Sic transit gloria mundi
Matteo Salvini e il populismo da discount sull’ergastolo a Filippo Turetta
Matteo Salvini commenta la condanna all’ergastolo di Filippo Turetta con l’ennesima uscita becera: «Ora obbligo del lavoro duro in carcere». Un esempio perfetto di come tacere, a volte, sarebbe l’unica risposta dignitosa.
Matteo Salvini non resiste mai. È come se avesse un radar per individuare i cadaveri simbolici sui quali volteggiare, pronto a sfoderare il suo repertorio di frasi ad effetto, sempre al limite tra la banalità e il cattivo gusto. Questa volta, il vicepremier ha deciso di ergersi a portavoce del giustizialismo più becero, commentando la condanna all’ergastolo di Filippo Turetta per l’omicidio di Giulia Cecchettin con una perla che merita l’etichetta di stupidaggine del giorno: «Giusto così. Ora obbligo del lavoro duro in carcere».
La frase, buttata lì con il solito piglio da “uomo della strada”, ha l’incredibile capacità di mancare il punto. Sì, perché di fronte alla dignità e alla compostezza di un padre come Gino Cecchettin, che ha commentato la sentenza con un doloroso «Abbiamo perso tutti», Salvini sceglie di soffiare sul fuoco del populismo, dimostrando ancora una volta di essere più interessato ai titoli di giornale che alla sostanza dei fatti.
Quando tacere sarebbe un’arte
La tragedia di Giulia Cecchettin ha scosso il Paese, unendo le persone in un dolore collettivo che richiede rispetto e silenzio, non slogan. Ma Salvini, evidentemente, non riesce a distinguere tra il momento di riflettere e quello di parlare. Perché il lavoro in carcere? Perché dirlo ora, subito dopo una sentenza che, per la famiglia della vittima, è stata già difficile da accettare, priva com’è dell’aggravante della crudeltà?
La sua uscita non è solo inopportuna, è anche pericolosamente vuota. L’ergastolo è già la massima pena prevista dal nostro ordinamento. Aggiungere l’idea del “lavoro duro” è solo una trovata per strizzare l’occhio a chi ama le frasi fatte e pensa che la giustizia debba somigliare a un film di vendetta.
Salvini e il marketing del dolore
C’è qualcosa di profondamente disturbante in questa costante necessità di Salvini di mettere bocca in ogni tragedia nazionale, trasformandola in un’occasione di visibilità. È come se la sofferenza altrui fosse per lui un megafono politico, un palcoscenico su cui recitare il solito copione populista.
Ma c’è una domanda che resta senza risposta: Salvini, cosa hai da dire davvero? Qual è il tuo contributo alla riflessione su un dramma così complesso come quello dei femminicidi? Perché, a giudicare da questa ultima uscita, l’unico messaggio che passa è che tu, ancora una volta, non hai resistito alla tentazione di parlare per il gusto di farlo.
Il limite del buon gusto
Questa vicenda meriterebbe un silenzio rispettoso, non il commento di un vicepremier che, per l’ennesima volta, dimostra di non sapere quando fermarsi. Salvini, l’ergastolo non è tuo da approvare né da rendere più “accettabile” per i tuoi seguaci sui social. È una sentenza di giustizia, non un titolo da clickbait. La prossima volta, prova a tacere. Sarebbe un gesto rivoluzionario.
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Giuseppi e il “pacifismo del nulla”: quando la politica diventa una barzelletta
Giuseppi dice che avrebbe “tartassato Putin di telefonate” per convincerlo a sedersi al tavolo della pace. Ma dietro la comicità involontaria, emerge un pacifismo privo di contenuti, utile solo per prendere voti.
