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Cronaca

Sicurezza delle donne: arriva lo Smartwatch anti-stalker collegato ai Carabinieri

L’introduzione dello smartwatch anti-stalker rappresenta un passo avanti significativo nella protezione delle donne vittime di violenza. Questo dispositivo non solo offre una risposta rapida ed efficace in caso di emergenza, ma contribuisce anche a rassicurare le vittime, dando loro un maggiore senso di sicurezza. Con la sua diffusione, si spera di ridurre significativamente i casi di violenza di genere e fornire un supporto concreto a chi ne ha più bisogno

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    E’ stato presentato a Roma un modello di smartwatch particolare collegato direttamente alla centrale operativa del Comando Provinciale Carabinieri di Roma. Uno strumento che nella sua promessa di base intende rivoluzionare la lotta contro lo stalking e la violenza sulle donne. Questo dispositivo può essere attivato manualmente dalla vittima in caso di pericolo o automaticamente in caso di aggressione. Il progetto, parte di un protocollo firmato dal Procuratore capo Francesco Lo Voi e dal Generale Marco Pecci, punta a fornire soluzioni concrete per contrastare il drammatico fenomeno della violenza di genere.

    Come funziona e quali sono gli obiettivi dello Smartwatch

    Nella fase iniziale, lo Smartwatch sarà assegnato solo alle vittime coinvolte nei casi più delicati. Con l’entrata a regime, il dispositivo verrà distribuito in modo più ampio. I Carabinieri, in collaborazione con i Pm di piazzale Clodio, valuteranno i casi di violenza di genere e, previo consenso delle vittime, assegneranno il dispositivo. Lo smartwatch è connesso alla rete telefonica tramite il cellulare dell’utente e, in caso di attivazione, invia un segnale alla centrale operativa. La vittima riceve una vibrazione, segnalando che i militari dell’Arma sono stati attivati e stanno intervenendo.

    Procedimenti penali in aumento

    Il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini ha evidenziato l’urgenza del progetto a fronte degli allarmanti dati del 2023. A Roma, i procedimenti penali da codice rosso sono stati 3.737, con una media di oltre 10 al giorno. Le proiezioni per il 2024 indicano un aumento a 4.000 casi l’anno. “Abbiamo formulato in 884 casi la richiesta di misura cautelare. In 332 casi si è trattato di carcere e in 57 di arresti domiciliari,” ha dichiarato Cascini.

    Uno strumento telematico di difesa personale

    Il Procuratore capo Francesco Lo Voi ha sottolineato inoltre l’importanza dello smartwatch. In questo modo lo Stato mette in condizione la vittima di violenza di genere di potersi difendere e comunicare immediatamente con gli inquirenti. Secondo il procuratore l’orologio ha un potenziale in crescita. Tramite un’applicazione sul telefono o per un colpo ricevuto, lo Smartwatch invia il segnale alla Centrale. Con il geolocalizzatore, la pattuglia più vicina raggiungerà la vittima che sarà avvisata tramite una vibrazione.

      Storie vere

      “Non voglio andare in paradiso oggi”: la drammatica supplica di una bambina al padre armato

      Il rapimento, le minacce e lo scontro armato: un caso sconvolgente che ha lasciato una bambina salva ma profondamente segnata. La famiglia chiede aiuto per affrontare il trauma.

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        Una storia da brividi che avrebbe potuto concludersi in tragedia, ma che, pur con un epilogo drammatico, ha permesso di salvare la vita di una bambina innocente. Oaklynn Alexander, 7 anni, è sopravvissuta al rapimento e alle minacce di morte del padre non affidatario, Charles Ryan Alexander, 43 anni, grazie all’intervento tempestivo della polizia.

        L’incubo è iniziato l’11 novembre nella contea di Jefferson, in Ohio orientale, quando Charles ha rapito Oaklynn dalla casa della nonna, dove viveva con la madre. L’uomo, armato e in fuga, ha contattato i servizi di emergenza, esprimendo il suo desiderio di parlare con la madre della bambina. «Voglio parlare con sua madre. Se stai ascoltando, Ashley, avresti dovuto chiamarmi», ha dichiarato durante una conversazione registrata.

        Il contenuto dell’audio, diffuso dalla polizia, rivela anche la drammatica supplica di Oaklynn: «Non voglio andare in paradiso oggi», ha implorato la bambina, terrorizzata dalla minaccia del padre. L’uomo ha risposto con una giustificazione che ha gelato gli agenti: «Nemmeno io volevo che succedesse. Volevo solo parlare con tua madre».

