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Benessere

Amare con cautela: quando il cuore è pronto, ma la paura è più forte!

L’amore, spesso celebrato come uno dei sentimenti più nobili e gratificanti, può anche essere il terreno fertile per una profonda e complessa paura: la fobia di innamorarsi, ovvero la Filofobia. Questa è una realtà che molti individui affrontano, dove l’idea stessa di aprirsi emotivamente e vulnerabilmente a un’altra persona scatena un senso paralizzante di ansia e terrore.

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    Le radici di questa fobia possono affondare in esperienze passate di dolore e abbandono, lasciando cicatrici emotive che rendono difficile fidarsi e aprirsi nuovamente. La paura di essere feriti o delusi può diventare un muro invalicabile che impedisce il libero fluire delle emozioni.

    Per coloro che combattono questa battaglia interna, le relazioni possono diventare un labirinto emotivo, in cui cercare l’amore diventa un viaggio tortuoso attraverso paure e incertezze. L’idea stessa di innamorarsi può essere intesa come un pericolo imminente anziché come un dono prezioso.

    La filofobia non è semplicemente una timidezza o un momentaneo nervosismo di fronte all’idea di innamorarsi, ma piuttosto un terreno emotivo fertile per una serie di ansie profonde e radicate. Chiunque incontri questa fobia può trovarsi intrappolato in un labirinto emotivo in cui il desiderio di amore è costantemente contrastato dalla paura paralizzante di essere ferito o abbandonato.

    Attenti a non farsi male

    Per coloro che lottano contro la filofobia, le relazioni possono diventare un campo minato emotivo, dove ogni passo avanti è accompagnato da una paura palpabile di perdita e dolore. L’idea stessa di intimità può diventare un incubo piuttosto che un sogno da realizzare.

    Affrontare la filofobia richiede un coraggio straordinario e un lavoro interiore significativo. È un viaggio che può essere facilitato dalla guida di terapeuti esperti, dalla solidarietà di amici fidati e dalla pratica costante dell’auto-riflessione. Superare questa fobia richiede il coraggio di guardare dentro di sé, affrontare le proprie paure più profonde e imparare a fidarsi di nuovo, nonostante le ferite del passato.

    In definitiva, la fobia di innamorarsi è una battaglia personale che richiede gentilezza, comprensione e compassione. È un viaggio verso l’accettazione di sé e verso la possibilità di aprire il cuore nuovamente, nonostante le cicatrici del passato.

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      Benessere

      Mente “modellabile”: come allenare il cervello per fermare il loop dei pensieri negativi

      Molte persone si sentono prigioniere della propria mente, rivivendo scenari passati o anticipando ansie future. La neurologa Vanessa Benjumea spiega perché non è questione di forza di volontà, ma di neuroplasticità.

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      Mente "modellabile"

        Per anni, la dottoressa Vanessa Benjumea, neurologa e formatrice in mindfulness, ha ascoltato pazienti e lettori descriverle la stessa, opprimente sensazione: sentirsi prigionieri della propria mente. Persone incapaci di interrompere un flusso ininterrotto di pensieri negativi, che rivivono conversazioni passate o anticipano scenari che non si verificheranno mai. La domanda ricorrente è: “Perché continuo a rimuginare sulle stesse cose se so che non mi fanno bene?”.

        Dalla sua duplice prospettiva, medica e compassionevole, Benjumea insiste su un punto fondamentale: non si tratta di mancanza di forza di volontà, ma di qualcosa di molto più profondo, legato al funzionamento intrinseco del cervello umano. La mente, letteralmente, è modellabile. E deve essere allenata come un muscolo.

        La neuroplasticità: la base del cambiamento

        Il concetto chiave è la neuroplasticità, la capacità del cervello di creare e riorganizzare costantemente nuove connessioni neuronali lungo tutto l’arco della vita. La nostra mente non è un’entità fissa e immutabile; può cambiare, reimparare e riorganizzarsi.

        “La neuroplasticità è la base su cui si fondano tutte le strategie che ci aiutano a ‘hackerare’ la nostra mente e modificare i modelli di pensiero”, spiega Benjumea.

        Questa capacità ha un doppio volto. Esiste una neuroplasticità negativa, che spiega perché più ruminiano un pensiero, più rafforziamo le reti neuronali del malessere e dell’abitudine alla lamentela. Ma, per fortuna, esiste anche una neuroplasticità positiva, che ci permette di creare nuovi neuroni e connessioni nei circuiti della regolazione emotiva, dell’attenzione consapevole e del flusso di pensiero sano.

