Mondo
Chi è John Atcherley Dew, il cardinale globtrotter che affronta il viaggio più lungo per il Conclave
Nonostante le ore di volo, la fatica e il dispendio di energie, John Atcherley Dew non mancherà all’appuntamento più importante per il futuro della Chiesa cattolica.

Nel panorama internazionale dei porporati chiamati a Roma per il Conclave, il cardinale John Atcherley Dew, arcivescovo emerito di Wellington, Nuova Zelanda, affronta la sfida logistica più complessa. Ovvero ha viaggiato per circa 30 ore tra un volo e l’altro con un notevole dispendio di energie. E per cosa? Per arrivare a Roma e prendere parte a una delle decisioni più significative per la Chiesa cattolica: l’elezione del nuovo pontefice. Dew, 77 anni, è una figura carismatica e progressista all’interno della Chiesa. Nominato cardinale dal Pontefice nel 2015, fa parte di quel gruppo di pastori provenienti da zone meno centrali della Chiesa, voluti dal pontefice argentino per rivitalizzare la sua missione universale. È il quarto neozelandese nella storia del Paese a ricevere la porpora e guida una delle comunità cattoliche più piccole al mondo. In Nuova Zelanda solo il 15% della popolazione di circa 4,5 milioni di abitanti professa il cattolicesimo, con praticanti ancora meno numerosi.
Un viaggio estenuante per essere presente a Roma
Il cardinale Dew ha preso un primo volo intercontinentale dalla Nuova Zelanda verso l’Asia con una durata di 13 ore. Una seconda tratta di altre 8 ore è stata percorsa verso una capitale europea, quindi un ultimo volo di 2 ore per Roma, dove finalmente atterra. Un itinerario massacrante per un uomo di 77 anni, ma il cardinale Dew non ci pensa, nulla gli impedirà di partecipare a questo momento storico per la Chiesa.
Dew il cardinale progressista e visionario
Ordinato sacerdote a 28 anni, Dew ha sempre mostrato una sensibilità pastorale fuori dagli schemi tradizionali. Ha svolto importanti esperienze come missionario e ha sostenuto posizioni inclusive e dialoganti, spesso facendo discutere le frange più conservatrici della Chiesa. Si è battuto per l’accesso all’eucaristia per i divorziati risposati, una questione che ha suscitato forti reazioni tra i vescovi più rigidi. Ha criticato l’uso di termini come “situazione irregolare” e “mentalità abortiva”, ritenendo che questi non aiutino il processo di accompagnamento per chi si è allontanato dalla Chiesa. Inoltre Dew ha espresso posizioni aperte su identità di genere e omosessualità. Sottolineando come alcuni elementi dottrinali abbiano contribuito alla diminuzione del numero di fedeli in Nuova Zelanda. Si è battuto sull’inclusione della comunità LGBT e dei migranti, criticando la mancanza di apertura dei leader ecclesiastici nel Paese. Ha promosso il riutilizzo degli edifici religiosi non destinati al culto per trasformarli in mense per i poveri, rifugi per senzatetto e spazi per anziani e rifugiati.
Un uomo che sfida distanze e limiti per il futuro della Chiesa
Dew rappresenta quella parte del Conclave che non appartiene ai grandi centri di potere ecclesiastico, ma che porta con sé esperienze pastorali lontane dal tradizionale blocco occidentale. Il suo viaggio verso Roma non è solo fisico, ma simbolico. Rappresenta l’impegno di un pastore che crede nella Chiesa come istituzione capace di dialogare con il mondo moderno.
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Mondo
La nuova giustizia americana: se non piaci a Trump, ti arrestano. Anche se sei un giudice
Il nuovo capo dell’Fbi Kash Patel, cospirazionista da bancarella e star del fan club MAGA, ha deciso che chi non obbedisce va arrestato. Così Hannah Dugan, giudice del Wisconsin, si ritrova in carcere per non aver consegnato un migrante. Altro che giustizia: è la revanche del trumpismo in versione vendetta personale. E non è che l’inizio.