Giuseppe Conte, agli Stati Generali della Ripartenza, ha regalato al mondo una perla di politica surreale. “Se fossi stato al governo, avrei tartassato Putin di telefonate per convincerlo a fare la pace”, ha dichiarato con quella solennità che lo contraddistingue, come se bastasse il suo tono accademico a rendere credibile l’idea di un dittatore del calibro di Putin, seduto alla scrivania, che risponde al telefono dicendo: “Oh, finalmente, Giuseppi! Non sai quanto aspettavo una tua chiamata per fermare tutto!”
Siamo seri, Giuseppi. Davvero pensavi che bastasse fare il molestatore telefonico per risolvere la crisi più grave del nostro tempo? La dichiarazione, diventata subito virale, ha suscitato più risate che riflessioni, e non a torto. Ma dietro il lato comico di questa uscita c’è qualcosa di più grave: la rappresentazione plastica di un pacifismo vuoto, da slogan, che non propone soluzioni ma cerca consensi.
Il pacifismo dei politicanti
Volere la pace è un sentimento nobile, ma è anche il minimo sindacale. Non c’è bisogno di essere un grande statista per dire che una guerra è brutta e che sarebbe meglio fermarla. Ma Giuseppi, come certi “grandi” pacifisti alla Santoro e Rizzo, non si limita a predicare la pace: la trasforma in uno strumento per raccattare voti.
La domanda resta: qual è la soluzione di questi politici per fermare la guerra? Svendere l’Ucraina? Dire a Putin che può prendersi tutto quello che vuole purché smetta di bombardare? Oppure, e qui il genio, tartassarlo di telefonate come una versione geopolitica dello spot Mi ami? Ma quanto mi ami?.
La politica come narcisismo
L’episodio rivela anche il narcisismo di un leader che si vede come il grande risolutore di crisi globali, ignorando che un dittatore con la mania di potenza non si lascia convincere da chi non ha più nemmeno i bottoni del potere. Il pacifismo di Giuseppi non ha contenuti perché non cerca soluzioni reali, ma emozioni facili. È il pacifismo del “voler essere amati”, della pubblicità e dei social, non della politica seria.
Un consiglio a Giuseppi
Giuseppi, se vuoi davvero un ruolo nella politica internazionale, inizia a proporre idee vere. La pace non si fa a suon di telefonate, e di certo non con battute da bar. La prossima volta che ti viene in mente di “tartassare Putin”, prova prima a pensare a un piano geopolitico che non sembri uscito da una sitcom. Altrimenti, la tua idea di politica resterà solo una grande, esilarante telefonata.
Sic transit gloria mundi
Sanremo 2025, chi sono i 30 Big di Carlo Conti: rapper alla conquista dell’Ariston, veterani pronti a incantare e giovani semi sconosciuti che sfidano i giganti
Dal ritorno di Massimo Ranieri e Marcella Bella al trionfo del rap con Fedez, Tony Effe ed Emis Killa, fino alle promesse come Sarah Toscano e Clara. Un mix esplosivo che guarda al futuro senza dimenticare la tradizione, mentre gli esclusi fanno già discutere.
«Finalmente potrò dormire… almeno fino a febbraio, perché poi sarà un delirio». Con una battuta, Carlo Conti ha chiuso l’annuncio dei 30 Big in gara al Festival di Sanremo 2025. Ora la parola passa alla musica. Ma se avete più di 40 anni, preparatevi a consultare Google. Non sarà per capire che giorno si terrà Sanremo 2025 (dal 5 al 12 febbraio, appuntatevelo), ma per scoprire chi siano almeno la metà dei 30 Big annunciati ieri. Il direttore artistico, chiamato a bissare i successi del Re Mida Amadeus, li chiama affettuosamente «un bouquet di fiori sanremesi», ma più che un mazzo di rose colorate, sembra una giungla tropicale, dove c’è davvero un po’ di tutto e convivono cantautori di culto, rapper esplosivi e giovani promesse di cui, ammettiamolo, non avete mai sentito parlare.