        Allenare il cervello come un muscolo

        Benjumea paragona efficacemente questo processo all’allenamento muscolare in palestra. Più si ripete un movimento, più il muscolo si rinforza. Lo stesso accade con i pensieri e i comportamenti mentali. Ogni volta che ci si lamenta, si giudica o si ripete un pensiero intrusivo, si rafforzano le connessioni neuronali che lo sostengono.

        “Il cervello apprende per ripetizione”, afferma la neurologa. “Ogni volta che scegliamo di focalizzare la mente sul presente, respirare prima di reagire o fermare un pensiero intrusivo, rafforziamo le vie neuronali della calma e della chiarezza e indeboliamo le ‘autostrade’ neuronali che hanno fatto tanto male alla nostra mente”.

        Una cassetta degli attrezzi per la mente calma

        A partire da questa solida base scientifica, la dottoressa ha sviluppato “Mente calma” (titolo originale in spagnolo: ‘Una mente en calma’), un libro che funge da “kit di pronto soccorso” per quando i loop mentali diventano insopportabili. La proposta combina il rigore della neurologia con strumenti pratici di mindfulness, attenzione piena e autocompassione.

        L’obiettivo, chiarisce, non è eliminare i pensieri negativi – un’impresa impossibile – bensì cambiare la relazione che si intrattiene con essi. Imparare a “pensare meglio” non significa pensare di meno, ma farlo in modo più consapevole. L’obiettivo è che la mente lavori a nostro favore, non contro di noi.

        Quella pausa, quel momento di consapevolezza che ci permette di non reagire impulsivamente, non si crea dall’oggi al domani. Richiede pratica costante: fermarsi prima di rispondere a un messaggio d’impulso, respirare quando l’ansia sale, o semplicemente riconoscere di essere intrappolati in una catena di pensieri negativi. È un allenamento quotidiano per la salute mentale.

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          Benessere

          Quel piede che non sta fermo: stress, abitudine o semplice concentrazione?

          Un comportamento molto diffuso viene spesso letto come segnale emotivo nascosto. Psicologi e medici spiegano perché oscillare la gamba non è sempre indice di ansia e quando, invece, può meritare attenzione.

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          piede che non sta fermo

            Capita a molti: seduti alla scrivania, in riunione o mentre si aspetta il treno, la gamba inizia a muoversi da sola, avanti e indietro, in modo ritmico. Un gesto così comune da passare quasi inosservato, ma che spesso suscita curiosità e interpretazioni. È solo un’abitudine nervosa o il corpo sta cercando di dirci qualcosa?

            Secondo gli esperti di psicologia comportamentale, oscillare la gamba rientra tra i cosiddetti comportamenti di fidgeting, movimenti involontari e ripetitivi che aiutano a regolare la tensione interna. Non è un segnale di debolezza, spiegano gli specialisti, ma un meccanismo di autoregolazione del sistema nervoso. Quando ci si trova sotto pressione, annoiati o in attesa di un evento importante, il corpo può cercare una via per scaricare l’energia in eccesso senza interferire con ciò che stiamo facendo.

            Diversi studi, tra cui una revisione pubblicata sul Journal of Physical Activity and Health, indicano che piccoli movimenti ripetitivi possono contribuire a mantenere la concentrazione e ridurre l’irrequietezza, soprattutto in persone che devono restare sedute a lungo. Nei bambini e negli adulti con disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), ad esempio, il fidgeting può facilitare la gestione dell’attenzione senza rappresentare un segnale di disagio emotivo.

            Non sempre, però, il fenomeno ha un significato psicologico. Per molti è semplicemente un’abitudine radicata, spesso familiare, o un gesto automatico legato al consumo di caffeina, alla stanchezza o a lunghi periodi in posizione statica. Muovere la gamba, insomma, non basta per trarre conclusioni sullo stato emotivo di una persona.

            Esiste anche un’altra condizione, meno comune, da distinguere dal comportamento quotidiano: la sindrome delle gambe senza riposo (Restless Legs Syndrome). Si tratta di un disturbo neurologico riconosciuto, caratterizzato da un bisogno incontrollabile di muovere gli arti inferiori, soprattutto la sera e di notte, accompagnato da sensazioni spiacevoli. A differenza del semplice dondolio, interferisce con il sonno e la qualità della vita e richiede una valutazione medica.

            Detto questo, il corpo può davvero inviare segnali utili. Se il movimento compare in periodi di forte pressione, si associa ad altri sintomi — come affaticamento, irritabilità o difficoltà di sonno — può essere un campanello d’allarme per ricordarci che stiamo chiedendo troppo a noi stessi. Gli psicologi suggeriscono di osservare il contesto più che il gesto: fare una pausa, cambiare posizione, respirare profondamente o concedersi momenti di decompressione può essere più efficace del tentativo di controllare il movimento.

