Sic transit gloria mundi
Dalla Tv del dolore alla Tv dell’orrore: forse era meglio Barbara D’Urso…
A Pomeriggio 5 un uomo confessa in diretta l’omicidio della madre. Ma davvero era necessario spingersi così oltre? Quale sarà il prossimo passo della tv italiana?
Un uomo, Lorenzo Carbone, confessa in diretta tv di aver ucciso sua madre. Lo fa davanti alle telecamere di Pomeriggio 5, e poco dopo la trasmissione va in pubblicità, come se nulla fosse. Siamo arrivati a un nuovo livello: non più la tv del dolore, ma la tv dell’orrore, che trasforma un dramma personale in spettacolo per una manciata di punti di share. Ma cosa stiamo diventando?
L’immagine dell’uomo visibilmente scosso che racconta di aver strangolato la madre è stata trasmessa senza filtri, senza alcuna riflessione su cosa questo significhi per chi guarda. Stiamo parlando di un pomeriggio televisivo, di una fascia oraria in cui davanti agli schermi ci sono anche adolescenti, persone vulnerabili, spettatori ignari che di certo non si aspettavano di assistere in diretta alla confessione di un omicidio.
Uno show senza limiti
Barbara D’Urso è stata spesso criticata per i suoi programmi definiti “tv del dolore”, accusata di cavalcare i drammi umani per fare ascolti. Eppure, mai si era arrivati a questo punto: un uomo che, davanti alle telecamere, ammette di aver ucciso sua madre perché, dice, non ce la faceva più a sopportare la sua malattia. E tutto questo viene gestito come se fosse un normale servizio di cronaca, un’esclusiva da mostrare senza troppi scrupoli.
L’etica degli ascolti
Viene da chiedersi dove sia finita l’etica giornalistica, il rispetto per le vittime e per chi guarda. Qual è il limite che la televisione non dovrebbe superare? Perché trasmettere in diretta un momento così crudo, senza pensare alle conseguenze? Myrta Merlino ha dichiarato di aver agito secondo coscienza e professionalità, ma la domanda rimane: era davvero necessario? L’opinione pubblica ha diritto di sapere, certo, ma c’è un modo e un tempo per raccontare le storie, e questo non era né il modo né il tempo.
La confessione è arrivata senza preavviso, ha sconvolto il pubblico e la trasmissione ha continuato come se nulla fosse accaduto. È normale? I pubblicitari, che sostengono queste trasmissioni, si rendono conto del contesto in cui i loro spot vengono mandati in onda? Pier Silvio Berlusconi, che ha promesso un nuovo corso per Mediaset, è contento di questo risultato? Un’esclusiva a questo prezzo vale davvero la pena?
L’orrore in salotto
Quello che è successo rappresenta un salto di qualità – o meglio, di bassezza – per la nostra televisione. Una deriva che rischia di normalizzare l’orrore, di farci credere che tutto sia lecito in nome dell’audience. L’esclusiva non dovrebbe essere una scusa per tutto. Se l’etica diventa un concetto fluido, plasmato dai like e dallo share, che futuro ci aspetta?
La spettacolarizzazione della sofferenza
Lo sappiamo tutti: il disagio mentale è un problema dilagante, e sarà una delle principali sfide del prossimo decennio. L’OMS prevede che entro il 2030 le malattie mentali saranno la vera pandemia. E noi cosa facciamo? Diamo spazio in diretta a un uomo visibilmente sconvolto, in stato di shock, senza pensare alle implicazioni, al messaggio che stiamo lanciando. Questo non è informazione. È sfruttamento della sofferenza.
Un passo indietro necessario
In un mondo in cui la morale sembra essere delegata ai social, dobbiamo ricordarci che la televisione ha un ruolo educativo, che deve rispettare il pubblico e le vittime. Non si tratta di censura, ma di buon senso. Quello che è andato in onda è inaccettabile. Serve un passo indietro, una riflessione seria su cosa vogliamo che la nostra televisione rappresenti. Perché, se non lo facciamo ora, il prossimo passo sarà ancora più oscuro e terribile. E a quel punto, cosa ci resterà di umano?
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Sic transit gloria mundi
Il Governo paga il panettone? Sì, ma non a tutti: ecco il Bonus Natale e come ottenerlo
L’ultima circolare spiega a chi spetta l’assegno, come richiederlo e chi effettivamente riuscirà a metterselo in tasca. Spoiler: non è per tutti!
