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Sic transit gloria mundi

Bill Gates contro Elon Musk: «È folle destabilizzare Paesi, i super-ricchi non devono influenzare le elezioni»

Scontro tra titani: il fondatore di Microsoft accusa il patron di X di promuovere l’ultradestra e di voler manipolare la politica internazionale. Il fronte tech inizia a incrinarsi.

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    Bill Gates ha deciso di rompere gli indugi e attaccare frontalmente Elon Musk. In un’intervista che ha già fatto il giro del mondo, il fondatore di Microsoft ha definito «folle» l’idea che un singolo miliardario possa destabilizzare altri Paesi con la sua influenza politica. Il riferimento è chiaro: Musk, secondo Gates, starebbe apertamente sostenendo l’ultradestra, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, con prese di posizione nette su Regno Unito e Germania.

    «Lui vuole promuovere la destra, ma poi dice che Nigel Farage non è abbastanza di destra. Sta con l’AfD», ha spiegato Gates, riferendosi al partito tedesco di estrema destra, ritenuto da Musk «l’unica speranza» per la Germania. Una deriva che l’ex CEO di Microsoft non intende ignorare, tanto da spingersi a suggerire che i governi dovrebbero adottare misure di salvaguardia per evitare che i super-ricchi abbiano un peso eccessivo nelle elezioni.

    La sfida tra miliardari e la rottura del fronte Big Tech

    L’attacco di Gates non è un caso isolato. Se fino a poco tempo fa i giganti della Silicon Valley sembravano muoversi come un blocco monolitico, il nuovo assetto politico ha iniziato a creare fratture evidenti. Tra i pochi che hanno osato alzare la voce contro Musk c’è Steve Bannon, l’ex stratega di Trump, che lo ha definito «malvagio» e determinato a tenerlo lontano dalla Casa Bianca.

    Mark Zuckerberg e Jeff Bezos, invece, si sono mantenuti prudenti, evitando di entrare nel dibattito. Diversa la posizione di Sam Altman, numero uno di OpenAI, che si è scontrato più volte con Musk, in particolare sul progetto Stargate, il mega-piano da 500 miliardi di dollari per l’intelligenza artificiale promosso da Trump. Musk lo ha stroncato, sostenendo che le aziende coinvolte non avrebbero le risorse per portarlo a termine, scatenando la reazione furiosa di Altman e del fronte trumpiano.

    Per ora, l’inquilino della Casa Bianca ha cercato di minimizzare, attribuendo il livore di Musk a dissapori personali. Ma il punto resta: la guerra tra i big della tecnologia è ormai un dato di fatto. E, con le elezioni all’orizzonte, la battaglia per il controllo dell’informazione (e del potere) è appena iniziata.

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      Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri

      Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

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        Caro vicepresidente Vance,
        le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
        Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
        Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.

        Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
        Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
        Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
        Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.

        Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:

        • Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
        • Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
        • Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.

        Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
        In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.

        Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
        E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
        Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.

        Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
        Ma i suoi atti parlano di paura.
        Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
        Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.

        La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
        Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.

        Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
        E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
        Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
        Universale.

        E Dio, per fortuna, resta di tutti.
        Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.

        Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
        E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
        Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.

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          Sic transit gloria mundi

          Trump ribattezza Giorgia Meloni: “Georgia”, come lo Stato. Altro che alleanza speciale

          Meloni vola alla Casa Bianca sognando l’asse sovranista, ma finisce archiviata da Trump come “Georgia”. Un errore? O il solito modo di umiliare gli interlocutori senza nemmeno sforzarsi di ricordare come si chiamano?

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            Tanto entusiasmo, tante strette di mano, tanti sorrisi. E alla fine, Giorgia Meloni è diventata… Georgia.
            Donald Trump, fedele alla sua tradizione di finezza diplomatica, ha deciso di archiviare così l’incontro alla Casa Bianca: un post euforico su Truth in cui ribattezza la premier italiana con il nome di uno Stato americano. Una nuova perla per il tycoon, che dopo “Giuseppi” Conte firma un’altra memorabile gaffe da album.

            «La premier Georgia Meloni ama il suo Paese. FANTASTICA!!!», scrive Trump, regalando alla storia la nuova caricatura di un rapporto che avrebbe dovuto sancire l’alleanza tra due campioni del sovranismo mondiale.
            Ma che, a ben vedere, si è risolta come sempre in una scrollata di spalle americana: grazie del viaggio, cara, e ora vai a sistemarti nella collezione di “cosi” che ho incontrato.

            Il paragone è inevitabile. Quando non ti ricordi il nome dell’amico del bar, lo chiami “coso”. Quando Trump non si ricorda (o non si sforza di ricordare) il nome di un capo di governo, lo ribattezza a piacere. E la leggerezza con cui liquida i suoi interlocutori non è mai casuale: è un modo per ribadire, senza troppi complimenti, chi conta davvero e chi invece no.