        Le forze dell’ordine, intervenute rapidamente, hanno messo in atto una manovra per sgonfiare le ruote della vettura in fuga. Il confronto si è concluso con uno scontro a fuoco durante il quale Charles Ryan Alexander è rimasto ucciso. Oaklynn, miracolosamente illesa, è stata riconsegnata sana e salva alla sua famiglia, ma ha assistito all’uccisione del padre, un evento che segnerà profondamente la sua vita.

        Un portavoce della polizia ha descritto l’intervento come «necessario per salvare una vita». L’audio dell’operatore del 911 evidenzia il tentativo di evitare il peggio: «So che non volevi fare del male a tua figlia e non volevi che andasse così. Non facciamo nulla che non possiamo annullare». Tuttavia, le circostanze hanno portato a un epilogo drammatico.

        Oaklynn è ora affidata alla madre e alla famiglia, che dovranno affrontare un lungo percorso di supporto psicologico per superare questo momento traumatico. Nel frattempo, un amico di famiglia ha lanciato una raccolta fondi su GoFundMe per garantire il sostegno necessario alla bambina e consentire alla madre di prendersi una pausa dal lavoro per occuparsi di lei.

        Questa vicenda sconvolgente è un promemoria del potenziale devastante dei conflitti familiari irrisolti, in cui il dolore e la disperazione possono trasformarsi in tragedie. La piccola Oaklynn è salva, ma l’impatto emotivo di questa esperienza richiederà un lungo processo di guarigione.

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          Cronaca Nera

          Ergastolo per Filippo Turetta: i giudici decidono la pena massima per l’omicidio di Giulia Cecchettin

          Dopo un processo con rito abbreviato, il caso che ha scosso l’Italia si conclude con la sentenza più dura. Decisivi il memoriale dell’imputato e la requisitoria del pm.

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            Il processo a Filippo Turetta, accusato dell’omicidio volontario della ex fidanzata Giulia Cecchettin, si è concluso con una condanna all’ergastolo. La sentenza, emessa dai giudici del tribunale di Venezia, è arrivata al termine di un procedimento in cui l’accusa ha dimostrato una premeditazione brutale, mentre la difesa ha chiesto invano il riconoscimento delle attenuanti generiche.

            Un delitto pianificato con crudeltà

            Turetta, reo confesso, era accusato di un omicidio aggravato da premeditazione, crudeltà, efferatezza, stalking e occultamento di cadavere. Secondo la ricostruzione del pm Andrea Petroni, l’imputato aveva preparato il delitto con meticolosità, stilando una lista di oggetti da acquistare e studiando le mappe dell’area per nascondere il corpo e fuggire.

            La requisitoria del pm, pronunciata il 25 novembre durante la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, aveva sottolineato l’evidenza della premeditazione: «È stata pianificata con azioni preparatorie quotidiane, in un rapporto costante con la persona offesa. Mi sembra difficile trovare una premeditazione più provata di questa».

            La dinamica dell’omicidio

            Durante il processo, Turetta ha ricostruito in aula l’omicidio avvenuto l’11 novembre. Nel memoriale di 80 pagine presentato dalla difesa, ha descritto con vaghezza e contraddizioni il momento del delitto: «Non ricordo bene, ma devo essermi girato a colpirla mentre eravamo in macchina. Forse le ho dato almeno un colpo sulla coscia, tirando colpi a caso».

            Turetta ha ammesso di aver coperto il corpo della vittima per evitare che fosse trovato in quelle condizioni. Ha anche dichiarato di aver tentato il suicidio subito dopo, senza successo: «Ho provato a uccidermi con un sacchetto di plastica in testa, ma non ci sono riuscito».

            La difesa invoca l’emotività dell’imputato

            Gli avvocati della difesa, Giovanni Caruso e Monica Cornaviera, hanno cercato di ottenere attenuanti generiche, sostenendo che Turetta avesse agito in preda a un’alterazione emotiva. «Filippo Turetta merita le attenuanti generiche», ha dichiarato Cornaviera, definendo il giovane come «un ragazzo che ha commesso un atto efferato, privando una ragazza meravigliosa dei suoi sogni e delle sue speranze».

            Tuttavia, i giudici hanno ritenuto prevalenti le aggravanti contestate nel capo di imputazione, confermando la linea dell’accusa e condannando l’imputato alla pena massima.

            Una sentenza simbolo

            Il caso ha profondamente colpito l’opinione pubblica italiana, diventando un simbolo della lotta contro la violenza di genere. La famiglia di Giulia Cecchettin, presente durante il processo, ha accolto la sentenza con commozione, sottolineando l’importanza di un verdetto che rende giustizia alla memoria della giovane.