Vi aspettavate un bel regalo sotto l’albero? Il Governo quest’anno, con il Bonus Natale, ha deciso di stanziare fino a 100 euro per i dipendenti, ma attenzione, come sempre ci sono dei paletti. L’Agenzia delle Entrate ha appena pubblicato la circolare numero 19, che spiega chi può accedere a questa “generosa” indennità e come richiederla. Spoiler: non è per tutti. Il bonus, previsto dal decreto Omnibus, viene accreditato ai dipendenti che rispettano precisi requisiti di reddito e famiglia.
A chi spetta il Bonus Natale?
Per ottenere il bonus, il reddito complessivo del 2024 non deve superare i 28mila euro, ma attenzione: non basta. Bisogna avere un coniuge e almeno un figlio fiscalmente a carico, e l’imposta lorda sui redditi da lavoro dipendente deve essere superiore alle detrazioni. Quindi, se vi mancano moglie, marito o figli a carico, il bonus vi scivolerà via come neve al sole. Il reddito dell’abitazione principale non verrà conteggiato, e il coniuge, per poter “contare”, non deve essere separato legalmente. Per i nuclei monogenitoriali, serve almeno un figlio fiscalmente a carico. Insomma, c’è poco da fare: bisogna rispondere a ogni dettaglio.
Come fare per richiedere l’indennità
Chi spera di accaparrarsi il Bonus Natale deve inoltrare una richiesta scritta al proprio datore di lavoro, specificando il codice fiscale del coniuge e dei figli a carico. Un’autocertificazione per dimostrare di possedere i requisiti richiesti dalla norma, e il gioco è fatto… più o meno. Il datore di lavoro, a questo punto, potrà riconoscere l’indennità insieme alla tredicesima mensilità e recuperare la somma sotto forma di credito d’imposta.
Insomma, la strada per ottenere il bonus non è proprio una passeggiata e richiede un bel po’ di documenti e requisiti da spuntare, ma per chi rientra nei parametri… è pur sempre un panettone pagato dal Governo!
E chi non ha i requisiti?
Niente paura, per chi non rientra tra i “fortunati” destinatari del Bonus Natale, resta sempre la possibilità di far pace con il forno di casa e preparare un panettone fai-da-te. Certo, non sarà coperto dall’assegno dell’Agenzia delle Entrate, ma di questi tempi meglio adattarsi… magari con un po’ di ironia!
Sic transit gloria mundi
I deliri ministeriali di Valditara: quando il patriarcato non esiste e la colpa è sempre degli stranieri
Le parole del ministro dell’Istruzione durante la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin gelano la sala e sollevano polemiche.
In una giornata in cui il dolore si intreccia alla speranza, le parole di Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, risuonano come un pugno nello stomaco. Nel corso della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, istituita in memoria della giovane vittima di femminicidio, il ministro ha sfoggiato un’arrogante negazione della realtà, proclamando che il patriarcato è un fenomeno del passato e spostando il discorso sulla violenza contro le donne su un piano di colpe attribuite all’immigrazione illegale.
Il patriarcato è morto. Anzi no, forse. Ma comunque non esiste.
Con toni da cattedra polverosa, Valditara si è lanciato in un’arringa che, se non fosse drammatica, sarebbe grottesca. “Il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975”, ha dichiarato, mostrando un’ignoranza spaventosa della struttura culturale e sociale che ancora permea la nostra società. Per lui, il problema si riduce a “residui di maschilismo”, un’elegante perifrasi per indicare il vero colpevole, un sistema che continua a giustificare e perpetuare il controllo e la violenza degli uomini sulle donne.
L’immigrazione come capro espiatorio.
Ma non è tutto: Valditara non si è accontentato di negare il patriarcato, ha anche pensato bene di tirare in ballo l’immigrazione. Secondo il ministro, “l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche alla devianza derivante dall’immigrazione illegale”. Un’affermazione che non solo sposta il dibattito su un piano razzista, ma che svuota di significato il dolore e la memoria di una giovane ragazza uccisa da un uomo italiano, con un nome e un cognome, cresciuto in una società che insegna il possesso e non il rispetto.
La dignità di Gino Cecchettin contro l’arroganza ministeriale.
Di fronte a questa deriva, la dignità di Gino Cecchettin, padre di Giulia, emerge ancora più luminosa. Le sue parole non hanno accusato, non hanno puntato il dito, ma hanno chiamato alla responsabilità: “Grazie all’amore di Giulia, porteremo un messaggio di educazione nelle scuole”. Un invito che Valditara sembra non avere colto, troppo impegnato a difendere una visione ristretta e ideologica che tradisce la complessità del problema.
