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Cronaca Nera

La famiglia Schumacher non ci sta. Troppo lievi le pene ai ricattarori ed estorsori dell’ex campione di Formula 1

La decisione di ricorrere in appello evidenzia la volontà di ottenere giustizia piena per l’accaduto e pene più severe per chi ha violato la fiducia e la privacy della famiglia.

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    La famiglia di Michael Schumacher ha deciso di ricorrere in appello contro le pene giudicate troppo lievi inflitte ai responsabili del tentativo di ricatto ai loro danni. Il caso aveva coinvolto un ex membro della sicurezza dell’ex campione di Formula 1, Markus Fritsche, e due complici, Yilmaz Tozturkan e il figlio di quest’ultimo. Insieme hanno cercato di estorcere 15 milioni di euro minacciando di diffondere materiale sensibile.

    Apparentemente era un piano ben congeniato…

    Markus Fritsche, ex guardia del corpo di Schumacher, aveva accesso privilegiato alla vita privata del pilota durante il suo incarico. Dopo essere stato licenziato per motivi economici, ha ideato un piano di estorsione insieme a Tozturkan e al figlio. Il trio ha trafugato circa 1.500 immagini, 200 video e documenti riservati riguardanti lo stato di salute dell’ex campione. Quindi ha archiviato quel materiale su quattro chiavette USB e due hard disk. Nel giugno scorso, i ricattatori hanno contattato la famiglia Schumacher, inviando quattro immagini come prova del materiale in loro possesso.

    Aggiungendo la richiesta di 15 milioni di euro in cambio del silenzio. Se il pagamento non fosse avvenuto entro un mese, le informazioni sarebbero state pubblicate sul dark web. Il luogo dello scambio sarebbe dovuto essere l’ufficio dell’avvocato della famiglia. Ma gli Schumacher, anziché cedere al ricatto, hanno prontamente informato la polizia, portando all’arresto di Tozturkan e del figlio.

    Le condanne e le rimostranze della famiglia Schumacher

    L’accusa nei confronti dei tre individui andati a giudizio include estorsione aggravata e violazione della privacy. Tuttavia, le pene inflitte sono state ritenute troppo miti dalla famiglia Schumacher. Fritsche ha ricevuto una condanna con la sospensione della pena. Mentre Tozturkan e il figlio sono stati condannati, ma con pene giudicate insufficienti dai familiari del campione. Secondo la famiglia, si tratta di un enorme abuso di fiducia, dato che il materiale sottratto riguardava la vita privata di Schumacher. Una vita protetta con grande riservatezza dalla moglie Corinna Betsch fin dal tragico incidente sugli sci avvenuto nel 2013 a Méribel. L’atto di ricatto non è solo un crimine finanziario, ma un attacco alla dignità e alla privacy di una persona che, dopo l’incidente, vive lontano dai riflettori.

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      Cronaca Nera

      Il genetista Linarello sul caso Garlasco: “Il Dna sulle mani di Chiara Poggi? È di Andrea Sempio, non ho dubbi”

      Le nuove perizie dei consulenti della Procura di Pavia confermano in pieno l’analisi di otto anni fa e riaprono il giallo di Garlasco. Linarello smonta l’ipotesi della contaminazione accidentale: «Quel Dna non poteva essere lì da giorni, Sempio o chi per lui ha toccato Chiara dopo l’aggressione».

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        Il Dna sopra le unghie di Chiara Poggi? “È quello di Sempio, non ho dubbi”. Pasquale Linarello lo afferma senza esitazioni, consapevole del peso delle sue parole. È stato lui, il genetista che per primo, otto anni fa, ha attribuito ad Andrea Sempio il profilo genetico rinvenuto sulle mani di Chiara Poggi, la ragazza uccisa nella sua villetta di Garlasco il 13 agosto 2007. Quelle stesse conclusioni, a lungo ignorate e considerate non decisive, oggi tornano al centro della scena. I nuovi periti della Procura di Pavia, incaricati di riesaminare il caso, confermano in pieno il lavoro di Linarello e riaprono la pista che porta a Sempio, amico di famiglia dei Poggi.

        «Non è un Dna bellissimo, questo è vero – ammette Linarello – ma è più che sufficiente per fare un confronto. E il confronto ci dice senza margine di dubbio che è il Dna di Andrea Sempio». Nessun tentennamento, nessuna zona grigia. Secondo l’esperto, la traccia trovata sulle dita di Chiara corrisponde perfettamente a quella di Sempio, o meglio, a quella di un maschio appartenente al suo nucleo familiare. «Siccome Andrea Sempio non ha fratelli – chiarisce il genetista – o è suo, o è di suo padre».

        Ma Linarello è convinto che l’identificazione sia univoca: «Io lavoravo alla cieca, non sapevo che il profilo genetico da confrontare fosse quello trovato sul corpo della ragazza. Lo confrontai con quello estratto da una tazzina toccata da Sempio e il risultato fu inequivocabile: erano identici».

        Il caso Garlasco, che ha visto condannato in via definitiva Alberto Stasi, fidanzato della vittima, sembra dunque riaprirsi. Linarello è netto nel respingere la vecchia teoria secondo cui il Dna di Sempio sarebbe potuto finire accidentalmente sulle mani della ragazza: «Quando Chiara è stata uccisa – spiega – il computer di casa non veniva acceso da tre giorni. Dovremmo pensare che in piena estate non si sia mai lavata le mani o fatta una doccia, e che il Dna sia rimasto lì intatto: è impossibile».

