, incuranti delle critiche.
Di fronte a una storia del genere puoi prendere posizioni diverse. La prima è quella del ‘bacchettone’ un po’ moralista e disgustato. La seconda è alzare le spalle e girarti dall’altra parte, affari loro. La terza è seguire l’onda. E l’onda ritorna sempre nelle stessa risacca: colpa dei social.
“A volte penso che sia disgustoso ma non mi vergogno”
Comunque la si pensi questa è una storia che non passa inosservata. Da una parte coinvolge la pornostar brasiliana Andressa Urach e dall’altra suo figlio Arthur, 19 anni, che lavora come regista dei contenuti hard della madre. Ma come… ? Eh sì è proprio così. E’ il figlio Arthur a occuparsi delle riprese per la piattaforma di abbonamenti per adulti della madre. Quando gli si chiede se non trova imbarazzante questo suo ruolo, lui serafico risponde che a volte pensa che sia disgustoso, ma non si vergogna per nulla del suo ruolo. “È un lavoro vero. Come qualsiasi altro. Per giunta si tratta di mia madre e non provo alcuna attrazione“.
Uno storia che non poteva passare inosservata al popolo dei social
La rivelazione del coinvolgimento del figlio dietro le quinte è emersa lo scorso anno, e le critiche non si sono fatte attendere. Nonostante i commenti negativi, Arthur ha sempre difeso la sua scelta, sottolineando che non gli importa del giudizio degli altri. Sui social ha più volte messo in chiaro che a loro non interessa cosa pensano i social. E, con un occhio al business, aggiunge: “Parlate bene o male, l’importante è che parliate di noi“.
Tutto il potere al business
I social media sono stati un campo di battaglia per questa storia. Si sono buttati a capofitto dividendosi in più fazioni. Molti utenti hanno espresso perplessità e disapprovazione per il ruolo di Arthur. Uno dei tanti commenti si chiede come sia possibile che “(…) una madre sia una pornostar e il figlio, che lei stessa ha messo al mondo, è colui che la filma? Cosa sta succedendo alla società?“. Alcuni si sono spinti a dire che “Il mondo ha perso i suoi valori e la sua integrità“.
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