Ci sono i nomi attesi, i ritorni di peso e le new entry che faranno discutere. Fedez, ad esempio, torna all’Ariston con una canzone che Carlo Conti ha definito «molto personale». Peccato che tra i Big ci sia anche Tony Effe, noto per il suo caratterino e per i trascorsi burrascosi con il rapper milanese. Per settimane se le sono musicalmente suonate di santa ragione, insultandosi in ogni maniera possibile con termini e argomenti decisamente sopra le righe. Metterli sullo stesso palco (quello dell’Ariston) potrebbe essere un rischio. «Sono ragazzi intelligenti, canteranno e basta», rassicura Conti. Sì, certo, come no.
Poi ci sono gli habitué del Festival come Elodie, che di Sanremo ormai conosce ogni angolo. Achille Lauro, che deve dimostrare di saper sorprendere anche senza piume e lustrini, e Noemi, che, all’ottava partecipazione, spera di puntare dritta alla vittoria. Per bilanciare ci sono anche giovani talenti che puntano su un linguaggio più sofisticato. È il caso di Serena Brancale, cantautrice che mescola jazz, soul e R&B, e di Lucio Corsi, che con il suo stile retrò ha conquistato persino Carlo Verdone, il quale l’ha voluto nel suo “Vita da Carlo”. Sconosciuta ai più ma attesissima dai fan, Joan Thiele (che con Elodie firmò Proiettili per il film Ti mangio il cuore, premiato con il David di Donatello). Dalla tv arrivano anche Clara, star di Mare Fuori, Gaia e la giovanissima Sarah Toscano, finalista di Amici 2023, che sfida i veterani con la grinta dei suoi 18 anni.
E poi tanto, tanto (forse troppo) rap, che quest’anno va a cancellare completamente la quota rock, del tutto assente. Un chiaro segno che Conti vuole parlare alla Generazione Z, anche se il pubblico più tradizionalista potrebbe storcere il naso. Oltre a Fedez e Tony Effe, ci sono Emis Killa, Willie Peyote, Rkomi, Rose Villain, Rocco Hunt, Bresh e Olly (reduce dal duetto con Angelina Mango, Per due come noi). «È il momento di dare spazio alla musica che rappresenta i giovani», ha detto Conti. Il messaggio è chiaro, ma forse sarà il pubblico over 40 a rumoreggiare in sala di fronte a un tale proluvio di parole in rima.
A far da contraltare, ecco la quota “senior” che dovrebbe garantire qualità e melodia. Sanremo non sarebbe Sanremo senza un pizzico di nostalgia. Non mancano i grandi ritorni, a cominciare da Massimo Ranieri, che, a 78 anni, si prepara a incantare il pubblico con la sua voce e il suo carisma. Accanto a lui, Marcella Bella, che, a 72, promette di riportare sul palco un po’ di quell’eleganza che troppo spesso manca al Festival. A dar loro manforte Giorgia, che passa dalla conduzione di X Factor al palco più iconico d’Italia, e il calabrese Brunori Sas, a sorpresa nel cast. Una scelta che farà felici gli amanti del cantautorato di alto livello.
Non mancano i volti noti al pubblico sanremese. Simone Cristicchi, Francesco Gabbani, Francesca Michielin e i Modà sono pronti a tornare, mentre Irama, i Coma_Cose e i The Kolors cercheranno di consolidare il loro successo. E poi Shablo, che con Guè, Joshua e Tormento porta una collaborazione interessante quanto rischiosa. Il pubblico sanremese saprà apprezzare?
E poi ci sono loro, i grandi esclusi, che si fanno notare quasi quanto i Big in gara. I Jalisse, bocciati per la 28esima volta, hanno scelto l’autoironia. «Neanche quest’anno siamo a Sanremo, brindiamo. Che vuoi fa’?». Con due birre e un sorriso, si confermano i campioni della resilienza.
Amedeo Minghi, invece, ha condiviso la lista dei Big sui social, chiedendo polemicamente ai fan cosa ne pensassero. La risposta? Centinaia di messaggi, solidarietà e nostalgia, ma niente Ariston per il cantautore. Al Bano, che sperava di chiudere la carriera con un’ultima partecipazione, si è limitato a un glaciale «no comment». Ma chi lo conosce rivela che ci è rimasto male, molto male.