            Il processo, iniziato con rito abbreviato il 23 settembre 2024, si è concluso rapidamente, ma ha lasciato una ferita aperta nella società italiana, ricordando ancora una volta l’urgenza di combattere la violenza contro le donne.

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              Storie vere

              Una bambina di Auschwitz, creduta morta nel lager, ricompare negli USA

              Le peripezie della piccola Gertrude, deportata nell’inferno di Auschwitz. Creduta morta da tutti, ora ha 86 anni e vive negli Stati Uniti. La scoperta grazie alla preside di un liceo romano.

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                Si chiama Gertrude ed è la protagonista di una storia tragica, con un finale però di speranza. Per anni lei è stata una dei troppi bambini la cui esistenza si era spezzata nel tristemente famoso campo di concentramento di Auschwitz. Una rapida apparizione nella storia la sua, scoperta per altro casualmente, al fianco del padre Isidor Stricks, cittadino polacco ebreo catturato vicino a Roma e deportato dai nazisti.

                Sorriso e forza senza pari

                Visto che non sempre i bambini venivano registrati sui treni della morte, si era creata l’idea che anche lei avesse finito i suoi giorni in un lager. «Ma Trudy lì non è mai arrivata, si è salvata ed è ancora viva: oggi ha 86 anni, si trova in America, è sposata e ha tre figli. Ha un sorriso bellissimo e una forza senza pari». Questa la descrizione dolcissima che ne fa di lei Maria Grazia Lancellotti, attuale preside del liceo classico e linguistico romani Orazio. Nell’ambito del progetto «Il civico giusto», che si pone l’obiettivo di scoprire storie di solidarietà e di coraggio nell’Italia fascista al tempo delle ldiscriminazioni raziziali, si è imbattuta in un dettaglio che ha catturato la sua attenzione. Tanto da spingerla alla ricerca della verità.

                L’intuito della preside Lancellotti

                «Mi stavo documentando sulla fuga di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere romano di Regina Coeli. Quando nei racconti Marcella Ficca, la moglie di Alfredo Monaco, il medico che quella fuga ideò, comparvero Trudy e suo padre – racconta con trasporto la Lancellotti -. Mi disse che quest’uomo che teneva stretta a sé una bambina di 5-6 anni, prima di essere caricato sul camion diretto a Fossoli, le rivolse uno sguardo terrorizzato. Come di chi non sapeva cosa lo aspettasse, trovò gli occhi di una donna, le fece un cenno, si fidò e le affidò quello che aveva di più caro pur di salvarlo». Così Marcella ospita la piccola in casa sua per qualche mese, fino a quando la mamma, Fanny, non la rintraccia e la riprende con sé.

                Da Napoli verso la salvezza ad Oswego

                Da questo momento ha inizio una storia fatta di fughe, svariate peripezie e lunghe settimane nascoste in due distinti conventi di Roma, fino alla fine della guerra. Poi la salvezza arriva quando nel luglio del ’44 salgono a bordo della Herry Gibbons, una nave che salpa da Napoli con mille profughi verso raggiunge Oswego, negli Stati Uniti.

                Il figlio Brian è venuto in Italia per abbracciare i figli di chi salvò sua madre

                «Da qui si perdono le tracce della piccola Trudy, la mamma si sposa e cambia cognome. La stessa cosa fa lei anni dopo – riprende a raccontatre la Lancellotti -. Ma a questo punto volevo arrivare alla verità su di lei per cui ho scritto a un museo della città: Trudy in America doveva essere arrivata viva e qualcuno doveva sapere qualcosa di lei. Poco dopo mi ha risposto direttamente suo figlio Brian e mi ha raccontato la vita di sua mamma Gertrude».

                I gesti che cambiano il destino delle persone

                Brian – assoluta casualità – aveva già organizzato un viaggio in Italia per la scorsa estate. Con l’occasione si è recato pure a Roma, dove ha potuto conoscere e abbracciare i figli di Alfredo e Marcella Monaco. «Purtroppo loro sono morti senza sapere se quella bambina ebrea che avevano salvato alla fine ce l’avesse fatta. Ma l’aver scoperto il loro grande gesto d’amore ha fatto in modo che venissero avviate le pratiche allo Yad Vashem per far insignirli del titolo di “Giusti fra le Nazioni”». Ora la preside Lancellotti, di questa bella storia, ne vorrebbe fare un libro.

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