C’è un nuovo sceriffo in città. Ma invece di un distintivo ha una maglietta MAGA, un microfono da podcast e un libro per bambini dove Trump è il re buono perseguitato dai cattivi del deep state. Si chiama Kash Patel, è il nuovo capo dell’Fbi e oggi ha deciso che la Costituzione americana può essere usata come sottobicchiere.
Il primo bersaglio? Una giudice. Si chiama Hannah Dugan, lavora nella contea di Milwaukee e ha commesso un crimine imperdonabile: non ha lasciato che gli agenti federali portassero via un migrante direttamente dall’aula del tribunale. Non ha liberato un assassino, non ha sabotato un’indagine. Ha semplicemente fatto il proprio lavoro. Peccato che in America, ora, il lavoro di un giudice sia obbedire.
La notizia dell’arresto è arrivata via X, perché il rispetto istituzionale ormai si misura a suon di post e reaction. L’ha firmata lui, Kash Patel, ex procuratore, ex teorico del complotto, ex comparsa in thriller legali e attuale braccio armato del trumpismo. Ha annunciato che la giudice ha “ostacolato l’azione federale”. Tradotto: ha disturbato la macchina delle deportazioni e quindi merita le manette.
Chi è questo nuovo eroe della giustizia americana? Uno che vende merchandising con il suo nome scritto con il dollaro al posto della S, che ha inciso l’inno americano con il coro dei detenuti del 6 gennaio, e che partecipa a podcast di QAnon come se fosse il salotto di casa. Più che un capo dell’Fbi, una guest star di un reality distopico.
E mentre lui promuove teorie cospirazioniste da baraccone, la giudice Dugan viene sbattuta in cella. Il messaggio è chiarissimo: se indossi la toga ma non sei devoto a Trump, sei un bersaglio. Oggi tocca a lei. Domani? Giornalisti, avvocati, bibliotecari, forse anche i vigili urbani.
La nuova giustizia americana non difende più la legge. Difende il Capo. E chiunque osi mettersi di traverso diventa automaticamente un nemico dello Stato. O meglio: del nuovo Stato. Quello dove l’Fbi non indaga, ma punisce. Dove il diritto vale solo se conferma la linea del partito. Dove i giudici non interpretano la legge: la recitano, tipo preghiera.
Trump non vuole più solo il potere. Vuole anche la vendetta. E Patel è l’uomo perfetto per servirgliela fredda. È fedele, è fanatico e soprattutto ha una vocazione naturale al ridicolo. Ma un ridicolo pericoloso, armato, e ora anche dotato di potere esecutivo.
Sui social, la galassia pro-MAGA canta vittoria: “Finalmente”, “Se lo meritano”, “Ora tocca agli altri”. La democrazia? Mai pervenuta. Ma tranquilli: l’inno remix con la voce di Trump si trova anche in versione karaoke.
Mondo
Musk Jr e il dito nel naso: Trump rimuove la scrivania presidenziale
Durante la visita di Elon Musk, il figlio di quattro anni esplora lo Studio Ovale e lascia il segno sulla scrivania presidenziale con un gesto che imbarazza la Casa Bianca. Trump, ossessionato dall’igiene, fa rimuovere in tutta fretta il leggendario Resolute Desk usato da Kennedy, Reagan e Obama. Sarà davvero solo un restauro?

Una visita memorabile, un gesto infantile e una scrivania che finisce sotto restauro con una velocità sospetta. Non è la trama di un film comico, ma l’ultima trovata della Casa Bianca targata Trump. Tutto è successo quando il piccolo X Æ A-12, figlio di Elon Musk, ha messo piede nello Studio Ovale durante la visita del padre e, con la naturalezza di un bambino di quattro anni, ha deciso di lasciare il segno. Letteralmente.

