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Sic transit gloria mundi

Eurovision, ovvero l’inutilità totale di Mara Maionchi

Qualcuno deve spiegare ai telespettatori perché la Rai non riesce a trovare un conduttore “tecnico” in grado di affiancare il bravo Gabriele Corsi senza dire un mare di stupidaggini, ovvietà e banalità.

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    Sarà anche preparata dal punto di vista musicale, questo non lo metto in dubbio. Ma ha una voce francamente insopportabile. E non dice una cosa che abbia un senso, che arricchisca di un pizzico lo spettacolo. Solo un proluvio di banalità, risate fasulle, ovvietà degne di Malgioglio… senza essere la cara, vecchia Zia Malgi che proprio sul non sense si è creata un personaggio vincente.

    Che ci fa la Maionchi a Malmoe? Sembra capitata lì per caso, risponde a monosillabi, stronca alcune canzoni come se si fosse addormentata e appena risvegliata. ride a caso. E premia con qualche frase standard e preconfezionata come un pacchetto di patatine fritte solo le canzoni più banali e già sentite.

    Eppure Mara ha una storia, un passato, di musica ne capisce. Ma se da Malgioglio puoi anche sopportare che non conosca i Rasmus (forse il maggior gruppo rock nord europeo che con l’hit In The Shadows ha venduto milioni di dischi), dalla Maionchi ti aspetti almeno un commento sensato, che arricchisca la serata. Invece no, sembra capitata lì per caso. Come se fosse seduta al bar a farsi il quarto spritz della serata dicendo cose a caso in libertà.

    Voto in pagella? 2, perché 4 sarebbe decisamente troppo.

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      Grande Fratello 2025: l’edizione del disastro. Peggiore perfino delle precedenti (e ci voleva talento)

      Venticinque anni dopo la prima diretta, il reality più longevo della tv italiana festeggia il traguardo con un’autentica disfatta: ascolti sottozero, concorrenti da circo e una sceneggiatura involontaria degna del peggior splatter. Alfonso Signorini al timone, ma la nave affonda comunque.

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        Il Grande Fratello spegne le candeline con una mano tremante e un occhio pesto. L’edizione 2025 sarà ricordata, più che per il traguardo del quarto di secolo, per un unico merito: essere riuscita a fare peggio di tutte le stagioni precedenti. E ce ne voleva, davvero. A vincere è stata Jessica Morlacchi, in una finale tiepida come un bollitore rotto, seguita da un pubblico dimezzato rispetto agli anni buoni. A perdere, invece, è stato tutto il resto: la credibilità, il format, l’autorevolezza (che già barcollava), e soprattutto l’idea stessa che la Casa potesse ancora rappresentare qualcosa oltre il meme.

        Quella che era stata annunciata come una stagione “radicale”, “nuova”, “più vera che mai”, si è trasformata in una specie di battle royale tra aspiranti influencer, anime in pena e provocatori da discount. La regia non è riuscita a tenere il passo del caos, gli autori hanno gettato la spugna già alla terza settimana, e il pubblico — quello vero, non i troll dei fanclub su Telegram — ha iniziato a cambiare canale con una certa soddisfazione.

        Si è visto di tutto, ma proprio di tutto. Accuse di bestemmie, bollitori usati come armi improprie, minacce velate (e nemmeno troppo), battute tossiche, pianti a comando, prove degne di una colonia estiva per adulti in regressione. Il tutto condito da una costante caccia all’audience a colpi di clip scandalistiche tagliate su misura per TikTok, dove l’importante non è più essere veri, ma virali.

        Alfonso Signorini, che avrebbe dovuto “ripulire l’immagine del programma”, ha finito per diventarne il parafulmine. Braccato da polemiche, costretto a prendere posizione su ogni scivolone in diretta (salvo poi ritrattare tutto la settimana dopo), si è trovato a guidare una nave fantasma, mentre dietro le quinte gli autori storici festeggiavano ogni nuova caduta come se fosse parte del piano.

        Nel cast, la punta più estrema è stata raggiunta con Lorenzo Spolverato, concorrente discusso fin dall’inizio, già noto per i suoi exploit su OnlyFans e per aver litigato con l’80% della popolazione della casa. Accusato di bullismo, minacce, frasi oscene e — dulcis in fundo — bestemmie multiple, è stato prima difeso, poi scaricato, poi riabilitato, in un carosello di contraddizioni che avrebbe fatto impallidire persino gli sceneggiatori di Beautiful.

