Sic transit gloria mundi
Il Governo sprofonda nel ridicolo: Meloni con che faccia difende Sangiuliano?
Una settimana di silenzio e lacrime non hanno placato lo scandalo. Ora Meloni si trova di fronte a un bivio: continuare a proteggere un ministro che ha perso ogni credibilità o intervenire prima che il caso Sangiuliano diventi un disastro politico senza ritorno.

La Meloni dice che sta facendo la storia, ma la vera protagonista di questa saga è una ragazza di Pompei, Maria Rosaria Boccia, che da sola, da una settimana, sta mettendo in ginocchio il governo. Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è ormai sepolto sotto un cumulo di bugie, autosviolinate e dichiarazioni grottesche che stanno facendo ridere il mondo intero. E mentre lui si arrampica sugli specchi, la premier Giorgia Meloni resta immobile, le dimissioni del ministro nel cassetto, senza decidere cosa fare.
C’è del marcio a Roma, direbbe qualcuno parafrasando Shakespeare, e non c’è dubbio che Sangiuliano, con il suo comportamento, ne sia una delle cause principali. Un uomo che tradisce, mente, piange in tv e poi pretende di restare al suo posto come se nulla fosse. Fatto privato? Ma fateci il piacere, il caso è diventato internazionale, tutto il mondo ci ride dietro, abbiamo un governo da telenovela turca… altro che privato. Questo schifo ci coinvolge tutti, coinvolge la dignità di una Nazione. E ora si tratta di capire quali segreti la Boccia abbia realmente tra le mani.
“Possono uscire le chat relative alla nostra relazione affettiva,” ha dichiarato Sangiuliano, insinuando che il peggio potrebbe ancora arrivare. E qui sorgono le vere domande: Boccia possiede anche chat di governo? Ha scambi di messaggi tra Meloni e Sangiuliano o tra quest’ultimo e altri ministri? Ha dei leaks che potrebbero far tremare i palazzi del potere? Ha le foto del Ministro nudo? Cos’ha?
Meloni, con che faccia puoi difendere un ministro che ha perso la testa? E soprattutto, come può Sangiuliano garantire che Boccia non possieda conversazioni riservate?
Il ministro, non contento di affondare da solo, trascina con sé anche i colleghi. In un goffo tentativo di difendersi, ha tirato in ballo l’ex compagna di Salvini, Elisa Isoardi, e l’attuale, Francesca Verdini, dicendo: “Cosa credete che facesse Salvini con la Isoardi? E poi con la Verdini?”. Un commento velenoso che non ha fatto altro che peggiorare la situazione, costringendo Sangiuliano a umiliarsi e chiedere scusa a Salvini in una ridicola sceneggiata televisiva.
La premier, nel frattempo, cerca di tenere in piedi un governo sempre più traballante. Ma mentre Meloni si preoccupa di evitare un rimpasto che potrebbe destabilizzare ulteriormente il suo esecutivo, una privata cittadina continua a sbugiardare un ministro, guadagnando seguaci sui social a un ritmo vertiginoso. Maria Rosaria Boccia è diventata l’eroina involontaria di un dramma politico che sembra uscito da un film di serie B, una specie di V per Vendetta senza la maschera, di Robin Hood delle sedotte e abbandonate.
Sangiuliano, nel frattempo, si dimena come un pesce fuor d’acqua. Alle domande precise di Gianmarco Chiocci, direttore del Tg1, non riesce a rispondere in modo convincente, anzi, riesce solo a peggiorare la sua situazione. Ripete che conosce Boccia da maggio, le dà implicitamente dell’impostora ma non la denuncia. E perché? Perché non può fermarla. E ora si scopre che Boccia potrebbe avere in mano qualcosa di molto più pericoloso delle semplici chat affettive: messaggi scambiati con altri ministri o addirittura con la premier. Giorgia Meloni, con che faccia può difendere ancora Sangiuliano?
E poi c’è la questione delle registrazioni audio. “Io non registro nessuno,” dice Sangiuliano, ma Boccia ha già dimostrato di avere registrazioni e di essere disposta a diffonderle. E mentre lui si ostina a dire che non è ricattabile perché non ha speso denaro pubblico, la verità è che basta poco per essere messi alle strette quando qualcuno ha in mano informazioni riservate.