Spariti nel nulla, invece, i veri big come Tiziano Ferro, Gianna Nannini e Blanco, più volte chiamati in ballo nel Toto-Sanremo delle ultime settimane, ma che restano purtroppo delle semplici suggestioni. A meno di non ritrovarceli tra gli ospiti… ma questa è un’altra storia.
Sic transit gloria mundi
Ecco i Figli delle stelle: i nostalgici del M5S che sfidano Conte e sognano di riportare in vita i valori di Grillo e Casaleggio
Con un simbolo evocativo delle origini e un manifesto che richiama i valori fondanti, l’associazione “Figli delle stelle” nasce per sfidare Conte e riportare il Movimento 5 Stelle ai principi di Grillo e Casaleggio. I ribelli, nostalgici del doppio mandato e della partecipazione diretta, promettono democrazia e trasparenza, ma rischiano di restare un’eco del passato in un panorama politico sempre più frammentato.
Era il 1977 quando Alan Sorrenti faceva ballare l’Italia al ritmo di Noi siamo figli delle stelle. Parole che cantavano di sogni, libertà, e un’utopia senza confini. In quello stesso anno, un giovane Beppe Grillo, fresco di abbandono del mestiere di rappresentante di commercio e del lavoro nell’azienda di famiglia, si stava affacciando timidamente al mondo dello spettacolo. Fu un provino improvvisato a cambiare la sua vita: in un cabaret milanese chiamato La Bullona, Pippo Baudo lo notò e lo lanciò in televisione. Grillo, che fino ad allora si faceva chiamare “Giúse” dagli amici, diventò “Beppe Grillo” su suggerimento dello stesso Baudo, che lo inserì nel gioco a quiz Secondo voi. Era l’inizio di una carriera destinata a lasciare il segno.
Mentre Grillo calcava i palchi di Luna Park e Fantastico, il Movimento 5 Stelle non esisteva nemmeno come idea lontana. Nessuno avrebbe immaginato che quel comico genovese, famoso per i suoi monologhi irriverenti, avrebbe un giorno fondato una forza politica capace di scompigliare i tradizionali equilibri italiani. Né che, più di quattro decenni dopo, si sarebbe ritrovato al centro di una guerra intestina per il controllo di un Movimento che ormai sembra più un campo minato che un progetto unito.
E proprio oggi, i nostalgici delle origini, quelli che vedono in Grillo e Casaleggio i veri guardiani dello spirito pentastellato, hanno dato vita ai “Figli delle stelle”, quelli che non accettano le novità introdotte da Conte e sognano un ritorno ai tempi d’oro, quando “uno valeva uno” e il doppio mandato era legge sacra. Un nome che richiama allegria e spensieratezza, ma che, in realtà, segna l’ennesima crepa in un Movimento ormai esploso in mille pezzi. Non siamo più nei tempi delle piazze piene e delle battaglie contro i partiti tradizionali: oggi il M5S sembra un condominio litigioso, dove ognuno cerca di intestarsi l’eredità di Casaleggio e Grillo, mentre Conte prova a mantenere un minimo di ordine.
E così, mentre il Movimento prepara il suo ennesimo voto online per cercare di legittimare le modifiche statutarie volute da Conte, spuntano loro, i “Figli delle stelle”. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: “Garantire la sopravvivenza e la diffusione dei valori del vero Movimento”. Tradotto: dare fastidio a Conte e ricordare al mondo che, una volta, il M5S era qualcosa di diverso.
A guidare questa nuova galassia è Alessia De Caroli, che, insieme ad altri attivisti, ha già fatto parlare di sé durante la Costituente, contestando apertamente i vertici del Movimento. La De Caroli è stata chiara: «Vogliamo essere un punto di riferimento per chi si è sentito tradito». E il tradimento, per loro, ha un nome e un cognome: Giuseppe Conte. Non che lo dicano apertamente, ma basta leggere tra le righe del loro manifesto per capire dove vogliono andare a parare.