        A nulla sono serviti gli appelli del Codacons, che ha scritto direttamente ai vertici Mediaset. La risposta ufficiosa? “Piersilvio non può controllare tutto”. Ma forse avrebbe dovuto controllare almeno il montaggio delle puntate. O i microfoni. O il fatto che nel giorno della finale ci fossero più visualizzazioni su una live Twitch di cucina vegana che su Canale 5.

        Il problema, però, non è solo nel cast raccattato da agenzie dubbie o nella conduzione stanca: è nella mutazione genetica del programma. Il GF 2025 non è più un reality show, ma una centrifuga progettata per sfornare contenuti per i social. I televoti sono ormai appaltati a fandom organizzati che agiscono come plotoni digitali. Il gioco è scomparso. Le dinamiche sono farsa. Il montaggio si fa per indignare, non per raccontare.

        E alla fine, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Quelli che non hanno ancora cambiato canale, s’intende. I dati parlano chiaro: la finale del 2000, 16 milioni di spettatori; quella di quest’anno, un paio di milioni scarsi. Un tonfo che neanche il peggior spin-off di Temptation Island sarebbe riuscito a eguagliare.

        Come se non bastasse, a poche ore dalla fine è circolata anche una falsa notizia — un pesce d’aprile — su una rissa furibonda tra i concorrenti durante la festa di chiusura. Il pubblico ci ha creduto al volo, con entusiasmo. Il che, più di ogni altra cosa, racconta quanto sia ormai sottile la linea tra ciò che è accaduto e ciò che potrebbe tranquillamente accadere dentro quella casa.

        Il Grande Fratello 2025 passerà alla storia. Ma non per il motivo che speravano a Mediaset.

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          Trump contro la diversità, lettere dagli Usa alle aziende italiane: “Niente appalti a chi la promuove”

          Dopo Francia e Spagna, anche le aziende italiane ricevono richieste dagli Usa per rinunciare ai criteri di “Diversità, Equità e Inclusione” pena la perdita di appalti. Una regressione culturale che suscita indignazione e proteste in Europa, dove le interferenze americane sono considerate inaccettabili.

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            La crociata anti-diversità dell’amministrazione Trump varca l’Atlantico e irrompe direttamente nelle aziende italiane. Con una lettera che sta suscitando polemiche e sconcerto, l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma ha iniziato a chiedere ai fornitori locali di beni e servizi di rinunciare ufficialmente alle politiche aziendali basate su “Diversità, Equità e Inclusione” (Dei), pena la perdita di contratti e appalti con Washington. Una misura che arriva dopo analoghe comunicazioni già inviate a società in Francia e Spagna.

            Alla base di tutto c’è un ordine esecutivo firmato da Donald Trump il 21 febbraio scorso che definisce “illegali, degradanti e immorali” tutte le misure di favore legate a diversità, genere, etnia e disabilità. Trump sostiene che queste politiche, lungi dal favorire l’equità, minino l’unità nazionale americana, danneggiando valori quali “duro lavoro, eccellenza e risultati individuali”.

            L’ambasciata americana di via Veneto si è rifiutata di commentare specifiche operazioni, limitandosi a confermare che tutte le azioni diplomatiche sono conformi alle procedure del governo statunitense. Una posizione coerente con quella già assunta dalle sedi diplomatiche Usa a Madrid e Parigi, dove le lettere inviate alle aziende locali sono state accompagnate da richieste esplicite di chiarimenti dettagliati qualora queste si fossero rifiutate di sottoscrivere la rinuncia ai criteri Dei.

            In Francia, il ministero del Commercio estero ha definito “inaccettabili” le interferenze americane, definendole una grave ingerenza nella sovranità delle imprese e minacciando ritorsioni commerciali. Lo stesso scenario si preannuncia ora in Italia, dove la diffusione delle comunicazioni americane rischia di creare non pochi problemi ai rapporti commerciali.

            Al centro della questione c’è la visione fortemente divisiva di Trump, che ha ordinato a tutte le agenzie federali di eliminare qualunque misura basata su principi di diversità e inclusione, da lui bollati come discriminatori. Una direttiva che colpisce persino istituzioni come la CIA, che negli anni avevano adottato questi criteri.

            Di fatto, la decisione Usa rappresenta una brusca inversione di rotta rispetto ai progressi fatti negli ultimi decenni sul fronte della tutela dei diritti e dell’inclusività. Una regressione culturale che trova ampio dissenso in Europa, dove le politiche Dei sono considerate non soltanto legittime, ma necessarie per garantire equità e pari opportunità in società complesse e multiculturali.

