Punti di svista
Essere o non essere il Duce? Nella finzione del cinema, le lacrime postume non sono credibili
Il cinema: quella splendida arte che ti permette di essere e interpretare chiunque. Ladri, furfanti, mostri e persino dittatori come Benito Mussolini. Ma per Luca Marinelli interpretare il Duce non è stato facile, anzi. «È stato molto doloroso, mia nonna poi non voleva».
Premessa: Luca Marinelli è bravissimo e personalmente lo apprezzo molto per le sue capacità attoriali. Ma c’era davvero bisogno di questo piagnisteo postumo? A quanto risulta infatti nessuno lo ha obbligato a forza a calarsi nei panni di Mussolini. Anzi, pare sia stato ampiamente (e giustamente) retribuito per la sua performance. E la pantomima quasi shakespeariana del tipo «essere o non essere il Duce, questo è il dilemma», risulta un po’ stucchevole, specie se arriva in concomitanza con l’uscita della serie. E a ben pensarci fa anche un po’ sorridere.
Sensi di colpa ingiustificati
Prendiamo un mostro sacro del cinema come Anthony Hopkins. Dopo aver dato vita al personaggio di Hannibal Lecter, il cannibale più spaventoso della storia del grande schermo, non si è certo scusato con i vegetariani e non si deve essere sentito granché in colpa per aver potenzialmente promosso il cannibalismo. E tutti gli attori che nella storia del cinema hanno interpretato Adolf Hitler, da Bruno Ganz allo stesso Anthony Hopkins (riuscirà a dormire la notte?) non si sono cosparsi il capo di cenere scusandosi con le vittime del nazismo. È il cinema, è finzione. È chiaro a tutti.
E’ la logica del grande schermo, dove ogni dramma è un falso
Marinelli, ha invece sentito il bisogno di chiarire che no, non è stato bello interpretare Mussolini. Se il ruolo era così straziante, perché accettarlo per lamentarsi poi nel periodo di promozione? Meglio risparmiarsi i tormenti postumi. Hai fatto il Duce ma solo sul grande schermo. È un ruolo. È un film. È finzione. Niente struggimenti pubblici per favore. Non sono molto credibili.
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Punti di svista
Tutti appesi al ciuffo di Donald, piaccia o no
Un uomo solo al comando dell’Occidente, col quale sarà bene cercare di andare d’accordo, che la cosa sia gradita o meno. Lo impongono i precari equilibri attuali.
Che piaccia o no, siamo tutti appesi al ciuffo di Donald Trump. Dall’Ucraina al Medio Oriente, dalle tensioni commerciali con la Cina fino agli equilibri interni di alleati e avversari, il suo ritorno sulla scena internazionale, in un modo o nell’altro, segnerà una linea profonda.
Un posto anche per noi
Imprevedibile, devastante per alcuni, rigenerante per altri. Quel che farà «the Donald» è ancora tutto da vedere ma di certo gli equilibri faticosamente costruiti dall’amministrazione Biden potrebbero saltare di botto con un solo tweet o con un proclama dei suoi. E così, Trump costringe tutti a ripensare strategie e alleanze. E qui entra in gioco anche l’Italia.
Giorgia nostra ambisce ad unruolo di interlocutrice privilegiata
Si può discutere all’infinito delle scelte e delle decisioni di Giorgia Meloni ma una cosa è certa: avere un rapporto diretto con Trump è fondamentale perché l’Italia non può permettersi di essere spettatrice in un mondo dove le decisioni si prendono spesso su basi personali ancor più che istituzionali. Trump apprezza chi si pone in maniera determinata, anche aggressiva e Meloni ha dimostrato di saper giocare in questo campo costruendo un dialogo diretto con il tycoon, come dimostra la visita privata a casa Trump di qualche giorno fa.
Per dire la nostra
E questa è una mossa che potrebbe avere un peso non indifferente. Non si tratta di tifare per Trump o contro di lui e nemmeno per Meloni o contro di lei. Il punto è che con l’uomo col ciuffo al timone dell’Occidente, sarà meglio avere un posto sulla nave e avere voce in capitolo su dove condurla. Altrimenti si rischia il naufragio. E l’Italia non può permetterselo, a prescindere da ogni schieramento.