Il simbolo dell’associazione richiama ovviamente le cinque stelle originali, quelle che un tempo rappresentavano i pilastri del Movimento: acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo. Ma il vero pilastro, almeno secondo i “Figli delle stelle”, è il ricordo di Gianroberto Casaleggio. Ogni frase, ogni slogan, ogni dichiarazione sembra un omaggio al fondatore, quasi fosse una figura mitologica da venerare. «Ci ispiriamo al suo pensiero», dicono, e non c’è dubbio che il nome di Casaleggio sia uno dei pochi collanti che tengono insieme questa nuova iniziativa.
Il bersaglio principale resta però Conte, colpevole, secondo loro, di aver tradito i principi fondanti del Movimento. La regola del doppio mandato, abolita sotto la sua leadership, è uno dei temi che scatenano più indignazione. Per i “Figli delle stelle”, quella regola era un baluardo contro il carrierismo e la politica di professione. Abolirla significa, secondo loro, aprire le porte al clientelismo e alla perdita di identità del Movimento. «Noi ripudiamo ogni visione carrieristica», tuonano, cercando di rivendicare una purezza che, però, nella realtà del M5S è sempre stata un po’ opaca.
Non mancano poi le critiche al processo decisionale interno al Movimento, che definiscono «poco trasparente» e privo di una vera partecipazione. La Costituente, che doveva essere un momento di condivisione e di rilancio, è stata per loro un fallimento: «Non si può votare in un contesto del genere», dice la De Caroli, lasciando intendere che, per i “Figli delle stelle”, la strada intrapresa da Conte è sbagliata fin dalle fondamenta.
E Grillo? Per ora resta ai margini, impegnato nella sua battaglia personale con il perfido Giuseppi. La De Caroli assicura che il garante non ha nulla a che fare con l’associazione, ma non nasconde il desiderio di coinvolgerlo. «Saremmo onorati di incontrarlo», dice, lanciando un messaggio neanche troppo velato. Il problema, però, è che Grillo sembra più interessato a destabilizzare Conte che a sposare nuove iniziative. Il suo silenzio può essere letto come un segnale di approvazione, ma anche come un invito a non disturbare troppo.
Intanto, i “Figli delle stelle” si organizzano. Hanno un consiglio di facilitatori (sì, si chiamano così) e un programma che punta a coinvolgere i giovani, promuovere i diritti umani e sviluppare la partecipazione democratica. Dichiarazioni altisonanti, che ricordano i vecchi slogan del Movimento, ma che sembrano difficili da concretizzare in un contesto politico ormai saturo di divisioni.
Quello che è certo è che il Movimento 5 Stelle, nato come una forza dirompente e rivoluzionaria, oggi assomiglia sempre più a un puzzle con pezzi mancanti. Da una parte c’è Conte, che prova a governare le macerie con un approccio più istituzionale; dall’altra ci sono i nostalgici come i “Figli delle stelle”, che guardano al passato con una malinconia quasi poetica. E nel mezzo c’è Grillo, che si diverte a fare il burattinaio, muovendo i fili senza mai esporsi troppo.
Chissà cosa penserebbe Alan Sorrenti di tutto questo. Forse, se fosse invitato a una riunione dei “Figli delle stelle”, canterebbe ancora quel ritornello, ma con un pizzico di ironia in più. Perché, in fondo, i sogni sono belli, ma trasformarli in realtà è tutta un’altra storia. E in questo caso, sembra che il pericolo maggiore sia quello di bruciare nel vuoto, come una meteora che attraversa il cielo senza lasciare traccia. Quasi come diceva la canzone: “Ci incontriamo per poi perderci nel tempo”. E forse, a ben vedere, è proprio quello che rischiano di fare.
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