            Interpretare il linguaggio del corpo richiede quindi prudenza. Non ogni gamba che ondeggia nasconde un conflitto interiore, così come non ogni gesto automatico è privo di significato. La chiave sta nell’ascolto consapevole — senza allarmismi, ma senza ignorare i segnali che il corpo, a volte, ci invia prima della mente.

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              Benessere

              Stanchezza, fiato corto, concentrazione a zero: ecco i campanelli d’allarme della carenza di ferro

              La carenza di ferro colpisce una persona su quattro nel mondo. Ecco come riconoscerla, chi è più a rischio e quali strategie adottare per prevenirla.

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              carenza di ferro

                Ti senti esausto anche dopo otto ore di sonno? Ti manca il fiato salendo le scale o fai fatica a concentrarti sul lavoro? Potrebbe trattarsi di una carenza di ferro, uno dei disturbi nutrizionali più diffusi al mondo. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre due miliardi di persone ne soffrono: significa che circa un individuo su quattro presenta livelli di ferro inferiori alla norma.

                Il ferro è un minerale fondamentale: serve a produrre emoglobina, la proteina dei globuli rossi che trasporta l’ossigeno nel sangue. Quando il corpo non ne riceve abbastanza, i tessuti non vengono adeguatamente ossigenati e compaiono sintomi che, se trascurati, possono evolvere in anemia sideropenica, una condizione che riduce energia e capacità fisica, influendo sulla qualità della vita.

                I segnali precoci: quando il corpo avverte

                La carenza di ferro non si manifesta all’improvviso. In un primo momento, l’organismo utilizza le riserve di ferritina, la proteina che immagazzina il minerale. Quando anche queste si esauriscono, i segnali iniziano a farsi sentire. I più comuni includono:

                • stanchezza persistente, anche dopo il riposo;
                • debolezza muscolare;
                • mal di testa o capogiri frequenti;
                • battito cardiaco accelerato;
                • difficoltà di concentrazione o sensazione di “mente annebbiata”.

                Molti di questi sintomi vengono confusi con stress o mancanza di sonno, ma se si prolungano nel tempo è bene parlarne con il medico.

                Quando l’anemia peggiora

                Se la carenza non viene corretta, l’anemia si aggrava e i sintomi diventano più evidenti:

                • unghie fragili o che si spezzano facilmente;
                • pelle molto pallida;
                • affanno anche a riposo;
                • lingua gonfia o dolente;
                • perdita di capelli;
                • movimenti involontari delle gambe durante la notte (sindrome delle gambe senza riposo).

                In alcuni casi compare anche la pica, il desiderio di mangiare sostanze non commestibili come ghiaccio o terra: un segnale che indica un deficit marcato di minerali.

                Le cause più frequenti

                Oltre a un’alimentazione povera di ferro, una delle principali cause è la perdita di sangue, visibile o nascosta. Nelle donne, le mestruazioni abbondanti rappresentano una delle prime fonti di carenza; negli uomini e negli anziani, può trattarsi di micro-sanguinamenti gastrointestinali legati a ulcere, gastriti o uso prolungato di antinfiammatori.

                Anche gravidanza, allattamento, crescita evecchiaia sono fasi della vita in cui il fabbisogno di ferro aumenta. A rischio maggiore anche i vegetariani e vegani, che devono integrare con attenzione le fonti vegetali di ferro e vitamina C per facilitarne l’assorbimento.

                Diagnosi e trattamento

                Per accertare una carenza, il medico può prescrivere esami del sangue come emocromo, ferritina, sideremia e transferrina. I valori di ferritina sono i più indicativi: livelli bassi segnalano che le riserve di ferro si stanno esaurendo.

                Nelle forme lievi, la dieta può essere sufficiente a ristabilire l’equilibrio. È consigliato consumare carne rossa magra, legumi, pesce azzurro, verdure a foglia verde, frutta secca e cereali fortificati. Chi segue una dieta vegetale può abbinare gli alimenti ricchi di ferro con fonti di vitamina C, come agrumi o kiwi, che ne migliorano l’assimilazione.

                Nei casi più gravi o persistenti, il medico può prescrivere integratori di ferro per via orale o, se necessario, una somministrazione endovenosa.

                Ascoltare i segnali del corpo

                La carenza di ferro non va sottovalutata: non è solo un problema di energia, ma una condizione che può compromettere il benessere generale. Riconoscere i sintomi e intervenire in tempo permette di recuperare rapidamente forze e concentrazione.

                Il messaggio degli esperti è chiaro: ascoltare il proprio corpo è la prima forma di prevenzione. Se la stanchezza diventa la norma e non l’eccezione, è il momento di parlarne con il medico.

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