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Sic transit gloria mundi

Quando Benigni smonta il nazionalismo: l’Europa è un sogno, non una minaccia

Mentre la premier Meloni piega il Manifesto di Ventotene alla sua narrazione, Benigni illumina la prima serata Rai con un monologo potente: l’Unione europea come baluardo contro le guerre e i muri del nazionalismo. Una lezione d’amore e di libertà che spazza via ogni retorica.

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    I sogni hanno sempre quella capacità beffarda di arrivare quando meno te li aspetti. A volte coincidono con la realtà, e a volte la smentiscono. E allora accade che, mentre Giorgia Meloni in Parlamento storce il naso sul Manifesto di Ventotene, come se stesse parlando di una favola scritta per ingenui, Roberto Benigni – in eurovisione, sulla Rai di Stato – restituisce al pubblico italiano e a milioni di cittadini europei la vera grandezza di quel sogno.

    Sì, perché l’utopia di Spinelli, Rossi e Colorni – uomini che la libertà l’hanno immaginata da un carcere fascista – non è una paginetta da archiviare come “retorica da globalisti”. È l’atto di nascita di un’Europa che, tra mille contraddizioni, ha provato a guarire le ferite delle sue guerre e dei suoi totalitarismi. Un’Europa che ha cercato di non farsi più dominare dall’ossessione per la frontiera e dalla paura del diverso.

    Ecco, Benigni l’ha raccontata con la grazia e l’ironia che gli riconosciamo da sempre, ma con il passo fermo di chi sa che questo è il tempo giusto per ricordare certi valori. La Rai, di certo, non aveva calcolato l’effetto di questo tempismo micidiale: da una parte la presidente del Consiglio che legge Ventotene come se fosse un fastidioso documento di altri tempi; dall’altra l’artista che, in prima serata, ribadisce che l’Unione Europea è una delle invenzioni più straordinarie della storia contemporanea.

    Ma il punto non è solo questo. È che l’intervento di Benigni è stato tutto fuorché evasivo: ha messo il dito nella piaga, parlando di nazionalismi che si travestono da patriottismo e di politiche che si nutrono di paure. Ha citato Walter Benjamin e ha ricordato a un Paese assopito che la paura genera le peggiori follie umane. Un comico, sì. Ma qui il clown non faceva ridere: faceva pensare.

    Mentre Meloni, con l’aria di chi deve liberarsi di un fardello ingombrante, liquidava Ventotene come un testo manipolabile a uso e consumo del presente, Benigni ne ha ripreso l’essenza vera: il coraggio di un’Europa federale, capace di unirsi senza violenza, di mettere al centro l’uomo e non solo lo Stato-nazione.

    Non so se in via Teulada fossero davvero consapevoli della portata del messaggio. Forse è stato solo un miracolo del palinsesto. Ma tant’è: il risultato è che ieri sera l’Italia ha ascoltato, seduta davanti alla tv, due narrazioni opposte. Da un lato, la nostalgia per la vecchia fortezza assediata. Dall’altro, l’invito a immaginare ancora l’Europa come un sogno possibile.

    E quando accade questo, quando un artista riesce a fare educazione civica meglio di una lezione scolastica, vuol dire che un pezzo di servizio pubblico – magari a sua insaputa – ha fatto centro. Per una volta, lasciando da parte i siparietti e i fronzoli.

    Benigni non è più da anni quel giullare scatenato che faceva arrossire l’Italia democristiana. Ma oggi, davanti a questa crisi di valori collettiva, riesce ancora ad accendere le luci dove altri si limitano a spegnerle. E chissà che, tra i sorrisi e l’emozione, qualcuno ieri non abbia finalmente capito perché Ventotene è tutto fuorché carta straccia.

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      Trump contro la diversità, lettere dagli Usa alle aziende italiane: “Niente appalti a chi la promuove”

      Dopo Francia e Spagna, anche le aziende italiane ricevono richieste dagli Usa per rinunciare ai criteri di “Diversità, Equità e Inclusione” pena la perdita di appalti. Una regressione culturale che suscita indignazione e proteste in Europa, dove le interferenze americane sono considerate inaccettabili.

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        La crociata anti-diversità dell’amministrazione Trump varca l’Atlantico e irrompe direttamente nelle aziende italiane. Con una lettera che sta suscitando polemiche e sconcerto, l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma ha iniziato a chiedere ai fornitori locali di beni e servizi di rinunciare ufficialmente alle politiche aziendali basate su “Diversità, Equità e Inclusione” (Dei), pena la perdita di contratti e appalti con Washington. Una misura che arriva dopo analoghe comunicazioni già inviate a società in Francia e Spagna.

        Alla base di tutto c’è un ordine esecutivo firmato da Donald Trump il 21 febbraio scorso che definisce “illegali, degradanti e immorali” tutte le misure di favore legate a diversità, genere, etnia e disabilità. Trump sostiene che queste politiche, lungi dal favorire l’equità, minino l’unità nazionale americana, danneggiando valori quali “duro lavoro, eccellenza e risultati individuali”.