            Resta ora da vedere se le aziende italiane piegheranno il capo alle pressioni di Washington o se emergerà una risposta compatta delle istituzioni europee per difendere quei valori di civiltà che sembravano ormai acquisiti.

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              “Il Papa sapeva di poter morire”: il racconto drammatico del medico che l’ha salvato

              Sergio Alfieri, il chirurgo che ha seguito il Pontefice per 38 giorni durante il ricovero d’emergenza al Gemelli, racconta i momenti più critici e le due crisi respiratorie in cui si temeva il peggio. “Disse: non molliamo. Poi offrì la pizza ai medici.”

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                “È brutto”. Così, in un pomeriggio di fine febbraio, Papa Francesco rompe il silenzio mentre fatica a respirare. Siamo al 28 febbraio, e il Pontefice è ricoverato al Gemelli da quattordici giorni. Un broncospasmo lo colpisce all’improvviso, provocandogli fame d’aria. Chiede aiuto.

                “Sì, quello è stato il momento peggiore”, confessa il professor Sergio Alfieri, coordinatore dell’équipe medica che ha curato il Papa per 38 giorni. “Per la prima volta ho visto le lacrime agli occhi ad alcune persone che stavano intorno a lui. Persone che, ho compreso in questo periodo, gli vogliono sinceramente bene, come a un padre. Eravamo tutti consapevoli che la situazione si era aggravata e c’era il rischio che potesse non farcela”.

                A quel punto, il dilemma. “Dovevamo scegliere se fermarci e lasciarlo andare oppure tentare con tutte le terapie e i farmaci possibili, correndo il rischio di danneggiare altri organi. Alla fine abbiamo preso questa strada”.

                Chi decise? “Decide sempre il Santo Padre. Ha delegato ogni tipo di scelta sanitaria a Massimiliano Strappetti, il suo assistente sanitario personale che conosce perfettamente le sue volontà”. Ma Francesco fu chiaro: “Provate tutto, non molliamo”. E nessuno mollò.

                Il Papa era consapevole? “Sì, sempre. Anche nei momenti più gravi era vigile. Quella sera fu terribile. Sapeva, come noi, che poteva non superare la notte. E ha voluto da subito che gli dicessimo la verità”.

                Ci fu un’altra crisi. “Stavamo uscendo dal periodo più duro. Mentre mangiava ha avuto un rigurgito e ha inalato. In questi casi si rischia la morte improvvisa. Fu terribile. Pensammo davvero di non farcela”.

                Francesco, anche in quell’occasione, era lucido. “Ce lo ha detto: si rendeva conto di tutto. Credo che la sua consapevolezza lo abbia tenuto in vita. Mi disse: ‘Ho metodo e regola’. Ha risorse incredibili, oltre a un cuore fortissimo”.

                Il 14 febbraio si convinse a ricoverarsi. “Stava male da giorni, ma resisteva per rispetto degli impegni del Giubileo. Quando cominciò a respirare male capì che non poteva più aspettare. Arrivò sofferente, ma in poche ore aveva già ritrovato il buon umore”.

                E non perse l’ironia. “Una mattina lo salutai: ‘Buongiorno Santo Padre’. Mi rispose: ‘Buongiorno Santo Figlio’. Era il suo modo di dire che si sentiva meglio. Il fisico affaticato, ma la testa è quella di un cinquantenne”.

                Il Papa cercò gli altri pazienti. “Appena si è sentito meglio, ha voluto girare per il reparto. Non voleva che si chiudessero le stanze. Ha cercato gli sguardi degli altri malati. Un giorno è uscito dalla sua stanza cinque volte, forse di più”.

                E poi, la pizza. “Diede dei soldi a un collaboratore e offrì la pizza a chi lo aveva assistito. Quando mi disse ‘Sono ancora vivo, quando torniamo a casa?’, capii che aveva deciso di rientrare. Il giorno dopo si affacciò alla finestra, cercò il microfono e parlò con la signora con i fiori gialli”.

                Il Papa sapeva che alcuni lo credevano morto? “Sì, era informato. E ha reagito con la solita ironia”.

                Che cosa ricorda di più? “Quando, nel periodo più difficile, mi stringeva la mano per qualche minuto come a cercare conforto”.

                Ora il Papa è a casa, ma con prescrizioni: “Due mesi di convalescenza protetta. Deve evitare contatti con gruppi o bambini. Quando è andato via ci siamo promessi di non sprecare la fatica fatta. Ma lui è il Papa: non siamo noi a dettare i comportamenti”.

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