Percorsi di coaching

Questione di fortuna

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    Esistono parole che hanno la capacità di evocare mondi immaginari, territori inesplorati e tesori nascosti, oltre ad avere significati multipli, adattabili quasi ad ogni contesto. Una di queste è proprio… fortuna. L’idea che alcuni eventi e determinate circostanze non trovino spiegazione nella sfera razionale ha alimentato, fin dall’antichità, un vero e proprio alone mitologico interno a questo concetto, cui poi sono state associate molte diverse accezioni che vanno a toccare religione e misticismo. Fra i settori in cui più spesso la sorte viene citata, lo sport riveste, senza dubbio, un ruolo preponderante. La gente tende a trincerarsi nel concetto che nella vita la fortuna abbia un ruolo tanto impattante quanto fuori dal proprio controllo.

    L’”elastico” della sfida

    È indubbio che, nello sport come nella vita, la fortuna possa giocare un ruolo importante per definire il risultato finale di una sfida, ma viene spesso frainteso il fatto che questa variabile segua le movenze di un “elastico”, destinato a ridursi o ad ampliarsi a seconda di come è stata preparata la sfida. Il risultato non è che la naturale conseguenza del percorso fatto, successivo all’adeguatezza della preparazione fisica, allo sviluppo della parte tecnica, all’atteggiamento mentale positivo, alle skills e i talenti coltivati e capitalizzati, senza dimenticare anche le battute d’arresto, gli errori e i fallimenti. Purtroppo, secondo una molto diffusa concezione, agli antipodi con il concetto in sé di evoluzione umana e di percorso di crescita nel coaching, il risultato finale è invece considerato l’unico elemento importante e giustifica ogni mezzo utilizzato per ottenerlo. Quest’ottica inverte l’ordine corretto, anteponendo il risultato al processo.


    Il processo è l’unica cosa che conta

    Se è vero, come è vero, che ogni abilità possa essere migliorata ed allenata, possiamo completare questo assioma affermando che è proprio in questo modo che l’uomo può “controllare” gli eventi, e più familiarizza per affrontare il percorso, più potrà fare la differenza. L’influenza del caso e della fortuna può essere compressa fino a una dimensione infinitesimale, limitandosi a casistiche estreme. Chi invece rimane agganciato all’idea di far dipendere l’esito di un intero processo dalle circostanze, senza quindi riuscire a superare le difficoltà, alimenta quella che coach Julio Velasco, recente medaglia d’oro nel volley femminile all’ultima Olimpiade parigina, definisce la “cultura degli alibi”, cioè il tentativo di attribuire un nostro fallimento a qualcosa che non dipenda da noi.

    Il messaggio di Velasco

    “Ho conosciuto centinaia di atleti, alcuni vincenti, altri perdenti. La differenza? I vincenti trovano soluzioni, i perdenti cercano alibi. Non mi piace dire ai ragazzi che andrà tutto bene, rassicurandoli. Preferisco dire loro che andrà come noi faremo in modo che vada. Ai giovani io dico: voi dovete cercare di vincere il più possibile, ma non credete a chi dice che il mondo si divide fra vincenti e perdenti. Io credo che il mondo si divida fra brave e cattive persone, poi tra le cattive persone ci sono dei vincenti, purtroppo. E tra le brave persone ci sono, purtroppo, anche dei perdenti. Uno non è un grande allenatore quando fa muovere i giocatori secondo le proprie intenzioni, ma quando insegna ai giocatori a muoversi per conto loro. L’ideale assoluto avviene nel momento in cui l’allenatore non ha più niente da dire perché i giocatori sanno tutto quello che c’è da sapere”.

    Giustificazioni da gregge

    La cultura degli alibi affonda le proprie radici con facilità: gli individui si trincerano dietro alle responsabilità altrui senza considerare le proprie, magari guardando con malcelata invidia chi invece si è rimboccato le maniche e ha capito che solo una minima parte delle persone di successo è venuta al mondo con talenti innati o forti predisposizioni. La cultura degli alibi in effetti minimizza il sacrificio di chi ha figuratamente pagato il prezzo fin da giovane, giovanissima età e ha improntato la vita a coltivare il proprio sogno-obiettivo. E magari ha dovuto per questo fare rinuncie importanti nel nome di quel sogno, limitando il proprio tempo con i propri genitori o con i propri amici, per imbarcarsi in cerca di quella “fortuna” così fisicamente e mentalmente lontana dal nido e dalla propria zona di comfort.

    Fiducia nel “processo”

    E si torna ad un ideale già condiviso negli scorsi episodi: non esiste persona di successo che non abbia sopportato un sacrificio più o meno alto per arrivare dove si trova oggi, ma tutto ciò che si nasconde dietro la “fotografia del presente” sfugge ai più, impegnati a cercare il difetto o ad aspettare il passo falso di chi, invece, ha fatto di tutto per posizionarsi ai nastri di partenza e giocare al meglio la propria partita. Per chi vede nell’atleta o nel personaggio di successo il semplice punto di arrivo del predestinato, non vale la pena soffermarsi su precedenti rinunce e sacrifici, tantomeno lasciarsene ispirare. In fondo, quel tale sportivo ha vinto la medaglia d’oro perché aveva doti innate, era raccomandato o semplicemente… è stato fortunato!

    Tratto da Childlike – Come un bimboAntea Edizioni


    fraborrelli40@gmail.com

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