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Che fine hanno fatto i Lunapop, Cremonini a parte

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    Si celebra il venticinquennale di 50 Special, la canzone che portò al successo i Lunapop. Ma, a parte Cesare Cremonini, celebrato solista pop, vi siete mai chiesti oggi cosa facciano gli altri membri della band?

    Un occhio di riguardo per il chitarrista

    Michele Giuliani, che nei Lunapop suonava la chitarra elettrica, oggi ha 42 anni e dal 2007 gestisce un locale a Bologna, il Locomotiv Club, tra i locali di riferimento del circuito indipendente. Un vero e proprio crocevia della musica dal vivo italiana dove è passato chiunque, da Giovanni Truppi agli I Hate My Village, dai Bud Spencer Blues Explosion a Giorgio Canali, da Daniela Pes ai Calibro 35.

    Gli altri membri

    Gabriele Gallassi, che suonava la chitarra acustica, oggi ha 43 anni e fa il manager nel settore digitale. Nel 2018 è stato il fautore del lancio di un’app per la tutela della reputazione sul web, Linkiller, attualmente è head of business di Tutela Digitale. Il batterista Alessandro De Simone, soprannominato “Lillo”(43 anni anche lui), lavora invece nel settore immobiliare. A parte Cremonini, solo un altro ex componente dei Lunapop continua a vivere di musica: è Nicola “Ballo” Balestri, il bassista 41enne, che il cantante ha voluto al suo fianco quando nel 2002 con Bagus ha deciso di inaugurare la sua carriera solista e al quale non ha mai rinunciato anche in seguito.

    Uno spin-off che non ebbe successo

    In pochi sanno che nel 2009, mentre Cremonini si godeva il successo del suo terzo album solista Il primo bacio sulla luna, otto anni dopo la fine dell’avventura dei Lunapop, Gabriele Gallassi e Alessandro De Simone decisero di formare una una nuova band, i Liberpool. Senza infamia e senza lode, si fermarono al primo album.

    Dimostrazione che il pop non è roba da ragazzini

    Nel 2019 parlando dei Lunapop, Cremonini disse che: “Si sciolsero perché le regole che tenevano in piedi un progetto musicale composto da ragazzi così giovani erano regole strane, utili ma molto difficili. La prima era: i genitori fuori dalle scatole. La seconda: possibilmente anche le fidanzate Regole impossibili da rispettare, per ragazzi tra i diciassette e i diciotto anni, tutti di famiglie borghesi”.

      Musica

      Quella volta che i Beatles snobbarono il potere dei Marcos nelle Filippine

      In un nuovo libro tutte le voci del mondo Beatles (ad eccezione di John Lennon) raccontano la loro versione dei fatti sullo scioglimento della band “più famosa di Gesù Cristo”.

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        Siamo nel 1966. Per i Fab Four si tratta di un anno cruciale, che li vede impegnati nell’ultimo loro tour mondiale. Durante le varie conferenze stampa svoltesi fra un concerto e l’altro, John Lennon affermerà lo storico commento sul fatto che la sua band sia «più alla moda di Gesù», con l’intera band che si schiera apertamente contro la Guerra del Vietnam, causando numerose polemiche nel pubblico conservatore.

        Rifiutano un invito di regime

        I Beatles raggiungono Manila per una tappa live nelle Filippine. Compiendo un errore madornale: snobbando bellamente le lusinghe di Imelda Marcos, moglie del dittatore locale, per un ricevimento a Palazzo con duecento bambini. Chiaramento i Marcos ci rimangono malissimo e, guarda caso, appena l’aereo con la band atterra a Manila, un uomo in uniforme intima ai quattro musicisti di seguirlo. Solo loro quattro.

        Vengono letteralmente sequestrati

        Alcuni soldati armati scortano i musicisti, ordinando loro di lasciare i bagagli (con dentro cannabis e stimolanti) sulla pista. A tutti gli effetti un sequestro di persona in perfetto stile dittatoriale. McCartney e compagni vengono poi trascinati su uno yacht dove è stato organizzato un party affollato di potenti locali. Solo una trattativa delicatissima riuscirà a liberare la band. Il mattino dopo alcuni ufficiali si presentano in albergo per riproporre l’invito presidenziale da parte dei coniugi Marcos.

        Il “no” ad un nuovo invito crea la bagarre all’aeroporto

        Il manager Brian Epstein dice no. Dopo i concerti a Manila l’atmosfera è tesissima, con tipacci armati di bastoni – mandati dal governo – all’aeroposto. Ringo Starr e John Lennon si nascondono dietro un gruppo di suore. Prima di riuscire a salire sul velivolo vengono strattonati e presi a sputi.