        L’ambasciata americana di via Veneto si è rifiutata di commentare specifiche operazioni, limitandosi a confermare che tutte le azioni diplomatiche sono conformi alle procedure del governo statunitense. Una posizione coerente con quella già assunta dalle sedi diplomatiche Usa a Madrid e Parigi, dove le lettere inviate alle aziende locali sono state accompagnate da richieste esplicite di chiarimenti dettagliati qualora queste si fossero rifiutate di sottoscrivere la rinuncia ai criteri Dei.

        In Francia, il ministero del Commercio estero ha definito “inaccettabili” le interferenze americane, definendole una grave ingerenza nella sovranità delle imprese e minacciando ritorsioni commerciali. Lo stesso scenario si preannuncia ora in Italia, dove la diffusione delle comunicazioni americane rischia di creare non pochi problemi ai rapporti commerciali.

        Al centro della questione c’è la visione fortemente divisiva di Trump, che ha ordinato a tutte le agenzie federali di eliminare qualunque misura basata su principi di diversità e inclusione, da lui bollati come discriminatori. Una direttiva che colpisce persino istituzioni come la CIA, che negli anni avevano adottato questi criteri.

        Di fatto, la decisione Usa rappresenta una brusca inversione di rotta rispetto ai progressi fatti negli ultimi decenni sul fronte della tutela dei diritti e dell’inclusività. Una regressione culturale che trova ampio dissenso in Europa, dove le politiche Dei sono considerate non soltanto legittime, ma necessarie per garantire equità e pari opportunità in società complesse e multiculturali.

        Resta ora da vedere se le aziende italiane piegheranno il capo alle pressioni di Washington o se emergerà una risposta compatta delle istituzioni europee per difendere quei valori di civiltà che sembravano ormai acquisiti.

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          Sic transit gloria mundi

          “Il Papa sapeva di poter morire”: il racconto drammatico del medico che l’ha salvato

          Sergio Alfieri, il chirurgo che ha seguito il Pontefice per 38 giorni durante il ricovero d’emergenza al Gemelli, racconta i momenti più critici e le due crisi respiratorie in cui si temeva il peggio. “Disse: non molliamo. Poi offrì la pizza ai medici.”

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            “È brutto”. Così, in un pomeriggio di fine febbraio, Papa Francesco rompe il silenzio mentre fatica a respirare. Siamo al 28 febbraio, e il Pontefice è ricoverato al Gemelli da quattordici giorni. Un broncospasmo lo colpisce all’improvviso, provocandogli fame d’aria. Chiede aiuto.

            “Sì, quello è stato il momento peggiore”, confessa il professor Sergio Alfieri, coordinatore dell’équipe medica che ha curato il Papa per 38 giorni. “Per la prima volta ho visto le lacrime agli occhi ad alcune persone che stavano intorno a lui. Persone che, ho compreso in questo periodo, gli vogliono sinceramente bene, come a un padre. Eravamo tutti consapevoli che la situazione si era aggravata e c’era il rischio che potesse non farcela”.

            A quel punto, il dilemma. “Dovevamo scegliere se fermarci e lasciarlo andare oppure tentare con tutte le terapie e i farmaci possibili, correndo il rischio di danneggiare altri organi. Alla fine abbiamo preso questa strada”.

            Chi decise? “Decide sempre il Santo Padre. Ha delegato ogni tipo di scelta sanitaria a Massimiliano Strappetti, il suo assistente sanitario personale che conosce perfettamente le sue volontà”. Ma Francesco fu chiaro: “Provate tutto, non molliamo”. E nessuno mollò.

            Il Papa era consapevole? “Sì, sempre. Anche nei momenti più gravi era vigile. Quella sera fu terribile. Sapeva, come noi, che poteva non superare la notte. E ha voluto da subito che gli dicessimo la verità”.

            Ci fu un’altra crisi. “Stavamo uscendo dal periodo più duro. Mentre mangiava ha avuto un rigurgito e ha inalato. In questi casi si rischia la morte improvvisa. Fu terribile. Pensammo davvero di non farcela”.

            Francesco, anche in quell’occasione, era lucido. “Ce lo ha detto: si rendeva conto di tutto. Credo che la sua consapevolezza lo abbia tenuto in vita. Mi disse: ‘Ho metodo e regola’. Ha risorse incredibili, oltre a un cuore fortissimo”.

            Il 14 febbraio si convinse a ricoverarsi. “Stava male da giorni, ma resisteva per rispetto degli impegni del Giubileo. Quando cominciò a respirare male capì che non poteva più aspettare. Arrivò sofferente, ma in poche ore aveva già ritrovato il buon umore”.

            E non perse l’ironia. “Una mattina lo salutai: ‘Buongiorno Santo Padre’. Mi rispose: ‘Buongiorno Santo Figlio’. Era il suo modo di dire che si sentiva meglio. Il fisico affaticato, ma la testa è quella di un cinquantenne”.