Reazioni politiche e sdegno trasversale.
Le parole del ministro hanno suscitato un’ondata di sdegno. Laura Boldrini le ha definite “un intervento imbarazzante”, Gianni Cuperlo ha parlato di dichiarazioni “fuori sincrono con l’importanza della giornata”, mentre la deputata Pd Simona Malpezzi le ha bollate come “sbagliate nel merito e nel metodo”. Eppure, Valditara non si è lasciato smuovere, limitandosi a lamentare la solita “rissa della sinistra”, come se fosse la mancanza di pacatezza e non la sostanza delle sue affermazioni il vero problema.
Il patriarcato non sarà morto, ma il buon senso sì.
Mentre la sala della Regina di Palazzo Montecitorio avrebbe dovuto essere un luogo di ricordo e impegno, si è trasformata nell’ennesimo palcoscenico per deliri ministeriali. E il patriarcato? Non è morto, ministro Valditara. Vive e prospera proprio grazie a chi, come lei, preferisce negarlo invece di affrontarlo.
Sic transit gloria mundi
Trump 2.0 e il suo governo degli impresentabili: la provocazione calcolata che divide il Congresso e tira in ballo il deep state
Matt Gaetz alla Giustizia nonostante le accuse di sesso con una minorenne, Pete Hegseth al Pentagono senza alcuna esperienza militare e con uno scandalo di aggressione sessuale sulle spalle. Tulsi Gabbard alla guida dell’intelligence accusata di rapporti ambigui con Mosca e Robert Kennedy Jr. alla Sanità, no vax e complottista. Trump sfida apertamente il Senato e l’establishment con una squadra di nomine che sembra fatta apposta per scatenare polemiche, puntando sul caos per consolidare il suo potere e rilanciare la sua narrativa contro il “deep state” che gli impedirebbe di governare.
Donald Trump non è mai stato il tipo da passare inosservato. Ma con la lista delle nomine per la sua seconda amministrazione, il presidente sembra aver deciso di trasformare la politica americana in un esperimento sociologico senza precedenti. È difficile guardare alla sua squadra di candidati senza chiedersi se ci troviamo davanti a un atto deliberato di sabotaggio del sistema, una provocazione calcolata per scatenare polemiche e consolidare la sua narrativa di “vittima del deep state”. O, più semplicemente, l’ennesima prova che Trump non ha mai avuto interesse a governare come un presidente razionale, ma solo a interpretare il ruolo dell’outsider perenne in lotta contro i poteri forti. Un chiagni e fotti, per dirla con una popolare vulgata napoletana, spinto all’estremo.
Ecco allora che Trump propone una squadra che sembra uscita più da un romanzo distopico che da una lista di governo. Nomine che lasciano interdetti persino i più fedeli sostenitori repubblicani, costringendo il Senato a una battaglia già esplosiva prima ancora di iniziare. Quattro i nomi sotto accusa, che ben difficilmente passeranno al vaglio del Senato: Matt Gaetz, plurinquisito e con accuse pesanti di rapporti sessuali con una minorenne, dovrebbe prendere il controllo del Dipartimento di Giustizia. Pete Hegseth, ex commentatore televisivo con nessuna esperienza di ruoli di comando militare, è destinato al Pentagono, l’istituzione più imponente della macchina statale americana. Tulsi Gabbard, ex democratica con dichiarate simpatie filo-russe, dovrebbe guidare l’intelligence nazionale. E Robert Kennedy Jr., complottista no vax e figura controversa persino tra i repubblicani, dovrebbe occuparsi di Sanità. Un cast che sembra più una dichiarazione di guerra al sistema che una proposta di governo.
Partiamo da Matt Gaetz, la nomina più esplosiva e controversa. Il deputato della Florida si porta dietro una serie di scandali che lo rendono praticamente indifendibile. Accusato di aver avuto rapporti sessuali con una diciassettenne, la sua vicenda ha visto il coinvolgimento del Comitato Etico della Camera, che non ha ancora concluso le indagini. La ragazza in questione ha testimoniato confermando i rapporti, ma Gaetz si difende sostenendo di non essere stato a conoscenza della sua età. Anche se l’inchiesta non ha portato a incriminazioni formali, il caso ha già fatto danni enormi alla sua immagine, alimentando l’odio persino tra i colleghi repubblicani, molti dei quali lo considerano ormai un personaggio tossico. Non aiuta il fatto che Gaetz abbia giocato un ruolo cruciale nella cacciata dello speaker repubblicano McCarthy, inimicandosi mezzo Congresso. Eppure, per Trump, questi scandali non sono un problema, ma quasi un requisito. Gaetz è un fedelissimo, un uomo disposto a tutto pur di proteggere il presidente e piegare il Dipartimento di Giustizia ai suoi ordini. Che sia un personaggio divisivo e screditato sembra essere un dettaglio irrilevante.