        Tutto in un libro che promette faville

        Un avvenimento nella loro storia rievocato dai protagonisti nelle interviste realizzate per il libro All You Need Is Love – La fine dei Beatles (che esce per Rizzoli Lizard), scritto da Peter Brown, l’ex braccio destro di Epstein e direttore operativo della Apple Corporation, insieme al giornalista Steven Gaines. Un libro che segue il saggio saggio pubblicato dalla stessa coppia nel 1981, il controverso The love you make, una sorta di versione “rivista, corretta ed ampliata”.

        Lennon, l’unico a non essere intervistato per il volume

        Un libro basato sulle vicende personali della band che creò scalpore e forte disappunto nei protagonisti: McCartney bruciò letteralmente – il tutto documentato da foto scattate dalla moglie Linda – la propria copia. Interessante vedere cosa farà di questo nuovo volune… Le interviste ai vari membri furono registrate nel 1980, eccezione fatta per Yoko Ono, che i due autori incontrarono qualche mese dopo l’assassinio del marito John Lennon, l’unico che gli autori non fecero in tempo a convolgere nella realizzazione del libro.

        McCartney non voleva lo scioglimento

        Fra le varie storie riportate in All You Need Is Love – La fine dei Beatles, McCartney si pronuncia sui dissidi legali che portarono allo storico strappo: “Sono persone molto sospettose, John e Yoko, e una delle cose che più mi ferisce di questa vicenda è che dopo tutto quello che abbiamo passato insieme non sono mai riuscito a convincerli che non avevo alcuna intenzione di fregarli. Colpa, forse, del mio carattere, o forse della loro capacità di comprendere come stanno veramente le cose. Questa è la situazione, ancora oggi”. Dichiarazioni fatte agli autori del libro un mese prima dell’appuntamento di Lennon con il suo killer a New York, sotto casa.

        Il ruolo molesto e le pesanti responsabilità del manager Allen Klein

        Paul giura di non essere stato lui ad aver spinto per lo scioglimento, pur confermando per l’ennesima volta di essersi opposto alla decisione di John di ingaggiare Allen Klein come manager dopo la prematura scomparsa di Epstein. Klein, lo dimostreranno i fatti in seguito, è stato uno de manager più ingordi del rock-system anni 60. Prima dei Beatles i loro “rivali” di sempre (più che altro come voleva la stampa) Rolling Stones avevano avuto modo di testare la sua cupidigia. Il suo ruolo nei confronti degli affari dei suoi celebri clienti fu spesso causa di polemiche e conseguenti cause legali, godendo di una fama di persona volitiva e risoluta, che non lesinava il ricorso ad un linguaggio verbale anche violento, al limite dell’intimidazione, nell’atto di perseguire i suoi scopi.

        L’inganno del concerto per il Bangladesh

        Anche se non riuscì ad impedire lo scioglimento dei Beatles o a convincere McCartney a fidarsi di lui, Klein rimase nel giro del gruppo anche dopo lo scioglimento. Aiutando, per esempio, George Harrison ad organizzare lo storico, grande concerto in favore del Bangladesh. Fu a questo punto che la popolarità di Klein iniziò a calare anche agli occhi degli altri tre Beatles. Invece di contattare l’UNICEF prima del concerto per stabilire la quota di beneficenza da destinarsi, Klein aspettà di vedere i ricavi del concerto per prendere accordi, provocando anche un’inchiesta fiscale da parte del governo degli Stati Uniti d’America. I ricavi maggiori destinati all’UNICEF, guarda caso, rimasero “congelati” in un conto bancario fino alla fine degli anni ’80 per motivi mai ben precisati. Nel 1979, Klein finì per essere condannato a due mesi di prigione per evasione fiscale derivante dalla vendita di copie promozionali dell’album triplo Concert for Bangladesh.

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          Musica

          Il quotidiano Libération svela il trucco: Céline Dion in playback a Parigi

          Un’inchiesta esclusiva da parte del quotidiano francese Libération ipotizza che la cantante canadese non abbia cantato dal vivo durante la cerimonia di apertura delle ultime olimpiadi.

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            Il ritorno della Dion in occasione della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi 2024 era stato promosso in ogni maniera dal comitato organizzatore. Commuovendo il pubblico collegato in diretta da tutto il mondo anche e soprattutto per le condizioni di salute della cantante canadese.