Punti di svista
La libertà secondo Musk: dire ciò che si vuole. Basta non criticare lui
Chissà dove è finito quell’uccellino libero di svolazzare dove gli pareva. Ora X è un social dove è altamente sconsigliato parlar male del suo proprietario Musk…
L’uomo che ci ha promesso auto elettriche per salvare il pianeta, razzi per colonizzare Marte e, soprattutto, un social network dove la libertà di parola sarebbe stata sacra, una volta di più si conferma un campione. Di ipocrisia. Quando ha comprato Twitter, ribattezzandolo X aveva promesso che il suo social network sarebbe stato una bandiera di libertà, in cui tutti avrebbero potuto dire quel che volevano e come volevano.
Padre padrone autoritario
Ma nell’ultimo periodo il buon Elon si è andato a schiantare come un’auto senza pilota (delle sue) contro una realtà che pure cerca di negare. Prima ha sdoganato qualsiasi tipo di commento, compresa la diffusione metodica di notizie false e balle spaziali. Dopodiché, di fronte alle critiche della comunità, si è imposto come un padre padrone autoritario invece che autorevole. «Diamo voce a tutti», dice, ma il sottotitolo è «Purché nessuno si azzardi a criticare me».
Severamente vietato il dissenso su di lui
Già perché il visionario imprenditore, ora braccio destro del nuovo-vecchio presidente americano Donald Trump, ha iniziato a bloccare e limitare gli account di giornalisti, commentatori e utenti comuni che osano mettere in dubbio il suo operato.
Del resto Musk, nel suo nuovo ruolo, sta parlando (e straparlando) di qualsiasi cosa, nel tentativo di accreditarsi come nuovo leader globale di chissà che cosa e ogni commento negativo è per lui come fumo negli occhi.
Il pericolo di un ego fuori controllo
Ma la sua non è censura, sia chiaro. Perché mentre silenzia chi lo critica, continua a invocare la libertà di parola per chiunque. Ma su X (anzi, Twitter!) la libertà di parola finisce dove inizia la suscettibilità del padrone di casa. E l’unico libero rimane lui. Libero di dire ciò che vuole e di coccolare il suo ego, l’unica cosa anche più grande del suo conto in banca. E della sua ipocrisia.
Punti di svista
Dalla Milano da bere a quella del… non fumare
Secondo l’OMS un fumatore è in grado di produrre 5 tonnellate di anidride carbonica nell’arco della vita.
Dal 1° gennaio 2025 il divieto di fumo nella metropoli sarà esteso a tutte le aree pubbliche all’aperto, incluse vie e strade, a eccezione delle apposite aree isolate in cui è possibile rispettare la distanza di 10 metri dalle persone.
E dal primo gennaio, a Milano, accendersi una sigaretta all’aperto sarà come cercare parcheggio in centro: vietato, o comunque quasi impossibile. Colpa, o merito, della decisione del sindaco Beppe Sala di vietare il fumo in parchi, fermate dei mezzi pubblici e anche allo stadio. Se vuoi fumare, o trovi un angolino isolato o te la accendi a casa tua. E stop.
Dibattito aperto all’ombra della Madonnina
La Milano da bere si trasforma così nella Milano da non fumare. Un cambio d’immagine epocale per una città che ha fatto del glamour e della libertà chic il suo cavallo di battaglia e che or si scopre improvvisamente proibizionista. Un bene, perché non si impone ai non fumatori di respirare il fumo altrui o un male perché si limita la libertà individuale? Il dibattito in città è aperto.
Chi esulta e chi si lagna
Da una parte, si potrà finalmente respirare aria fresca, o meglio, appena meno tossica e inquinata di quella figlia di traffico e cantieri perenni. Dall’altra, gli irriducibili delle bionde sono sulle barricate. Dopo i divieti, sacrosanti, all’interno dei locali, ora anche lo stop all’aperto, che per molti è un’esagerazione del tutto inutile. E poi: chi controllerà se mancano uomini e mezzi?
Basterebbe un po’ buonsenso, perché finché c’è chi fuma accanto a un bambino o una donna incinta fregandosene bellamente, il problema esiste, al di là delle norme. In ogni caso, Milano si conferma una città laboratorio. Una ventata di aria nuova. Magari non pura e inquinata lo stesso. Ma comunque, nuova.
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