Nei video della giornata, il rampollo di casa Musk appare intento a esplorare l’ufficio presidenziale, mentre il padre discute con Trump delle strategie di taglio alla spesa pubblica. Nulla di strano, finché il piccolo non si infila un dito nel naso e poi lo strofina con disinvoltura sul leggendario Resolute Desk, la scrivania simbolo della presidenza americana dal 1960, usata tra gli altri da John F. Kennedy, Ronald Reagan e Barack Obama.
Trump, noto per la sua attenzione quasi ossessiva all’igiene e al decoro (perlomeno quando non si tratta del suo self-tan), ha impiegato pochi minuti per prendere una decisione drastica: via la scrivania! La notizia, riportata inizialmente dal New York Post, ha rapidamente infiammato i social. Il comandante in capo ha confermato l’accaduto con un post su Truth Social, evitando elegantemente di menzionare il fattore muco presidenziale nella rimozione del pezzo storico: “Il Presidente, dopo l’elezione, può scegliere una scrivania su sette. Questa scrivania, la ‘C&O’, anch’essa molto nota e utilizzata dal presidente George H.W. Bush e altri, è stata temporaneamente installata alla Casa Bianca mentre il Resolute Desk è in fase di un leggero restauro, un lavoro molto importante. Questa è una sostituzione temporanea, ma bellissima!”.
E così, la sacra reliquia del potere americano si trova ora sotto restauro per un non meglio specificato “lavoro molto importante”, mentre la nuova scrivania, più umile ma pulita, prende il suo posto. L’episodio segna una nuova frontiera nel rapporto tra politica e impronta infantile (nel senso letterale del termine), lasciando aperte domande fondamentali: basterà un restauro per cancellare il segno di Musk Jr? E soprattutto, quanto ci metterà Trump a ribattezzare l’accaduto come il Booger-Gate?
Mondo
Maria Elena Bergoglio, l’unica sorella di Papa Francesco: “Era il fratello che giocava a pallone e non faceva mai arrabbiare i nostri genitori”
Divorziata e madre di due figli, oggi Maria Elena vive vicino a Buenos Aires e, nonostante una grave malattia, ha continuato a mantenere un legame fortissimo con il fratello divenuto Pontefice.

Quando Papa Francesco fu eletto nel 2013, nella casa alla periferia di Buenos Aires il telefono squillava senza sosta. Non era facile per Maria Elena Bergoglio, sorella minore di Jorge Mario, rispondere all’ondata di curiosità, affetto e domande. Quel fratello maggiore, che per lei era semplicemente il compagno di giochi e il riferimento sicuro dell’infanzia, era diventato il leader spirituale di oltre un miliardo di cattolici.
Nata il 7 febbraio 1948 da Mario Bergoglio e Regina María Sivori, Maria Elena è l’ultima di cinque fratelli. Con Jorge Mario aveva ben 13 anni di differenza, ma questo non aveva mai creato una distanza affettiva: al contrario, dopo la morte improvvisa del padre, quando lei aveva solo 11 anni, fu proprio lui a farsi carico — con dolcezza e discrezione — di quel ruolo paterno che il destino aveva lasciato vuoto.
“Jorge Mario era per me il fratello più grande, quello che giocava a pallone, che andava all’Azione Cattolica e che studiava. Davvero non mi ricordo che abbia mai fatto arrabbiare papà o mamma”, raccontava qualche anno fa Maria Elena in una rara intervista a Repubblica, nella sua villetta semplice, a un’ora dal centro di Buenos Aires.
La vita di Maria Elena non è stata priva di prove. Divorziata, madre di due figli, ha affrontato una grave malattia: un ictus che l’ha colpita duramente e che ha limitato la sua mobilità. Proprio per questa ragione, non ha mai potuto recarsi in Vaticano a trovare il fratello dopo la sua elezione al soglio pontificio. Ma il legame con Jorge Mario è rimasto saldo e profondo: “Anche quando affrontai il divorzio da mio marito mi appoggiò, mi aiutò”, aveva confidato. Un sostegno incondizionato, malgrado le regole tradizionali della Chiesa che in altri tempi avrebbero potuto scoraggiarlo.
Durante i lunghi mesi di riabilitazione dopo l’ictus, Francesco le è stato accanto anche a distanza, telefonandole ogni giorno per infonderle coraggio. Nonostante gli impegni sempre più pressanti del pontificato, Papa Francesco non ha mai fatto mancare la sua presenza, sia pure attraverso brevi, preziose telefonate.
Oggi Maria Elena Bergoglio è l’unico legame di sangue rimasto di Papa Francesco. Tutti gli altri fratelli sono scomparsi. La loro relazione, cresciuta negli anni e rinsaldata dalla fede e dall’affetto, racconta molto anche dell’uomo che è stato Jorge Mario Bergoglio: un Papa capace di vedere il prossimo sempre come un fratello o una sorella, a partire dalla propria famiglia.
In una Chiesa che si prepara a rendere omaggio al suo Pontefice defunto, c’è una donna discreta, lontana dai riflettori, che più di ogni altro può testimoniare la semplicità, la dolcezza e la fermezza che hanno fatto di Jorge Mario Bergoglio “il Papa della gente”. Per lei, non sarà mai stato un Pontefice, ma semplicemente quel fratello maggiore che, da ragazzino, le insegnava a giocare a pallone nei cortili polverosi di Buenos Aires.
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