            Giorgia, pardon, Georgia, si è presentata piena di buone intenzioni: dialogo transatlantico, negoziati sui dazi, mediazione con l’Unione europea. Peccato che, agli occhi di Trump, il suo destino si sia compiuto in cinque secondi netti: sorrisi, foto di rito, complimenti generici («una persona molto speciale»), e infine l’assegnazione del nuovo nome da battaglia.
            Un destino comune a tutti quelli che orbitano, più o meno inconsapevoli, nell’universo egocentrico del tycoon.

            E se Giuseppe Conte ha pagato “Giuseppi” con anni di scherni e meme, prepariamoci: “Georgia Meloni” diventerà il tormentone perfetto per gli avversari politici, i social, e magari anche per qualche editorialista poco incline all’ossequio.

            Il più grande paradosso? Giorgia Meloni era partita per Washington con il sogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata della nuova destra americana. È tornata a casa con un nome nuovo, e nemmeno troppo originale.
            Difficile costruire un asse sovranista quando il tuo presunto alleato non ti riconosce nemmeno al momento di taggare il post celebrativo.

            Nel frattempo, Trump — che della politica internazionale ha la stessa visione con cui si sceglie il menù di un fast food — continua a inanellare lapsus che sono in realtà piccoli atti di dominio. Se ti chiamo con il nome sbagliato, dice implicitamente, non sei poi così importante.

            E allora, che la premier italiana si chiami Giorgia, Georgia o semplicemente “coso”, poco importa: l’importante è aver fatto la foto, aver raccolto gli applausi dei sostenitori e aver confermato, ancora una volta, che tra Washington e Roma la distanza non è solo geografica.
            È anche — e soprattutto — gerarchica.

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              Giorgia Meloni regala la Nutella a re Carlo: “Se sei giù, aprila”

              Durante la cerimonia dei Premi Leonardo, Giorgia Meloni ha svelato il retroscena del simpatico regalo a re Carlo: un barattolo di Nutella come simbolo della qualità italiana. Un gesto apprezzato dal sovrano, grande amante dei sapori del nostro Paese.

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                Un barattolo di Nutella come antidepressivo reale. Giorgia Meloni ha scelto un gesto tanto curioso quanto efficace per conquistare re Carlo III durante la sua recente visita ufficiale in Italia. A raccontarlo è stata la stessa premier, intervenendo a Villa Madama durante la cerimonia dei Premi Leonardo, davanti a una platea che ha sorriso di gusto.

                «Quando Pietro Ferrero ha iniziato a produrre la pasta gianduiotto nella sua Topolino, non avrebbe mai immaginato che un giorno il primo ministro italiano avrebbe regalato un barattolo di Nutella al re d’Inghilterra», ha dichiarato Meloni, rivelando così il simpatico retroscena della visita ufficiale a Villa Pamphilj.

                Il dono, però, non era soltanto un omaggio goloso. Accompagnato da un biglietto scritto di suo pugno, la presidente del Consiglio ha voluto aggiungere un tocco personale, suggerendo “istruzioni per l’uso” da vero manuale della felicità: «In una domenica di pioggia, se dovessi essere un po’ giù di corda, indossa il tuo miglior pigiama, siediti sul divano, accendi la serie tv che volevi vedere da tanto tempo, prendi un cucchiaino e apri questo regalo: ti sentirai meglio».

                Un modo semplice, ma efficace, per raccontare al sovrano britannico l’anima dei prodotti italiani: non solo eccellenza gastronomica, ma emozioni vere, capaci di scaldare il cuore. «I prodotti italiani si affermano nel mondo perché fanno bene anche all’anima», ha sottolineato Meloni. «Non vincono sul prezzo, ma sulla qualità».

                Il regalo ha strappato un sorriso divertito a re Carlo, da sempre estimatore della cucina italiana. Non a caso, solo qualche settimana prima nella sua residenza di Highgrove aveva organizzato una cena dedicata interamente ai sapori del Belpaese. E durante il suo recente discorso davanti alle Camere riunite del Parlamento italiano, il sovrano aveva persino scherzato: «Spero possiate perdonarci se a volte corrompiamo la vostra cucina. Lo facciamo con il massimo affetto possibile».

                Il soggiorno romano di Carlo e Camilla è stato all’insegna della buona tavola. La terza giornata si è chiusa con una cena di gala al Quirinale, in cui i piatti italiani sono stati protagonisti assoluti. E non sono mancate incursioni golose anche fuori programma: passando davanti alla storica gelateria Giolitti, i sovrani si sono lasciati tentare. Nonostante la folla li abbia trattenuti dall’entrare, i gelatai hanno servito loro una coppetta di gelato al caramello direttamente all’esterno. Un gesto spontaneo, accolto con sorrisi e gratitudine.

                Il barattolo di Nutella, dunque, non è stato solo un regalo simpatico, ma un piccolo simbolo di quell’Italia che Carlo ama e conosce bene: un’Italia che sa unire eccellenza gastronomica, tradizione e quella capacità tutta nostrana di rendere ogni incontro un’occasione di gioia.
                E, chissà, forse davvero, in un pomeriggio di pioggia, il re d’Inghilterra seguirà le istruzioni di Giorgia Meloni: pigiama, serie tv e un cucchiaino di dolcezza tutta italiana.

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