            Il Papa cercò gli altri pazienti. “Appena si è sentito meglio, ha voluto girare per il reparto. Non voleva che si chiudessero le stanze. Ha cercato gli sguardi degli altri malati. Un giorno è uscito dalla sua stanza cinque volte, forse di più”.

            E poi, la pizza. “Diede dei soldi a un collaboratore e offrì la pizza a chi lo aveva assistito. Quando mi disse ‘Sono ancora vivo, quando torniamo a casa?’, capii che aveva deciso di rientrare. Il giorno dopo si affacciò alla finestra, cercò il microfono e parlò con la signora con i fiori gialli”.

            Il Papa sapeva che alcuni lo credevano morto? “Sì, era informato. E ha reagito con la solita ironia”.

            Che cosa ricorda di più? “Quando, nel periodo più difficile, mi stringeva la mano per qualche minuto come a cercare conforto”.

            Ora il Papa è a casa, ma con prescrizioni: “Due mesi di convalescenza protetta. Deve evitare contatti con gruppi o bambini. Quando è andato via ci siamo promessi di non sprecare la fatica fatta. Ma lui è il Papa: non siamo noi a dettare i comportamenti”.

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              Sic transit gloria mundi

              Tesla sotto assedio: incendi, svastiche e boicottaggi. È bufera mondiale su Musk, “l’imperatore dell’autogol”

              Dopo l’Oregon, anche Francia, Paesi Bassi e Australia si ribellano. Sui social piovono accuse di “fascismo” contro Elon Musk. Intanto il titolo crolla e le vendite in Europa registrano un tonfo senza precedenti. E persino i suoi stessi dipendenti lo sfidano in fabbrica

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                Tesla è sotto attacco. Non solo a parole, ma con gesti eclatanti. Scritte violente, auto imbrattate o incendiate e persino bombe molotov: la protesta globale contro Elon Musk e le sue “nazi-car”, come ormai vengono ribattezzate da chi le contesta, ha assunto le sembianze di una vera e propria guerriglia. E no, questa volta non si tratta di qualche flame su X, il social di Musk, ma di una catena di episodi concreti, tra Stati Uniti, Australia ed Europa.

                Tutto comincia il 20 gennaio a Salem, Oregon, dove un concessionario Tesla viene attaccato nel cuore della notte. Bottiglie incendiarie vengono lanciate contro le vetrine e le auto esposte. I danni superano il mezzo milione di dollari. Ma è solo l’inizio: da quel momento i raid si susseguono uno dopo l’altro, tra incendi dolosi, pneumatici rubati e auto Tesla imbrattate con escrementi, vernice rossa e insulti che evocano il nazismo.

                Le immagini delle Tesla marchiate con svastiche o imbrattate di fango e formaggini fanno il giro del mondo. A Seattle vanno in fumo quattro Cybertruck; a Tigard, ancora in Oregon, vengono esplosi colpi d’arma da fuoco contro uno showroom. In Australia compare su una vetrina la scritta «vuoi davvero guidare una swasticar?»; in Olanda, il messaggio è ancora più esplicito: «Fuck off fascist». A Tolosa, in Francia, vengono incendiate una dozzina di Tesla parcheggiate fuori da un concessionario.

                Ma la bufera non si ferma qui. Elon Musk, nel frattempo, sembra fare di tutto per buttare benzina sul fuoco. Su X arriva l’ennesimo scivolone: un post che solleva Hitler, Stalin e Mao dalle responsabilità delle loro stragi, attribuendole ai burocrati. Una provocazione che rinfocola le critiche e alimenta la rabbia dei contestatori. “Musk si vanta di poter spegnere Starlink con un bottone, davvero gli lascereste in mano anche la vostra auto?”, scrivono in molti sotto l’hashtag #boycottTesla. E sui social, insieme al meme del “Musk con la mano tesa”, spunta pure lo slogan più ripetuto dai contestatori: «Non comprare una nazi-car».

                Nel frattempo, anche dentro Tesla le cose vanno male. Nella gigafactory di Berlino il sindacato IG Metall denuncia pratiche scorrette da parte dell’azienda che chiederebbe ai dipendenti di rivelare informazioni private sulle malattie, violando la loro privacy. Un ulteriore scossone per un’azienda in difficoltà.

                Il conto? Salato. Da inizio 2025, le azioni Tesla hanno perso oltre il 40% del valore, scendendo bruscamente dopo i record toccati a dicembre. Il mercato europeo è in caduta libera: -76% di vendite in Germania a febbraio, -45% in Francia, -42% in Svezia. In Cina le consegne sono precipitate del 49%. La nuova Model Y non basta a risollevare le sorti del marchio e l’immagine di Musk, tra accuse di autoritarismo e autogol comunicativi, sembra più offuscata che mai.

                Ora anche le strade si ribellano. Gli showroom diventano bersagli e le Tesla parcheggiate finiscono nel mirino di chi non sopporta più l’impero Musk. Un imperatore senza festa, che rischia di veder evaporare il suo regno elettrico sotto il peso di un boicottaggio globale.

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