        C’è un altro dettaglio cruciale, che il genetista mette in evidenza: «Il Dna non era sotto le unghie ma sopra. Infatti il Ris di Parma, subito dopo l’omicidio, cercò tracce sotto le unghie e non trovò nulla». Questo elemento porta Linarello a una deduzione: «Sappiamo che Chiara non ha avuto il tempo di difendersi, è stata colpita subito. Quel Dna, quindi, deve essere finito sulle sue mani successivamente, probabilmente quando l’aggressore l’ha trascinata per la casa. Ed è lì che il contatto con Sempio si fa possibile».

        Nel secondo processo d’appello, il professor Avato già segnalò la presenza di un profilo genetico maschile ignoto. Ma la sua voce non trovò spazio nel dibattimento: «Non gli permisero di confrontarsi con il consulente dei giudici», ricorda Linarello, che ora vede confermate le sue analisi dal nuovo pool di esperti.

        Anche se il materiale genetico originale non è più disponibile, il genetista si dice certo: «La tecnica ha fatto passi avanti, ma i risultati che abbiamo sono sufficienti. È il Dna di Sempio». E questa nuova verità scientifica riapre una ferita mai del tutto rimarginata.

        Adesso il destino giudiziario di Andrea Sempio – mai formalmente accusato in passato – è nelle mani della Procura di Pavia. Sarà il tribunale a stabilire se questo tassello sarà sufficiente per riaprire, dopo quasi due decenni, un giallo che ha segnato la cronaca italiana.

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          Cronaca Nera

          Saviano accusa: «Coca, escort e soldi facili, così la Gintoneria ripropone il copione delle mafie al Nord»

          «Il locale di Milano segue la logica criminale che la ‘Ndrangheta ha esportato negli anni Ottanta: oggi tutto è amplificato dai social e dalla ricerca della fama»

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            Roberto Saviano lancia un affondo preciso e durissimo dal suo profilo Instagram: l’affaire Gintoneria, il locale milanese travolto dall’inchiesta per droga e prostituzione, è il riflesso di una dinamica che parla direttamente alle viscere del potere criminale in Lombardia. Non si limita a leggere i fatti giudiziari: Saviano scava nella cultura che li rende possibili, evocando i legami storici tra la ‘Ndrangheta e la gestione dei locali notturni nel Nord Italia, da sempre terreno fertile per affari illeciti e riciclaggio.

            Il night club, spiega lo scrittore, è stato per anni un baluardo delle mafie in trasferta, in particolare tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le cosche calabresi e campane misero radici solide tra Milano e l’hinterland. “Per loro – racconta Saviano – questi locali erano come ristoranti sotto controllo: vendere droga sì, ma senza dare nell’occhio, con una regola aurea di clandestinità e discrezione”. Poi però è arrivata un’altra scuola, quella incarnata da Francis Turatello, il boss milanese che comprese come il crimine potesse cambiare pelle: ostentare il malaffare e renderlo parte integrante del business.

            Oggi, in piena era social, Saviano vede nel modello “Turatello 2.0” la chiave per capire l’attrattiva morbosa di posti come la Gintoneria. “Lacerenza non fa altro che riproporre questa dinamica: espone il peccato, lo rende marketing, sa che l’illegalità ostentata è un valore aggiunto per i suoi clienti”, affonda lo scrittore. E prosegue: “Il male, anche per chi lo disprezza, appare più autentico del bene. E la Gintoneria è la versione pacchiana e Instagram-friendly di questo vecchio copione”.

            Ma chi frequenta davvero il “tempio” della Gintoneria, incastonato tra i palazzi dietro la Stazione Centrale di Milano? Non certo l’élite della finanza o gli imprenditori della Milano che conta. I frequentatori abituali sono piccoli borghesi in cerca di status symbol da emulare: champagne spruzzato sulle tavolate, escort da esibire come trofei, cocaina spacciata come ingrediente della scalata sociale. “Il fruitore-tipo di quel locale è un parvenu con portafoglio da business class, ma anima da emarginato”, scrive Saviano, cogliendo la sottile distanza che separa questo mondo da quello dei veri circoli esclusivi della metropoli.

            Le cronache raccontano di personaggi come il leggendario “Lucione”, capace di bruciare 600mila euro in pochi anni in gin e serate ad alto tasso di eccessi. Il tutto giustificato alla Guardia di Finanza con la solita causale: “Champagne”. Ma in realtà serviva ad acquistare i “pacchetti Lacerenza”, vere e proprie combo di alcol e sesso recapitate anche a domicilio dal fido “Righello”, altra figura chiave dell’inchiesta.

            Dietro a questa apparente farsa da “Milano by night” si cela però un sistema ben più preoccupante. Per la Procura l’interesse è puntato su reati pesanti come lo sfruttamento della prostituzione, lo spaccio e, soprattutto, l’autoriciclaggio. Gli inquirenti sospettano che parte dei proventi – ben 2 milioni di euro nel 2023 – siano finiti in Albania, patria d’adozione di Stefania Nobile e Wanna Marchi, partner in affari di Lacerenza con la Ginco Eventi Spa. Un tesoretto che, secondo gli investigatori, potrebbe essere stato reinvestito nei locali gemelli della Gintoneria aperti a Tirana e Durazzo.

            L’inchiesta disegna così la parabola di una Milano deformata, dove l’ostentazione cafonal, l’alcol e le “notti senza regole” sostituiscono l’eleganza del passato. E dove, come scrive Saviano, il crimine non si limita più a nascondersi: “Ora ti mostra in faccia ciò che è, e questo basta a renderlo irresistibile per chi ha bisogno di sentirsi qualcuno, anche solo per una notte”.

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              Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

              Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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                Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

                “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

                “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

                Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

                “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

                Un puzzle senza pezzi combacianti

                Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

                E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

                E Andrea Sempio?

                L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

                Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

                Sedici anni dopo, i dubbi restano

                Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

                Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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