Il governo è in panico. Delle chat affettive del Genny Delon della politica non importa a nessuno, ma se Boccia ha messaggi o registrazioni che coinvolgono altri ministri o la stessa Meloni, la faccenda si fa estremamente seria. Non aver saputo custodire queste informazioni è imperdonabile per un ministro della Repubblica. Si può escludere che Boccia abbia in mano indicazioni di nomina da parte della presidente del Consiglio? La risposta è no, e questo rende la situazione ancora più esplosiva.
Nel frattempo, il ministero della Cultura è in rovina, svillaneggiato e ridotto a un cumulo di macerie. Ogni giorno, Alessandro Giuli, il “quasi ministro” al quale perlomeno non manca lo stile, entra negli uffici e i dipendenti implorano: “Vieni, salvaci da questo incubo”. Ma Sangiuliano continua a imperversare, mostrando scontrini e ripetendo che ha pagato tutto di tasca sua. E la premier Meloni? Tiene ferme le dimissioni del ministro nel cassetto, ma per quanto ancora?
E la Meloni, con che faccia lascia umiliare mogli, compagne e donne come lei? In nome di chi? Come puoi difendere un ministro che ha perso ogni credibilità e che rischia di trascinare nel fango l’intero governo? La storia la sta facendo una donna sconosciuta che, piaccia o no, sta guadagnando sempre più consensi tra gli italiani. E se questa storia è una trappola tesa da Boccia, non è la ragazza a uscirne sporca, ma un ministro che si è rivelato inadeguato sotto ogni punto di vista.
È ora che Giorgia Meloni prenda una decisione. Il governo non può permettersi ulteriori imbarazzi. Sangiuliano deve andare, e deve farlo subito, prima che il danno diventi irreparabile. Ma, finché la premier continuerà a difendere l’indifendibile, sarà difficile per gli italiani credere che davvero si stia facendo la storia, piuttosto che assistere all’ennesimo capitolo di una commedia degli orrori.
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Sic transit gloria mundi
Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri
Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

Caro vicepresidente Vance,
le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.
Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.
Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:
- Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
- Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
- Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.
Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.
Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.
Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
Ma i suoi atti parlano di paura.
Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.
La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.
Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
Universale.
E Dio, per fortuna, resta di tutti.
Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.
Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.
Sic transit gloria mundi
Trump ribattezza Giorgia Meloni: “Georgia”, come lo Stato. Altro che alleanza speciale
Meloni vola alla Casa Bianca sognando l’asse sovranista, ma finisce archiviata da Trump come “Georgia”. Un errore? O il solito modo di umiliare gli interlocutori senza nemmeno sforzarsi di ricordare come si chiamano?

Tanto entusiasmo, tante strette di mano, tanti sorrisi. E alla fine, Giorgia Meloni è diventata… Georgia.
Donald Trump, fedele alla sua tradizione di finezza diplomatica, ha deciso di archiviare così l’incontro alla Casa Bianca: un post euforico su Truth in cui ribattezza la premier italiana con il nome di uno Stato americano. Una nuova perla per il tycoon, che dopo “Giuseppi” Conte firma un’altra memorabile gaffe da album.
«La premier Georgia Meloni ama il suo Paese. FANTASTICA!!!», scrive Trump, regalando alla storia la nuova caricatura di un rapporto che avrebbe dovuto sancire l’alleanza tra due campioni del sovranismo mondiale.
Ma che, a ben vedere, si è risolta come sempre in una scrollata di spalle americana: grazie del viaggio, cara, e ora vai a sistemarti nella collezione di “cosi” che ho incontrato.
Il paragone è inevitabile. Quando non ti ricordi il nome dell’amico del bar, lo chiami “coso”. Quando Trump non si ricorda (o non si sforza di ricordare) il nome di un capo di governo, lo ribattezza a piacere. E la leggerezza con cui liquida i suoi interlocutori non è mai casuale: è un modo per ribadire, senza troppi complimenti, chi conta davvero e chi invece no.
Giorgia, pardon, Georgia, si è presentata piena di buone intenzioni: dialogo transatlantico, negoziati sui dazi, mediazione con l’Unione europea. Peccato che, agli occhi di Trump, il suo destino si sia compiuto in cinque secondi netti: sorrisi, foto di rito, complimenti generici («una persona molto speciale»), e infine l’assegnazione del nuovo nome da battaglia.
Un destino comune a tutti quelli che orbitano, più o meno inconsapevoli, nell’universo egocentrico del tycoon.
E se Giuseppe Conte ha pagato “Giuseppi” con anni di scherni e meme, prepariamoci: “Georgia Meloni” diventerà il tormentone perfetto per gli avversari politici, i social, e magari anche per qualche editorialista poco incline all’ossequio.