Poi c’è Pete Hegseth, altro fedelissimo di Trump, famoso più per la sua carriera da commentatore televisivo su Fox News che per competenze militari o amministrative. Trump lo ha scelto per il Pentagono con un obiettivo ben preciso: epurare i generali “woke” e trasformare l’esercito in un baluardo di fedeltà trumpiana. Ma Hegseth porta con sé non solo un curriculum vuoto, ma anche uno scandalo di aggressione sessuale. Nel 2017, secondo uno scoop di Vanity Fair, è stato accusato di aver molestato una donna durante un congresso della National Federation of Republican Women. Anche se non ci sono state incriminazioni, l’episodio alimenta ulteriori dubbi sulla sua idoneità a guidare l’apparato militare più potente al mondo. Come sempre, Trump sembra ignorare le competenze in favore della fedeltà personale.
La nomina di Tulsi Gabbard alla direzione dell’intelligence solleva altrettanti dubbi. Gabbard, ex deputata democratica passata a posizioni sempre più vicine alla destra trumpiana, è vista con grande sospetto per i suoi rapporti ambigui con la Russia e il suo filo-putinismo dichiarato e quasi sbandierato in dichiarazioni e interviste. Affidare i segreti più delicati della sicurezza nazionale a una figura del genere appare come una provocazione diretta, persino per molti repubblicani che vedono in questa scelta un rischio enorme per la sicurezza del paese. Trump, però, sembra puntare proprio su questa ambiguità, cercando di sfidare l’establishment e spingere ancora di più l’idea che il sistema sia ostile a chiunque non ne faccia parte.
Infine, Robert Kennedy Jr. alla Sanità. La sua nomina è forse la più ironica di tutte. Famoso per le sue teorie complottiste e per il negazionismo vaccinale, Kennedy rappresenta tutto ciò che il sistema sanitario americano dovrebbe combattere. Ma non è solo il suo complottismo a renderlo impresentabile: Kennedy è visto come troppo abortista dall’ala più conservatrice del partito repubblicano, rendendolo una figura divisiva non solo per i liberal, ma anche per molti tra i suoi stessi alleati politici. Tuttavia, è proprio questa capacità di polarizzare che sembra attrarre Trump, che lo vede come un alleato ideale per la sua battaglia contro le istituzioni tradizionali.
La strategia dietro queste nomine appare chiara. Trump non sta cercando un governo funzionale, ma una squadra di combattenti disposti a scendere in trincea con lui, a costo di distruggere ogni convenzione. Sa benissimo che il Senato avrà enormi difficoltà a confermare candidati con un passato così compromesso. Ma per Trump, le bocciature sono una vittoria. Ogni rifiuto del Senato diventerà un pretesto per gridare al complotto del “deep state”, dipingendosi ancora una volta come vittima di un sistema corrotto che vuole impedire la sua rivoluzione.
C’è poi un’alternativa ancora più estrema: i recess appointments. Questa norma poco usata, nata in un’epoca in cui i senatori viaggiavano a cavallo, permette al presidente di nominare funzionari temporanei quando il Congresso è in pausa. Trump potrebbe usarla per bypassare il Senato e lasciare che i suoi fedelissimi rimangano in carica almeno fino alla prossima sessione. Sarebbe una mossa brutale, che però rischierebbe di alienargli anche molti tra i repubblicani moderati, già scettici nei confronti della sua gestione caotica.
In entrambi i casi, Trump sembra perseguire il caos come strategia politica. La sua priorità non è mai stata quella di governare nel senso tradizionale del termine, ma di creare una narrativa di lotta perpetua contro i poteri forti. Questa squadra di impresentabili non è altro che l’ennesimo capitolo di una saga in cui il caos è l’unica costante, e Trump il protagonista indiscusso. Perché, nel bene e nel male, il trumpismo non è mai stato una questione di politica, ma di puro spettacolo. E in questo The Donald è un maestro indiscusso.
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