Sic transit gloria mundi

Selfie col Papa morto. Scusate, ma non meritiamo nemmeno l’Apocalisse

Non bastavano le dirette, i microfoni puntati ai passanti, le lacrime prefabbricate davanti alla Basilica. Adesso c’è anche la fila per il selfie col cadavere. Non per un saluto, non per pregare. Ma per “condividere l’esperienza” come se fosse un brunch con vista cupola. Ché se non lo posti, non è morto nessuno.

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    Un cadavere al centro della scena. Un corpo santo, riverito, amato, che ha guidato la Chiesa per oltre un decennio. E attorno, come mosche sul sacrario, si muove un’umanità deformata, irreversibilmente corrotta dal culto dell’apparenza. Altro che pellegrinaggio. Altro che raccoglimento. È la sagra del selfie post mortem.

    Il Papa è morto, viva il contenuto. Si entra in Basilica non per fede, ma per feed. Si sfila davanti alla salma di Francesco come in un’attrazione macabra da Luna Park liturgico, con decine di telefonini spianati, schermi accesi, occhi lucidi non per commozione ma per la saturazione dello schermo. Un addetto ogni metro bisbiglia “no foto, no video”, come un mantra disperato. Nessuno lo ascolta.

    Ci sono ragazze in posa con la boccuccia da duck face, signore che si immortalano col fazzoletto all’occhio, padri che riprendono i figli davanti al feretro come se fosse la giostra dei cavallini. C’è chi azzarda uno zoom, chi aggiusta la luce, chi chiede a un passante di scattare meglio. Come se dietro non ci fosse un Pontefice, ma una statua di cera da Madame Tussauds.

    È questo il nuovo culto: il cordoglio condiviso in stories da 15 secondi, magari con sottofondo musicale. “Ciao Francesco, mi mancherai 😢🙏” – emoji, filtro seppia, hashtag #PapaForever. Una preghiera non detta, ma taggata.

    Intorno, i microfoni delle tv infilano il naso ovunque, cacciando frasi da trafiletto e lacrime usa e getta. “Cosa significava per lei Papa Francesco?” chiede una giornalista con lo stesso tono con cui a Riccione ti domandano “Che crema prendi sul cono?”. La risposta è sempre uguale: “Un padre, un faro, un vuoto incolmabile”. Come se il dolore avesse un copione.

    Nel frattempo, chi ha superato il cordone delle troupe diventa a sua volta reporter di sé stesso. Impugna il telefono, si gira verso la camera, e immortala il momento più sacro e intimo di tutta la liturgia cristiana con la naturalezza di un ragazzino al concerto di Ultimo.

    E allora via alla processione di immagini: la salma, lo sfondo, il volto commosso ma ben inquadrato. Si fotografa il lutto, si monetizza l’assenza. Si incornicia la morte per mostrare che c’eravamo, che anche noi abbiamo visto, scattato, condiviso. Un’ostensione di narcisismo planetario, con la scusa della fede.

    Questo non è il funerale di un Papa. È il reality della nostra fine culturale. Il rogo dell’intimità, il tracollo del senso, l’ultima unzione del buon gusto. Non siamo più nemmeno capaci di tacere davanti a un morto, figuriamoci se possiamo capire cosa sia il sacro. La sola liturgia che conosciamo è quella del pollice sullo schermo.

    Davvero: che razza di umanità siamo diventati, se ci sentiamo in diritto di fare la gallery anche col pontefice defunto alle spalle? Dove pensiamo di arrivare con la nostra smania di esserci, anche nel lutto, anche nel dolore, anche davanti alla morte?

    Forse non ci meritiamo nemmeno l’Apocalisse. Forse meritiamo solo noi stessi. Con i nostri filtri, i nostri telefoni, i nostri selfie davanti all’Altissimo. Letteralmente.

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