            Emozioni sì… ma non in diretta

            Tutto meravigliosamente… finto. Céline Dion, infatti, avrebbe cantato in playback durante sua esibizione. La cover d lei esguita dell’Hymne à l’amour di Édith Piaf è stata uno dei momenti più toccanti della cerimonia di apertura… ma – a sentire le ultime indiscrezioni – anche uno dei meno reali! Nonostante le pessime condizioni atmosferiche, l’esibizione era stata magistrale e, col senno di poi, effettivamente qualche dubbio sorge lecitamente.

            Gli esperti propendono per l’inganno

            Alla domanda sull’esibizione, Thomas Jolly, il direttore della cerimonia di apertura, insieme a Victor Le Masne, il direttore musicale, hanno assicurato che Dion avesse cantato dal vivo. Da giovedì 10 ottobre il brano è disponibile sulle piattaforme di streaming. Ma, ora, un’inchiesta del popolare quotidiano Libération mette seriamente in dubbio queste affermazioni.

            La versione della Dion sotto il microscopio: ecco il risultato

            Analizzata nel dettaglio, la traccia audio della versione “live” di Céline Dion del celebre brano della Piaf, risulterebbe rimaneggiata in post-produzione, stando alle perizie di alcuni specialisti del settore. In altre parole… senza dubbio una versione registrata in studio, sempre secondo tutti gli esperti tutti intervistati da Libération. Al momento gli organizzatori hanno rifiutato di commentare gli esiti dell’inchiesta.

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              Quando Paola e Chiara facevano parte degli 883 (video)

              La serie in onda attualmente su Sky dedicata al duo svela un dettaglio sconosciuto ai più: Paola e Chiara agli esordi fecero le coriste per gli 883 di Max Pezzali e Mauro Repetto. Apparendo con loro anche al Festivalbar.

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                La serie dedicata alla band di Max Pezzali e Mauro Repetto – Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883 – in onda su Sky e creata da Sydney Sibilia, ha riacceso un potente riflettore sulla band. Un’immersione totale nei primi anni ’90 e nella storia della musica pop di casa nostra di questo duo che, con i primi due album, Hanno ucciso l’Uomo Ragno e Nord sud ovest est, caratterizzati da testi giovanili e comunque originali, sono diventati un’icona di quegli anni.

                Un duo multicolore

                Sebbene siano principalmente classificati come un gruppo di musica pop, la loro carriera musicale ha attraversato anche altri generi come il rap, la dance e il rock. Tutto ampiamente documentato nella serie tv, una storia, che al suo interno ne contiene tante altre.

                Quella estate trionfale del 1992

                Durante l’estate del 1992 l’Italia intera ascoltava, ballava e cantava la medesima canzone: Hanno ucciso l’uomo ragno. Impazzava nelle emittenti radio, riempiva la pista in discoteca si balla e veniva canticchiata praticamente da chiunque, compresi i bambini delle scuole elementari! Come si dice… un successone epocale.

                I primi passi nella provincia pavese

                Una band formatasi a Pavia da due ex compagni del liceo, Max Pezzali e Mauro Repetto. Scrivono canzoni a quattro mani, poi sul palco Pezzali le canta e Repetto balla. Tutte con il medesimo minimo comune denominatore: raccontare la vita della provincia italiana, quella di tutti i giorni fatta di appuntamenti al bar con gli amici, domeniche immerse nella noia e innamoramenti, spesso a senso unico.

                Il dettaglio che non tutti conoscono

                La serie Sky rappresenta un’occasione per parlare di Max Pezzali e Mauro Repetto ma anche per svelare dettagli che non tutti ricordano o addirittura conoscono. Come il passato da coriste di un altro duo, quello di Paola e Chiara. Ebbene sì… le sorelline Iezzi hanno fatto parte anche loro della storica band. Le due ragazze hanno infatti cominciato la loro carriera cantando nei locali. A scoprirle per primo è stato – guarda caso – Claudio Cecchetto, presentandole a Max Pezzali e Mauro Repetto, che le hanno arruolate come coriste.

                Due stagioni da coriste prima di spiccare il salto

                Paola e Chiara sono rimaste nella band per due anni, prima che l’etichetta discografica Sony ne capisse il potenziale non solo da coriste, mettendole sotto contratto. Un’esperienza, quella del backing vocals per gli 883, che però resterà per sempre significativa nei loro esordi e, più in generale, nella loro carriera artistica. La classica “gavetta” dalla quale si impara il mestiere. Max e Repetto le hanno portate con loro al Festivalbar, per cantare insieme il super successo “Tieni il tempo”.

                Ecco il video dell’esibizione, dove Paola e Chiara si possono notare alla destra di Max Pezzali:

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