Il più grande paradosso? Giorgia Meloni era partita per Washington con il sogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata della nuova destra americana. È tornata a casa con un nome nuovo, e nemmeno troppo originale.
Difficile costruire un asse sovranista quando il tuo presunto alleato non ti riconosce nemmeno al momento di taggare il post celebrativo.
Nel frattempo, Trump — che della politica internazionale ha la stessa visione con cui si sceglie il menù di un fast food — continua a inanellare lapsus che sono in realtà piccoli atti di dominio. Se ti chiamo con il nome sbagliato, dice implicitamente, non sei poi così importante.
E allora, che la premier italiana si chiami Giorgia, Georgia o semplicemente “coso”, poco importa: l’importante è aver fatto la foto, aver raccolto gli applausi dei sostenitori e aver confermato, ancora una volta, che tra Washington e Roma la distanza non è solo geografica.
È anche — e soprattutto — gerarchica.
Sic transit gloria mundi
Giorgia Meloni regala la Nutella a re Carlo: “Se sei giù, aprila”
Durante la cerimonia dei Premi Leonardo, Giorgia Meloni ha svelato il retroscena del simpatico regalo a re Carlo: un barattolo di Nutella come simbolo della qualità italiana. Un gesto apprezzato dal sovrano, grande amante dei sapori del nostro Paese.

Un barattolo di Nutella come antidepressivo reale. Giorgia Meloni ha scelto un gesto tanto curioso quanto efficace per conquistare re Carlo III durante la sua recente visita ufficiale in Italia. A raccontarlo è stata la stessa premier, intervenendo a Villa Madama durante la cerimonia dei Premi Leonardo, davanti a una platea che ha sorriso di gusto.
«Quando Pietro Ferrero ha iniziato a produrre la pasta gianduiotto nella sua Topolino, non avrebbe mai immaginato che un giorno il primo ministro italiano avrebbe regalato un barattolo di Nutella al re d’Inghilterra», ha dichiarato Meloni, rivelando così il simpatico retroscena della visita ufficiale a Villa Pamphilj.
Il dono, però, non era soltanto un omaggio goloso. Accompagnato da un biglietto scritto di suo pugno, la presidente del Consiglio ha voluto aggiungere un tocco personale, suggerendo “istruzioni per l’uso” da vero manuale della felicità: «In una domenica di pioggia, se dovessi essere un po’ giù di corda, indossa il tuo miglior pigiama, siediti sul divano, accendi la serie tv che volevi vedere da tanto tempo, prendi un cucchiaino e apri questo regalo: ti sentirai meglio».
Un modo semplice, ma efficace, per raccontare al sovrano britannico l’anima dei prodotti italiani: non solo eccellenza gastronomica, ma emozioni vere, capaci di scaldare il cuore. «I prodotti italiani si affermano nel mondo perché fanno bene anche all’anima», ha sottolineato Meloni. «Non vincono sul prezzo, ma sulla qualità».
Il regalo ha strappato un sorriso divertito a re Carlo, da sempre estimatore della cucina italiana. Non a caso, solo qualche settimana prima nella sua residenza di Highgrove aveva organizzato una cena dedicata interamente ai sapori del Belpaese. E durante il suo recente discorso davanti alle Camere riunite del Parlamento italiano, il sovrano aveva persino scherzato: «Spero possiate perdonarci se a volte corrompiamo la vostra cucina. Lo facciamo con il massimo affetto possibile».
Il soggiorno romano di Carlo e Camilla è stato all’insegna della buona tavola. La terza giornata si è chiusa con una cena di gala al Quirinale, in cui i piatti italiani sono stati protagonisti assoluti. E non sono mancate incursioni golose anche fuori programma: passando davanti alla storica gelateria Giolitti, i sovrani si sono lasciati tentare. Nonostante la folla li abbia trattenuti dall’entrare, i gelatai hanno servito loro una coppetta di gelato al caramello direttamente all’esterno. Un gesto spontaneo, accolto con sorrisi e gratitudine.
Il barattolo di Nutella, dunque, non è stato solo un regalo simpatico, ma un piccolo simbolo di quell’Italia che Carlo ama e conosce bene: un’Italia che sa unire eccellenza gastronomica, tradizione e quella capacità tutta nostrana di rendere ogni incontro un’occasione di gioia.
E, chissà, forse davvero, in un pomeriggio di pioggia, il re d’Inghilterra seguirà le istruzioni di Giorgia Meloni: pigiama, serie tv e un cucchiaino di dolcezza tutta italiana.
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