Sic transit gloria mundi
Trump 2.0: il governo del grande ritorno (e dei grandi timori). Suprematisti, no vax e falchi… e c’è pure chi ha sparato a un cucciolo di cane.
Un governo che sembra scritto da un cattivo di James Bond: suprematisti bianchi, complottisti no vax, cacciatori di migranti, magnati delle trivelle e persino un’ammazza cuccioli. La squadra di Trump, tra nostalgie dell’estrema destra e tecno-miliardari, promette di trasformare l’America in un reality distopico. Politiche estreme, proclami roboanti e zero compromessi.
Donald Trump è tornato. Non che se ne fosse mai andato, sia chiaro. Ma il secondo mandato del tycoon promette di essere uno spettacolo ancora più estremo del primo, un cocktail micidiale di estremismo, provocazione e sfacciata propaganda. E il cast che ha scelto per questa nuova, distopica stagione politica? È un mix di figure ultraconservatrici, miliardari e fedelissimi. Con qualche presenza dirompente e con più di un’ombra nel passato (e nel presente). Un gruppo di ultras trumpiani che sono pronti a seguirlo in maniera incondizionata, senza troppe discussioni e, soprattutto, senza pensarci troppo su. Con la vittoria elettorale contro Kamala Harris, insomma, Donald Trump torna alla Casa Bianca più forte di prima, con un programma fatto di slogan e proclami perfetti per un post su X. Un bis che si preannuncia ancora più polarizzante del primo… Ma quali sono i profili di questo “dream team”? Ecco uno sguardo approfondito sulle scelte, tra ritorni, novità e polemiche. Tanto più che, com’era prevedibile, le sue scelte stanno già facendo discutere dentro e fuori gli Stati Uniti, promettendo un futuro pieno di incognite, colpi di scena e tensioni. Quello che appare subito certo è che ogni nome scelto sembra lanciare un messaggio chiaro: l’America di Trump vuole andare fino in fondo, senza compromessi. E senza concessione alcuna a quella metà degli americani che non l’ha votato e si prepara a subire quattro anni da incubo.
Stephen Miller, vice capo dello staff: il ritorno del suprematista
Cominciamo con Stephen Miller, il volto dietro alcune delle politiche più controverse del primo mandato Trump. Miller è la mente dietro il Muslim Ban, la tolleranza zero al confine e alle gabbie per i bambini migranti che hanno agghiacciato tutto il mondo. Ora sarà il vice capo dello staff, pronto a sfornare nuove idee che faranno impallidire i benpensati. Ma non preoccupatevi: Miller, noto suprematista bianco, questa volta indossa la veste da chierichetto e promette di essere “inclusivo”. Del suo club, ovviamente. Per gli altri nessuna pietà.
Elon Musk e Vivek Ramaswamy: il progetto DOGE
Ormai è risaputo. Trump ha affidato il nuovo Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE) a Elon Musk e Vivek Ramaswamy, che dovranno smantellare la burocrazia americana. Quale miglior modo di snellire il governo se non mettere al comando due miliardari ossessionati dai tagli e dalle criptovalute? Se il loro piano è efficiente come Twitter sotto Musk, gli americani possono prepararsi a lunghe file e al caos amministrativo totale. E che dire di Ramaswamy? Imprenditore nelle biotecnologie, ha un patrimonio stimato di 600 milioni di dollari. Avversario storico di ogni teoria di inclusione e di gender, si era presentato come candidato anti Trump (più a destra). Salvo poi passare dalla sua parte una volta sconfitto.
Lee Zeldin all’Ambiente: addio alla protezione del pianeta
Chi meglio di un convinto negazionista climatico per guidare l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente? Lee Zeldin, feroce oppositore delle politiche verdi, convinto assertore del ritorno ai combustibili fossili, è colui che guiderà gli USA verso il futuro ambientale. La sua prima mossa? Forse sostituire gli alberi con trivelle e trasformare i parchi nazionali in parcheggi per SUV. Le sue priorità sembrano puntare su una deregolamentazione aggressiva, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo economico. Ma a che prezzo? Gli ambientalisti temono che sotto la sua guida l’agenzia possa diventare un semplice strumento per gli interessi delle grandi industrie, mettendo a rischio i progressi fatti negli ultimi anni in materia di sostenibilità.
Robert F. Kennedy Jr., alla Sanità: il no vax alla guida della salute
E perché non mettere un no vax cospirazionista a capo della sanità? Robert F. Kennedy Jr., già abbandonato dalla sua stessa famiglia per le sue posizioni estreme, sarà il nuovo ministro della Salute. Immaginate il livello di sicurezza sanitaria negli Stati Uniti quando l’uomo che pensa che il virus non esiste e che i vaccini siano una cospirazione globale contro l’umanità dovrà gestire pandemie e crisi sanitarie. Non è chiaro se al giuramento porterà una mascherina o un cappello di carta stagnola anti-radiazioni.
Tom Homan all’immigrazione: il regista delle deportazioni
Trump lo ha promesso espressamente: assisteremo alla più grande deportazione di massa della storia. E se pensavate che fossero solo battute elettorali ed esagerazioni acchiappavoti, vi presentiamo Tom Homan, nuovo capo dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE). Con il suo entusiasmo per le deportazioni di massa, Homan promette di “risolvere” la questione migratoria mandando a casa quanta più gente possibile in pochi mesi. Un piano forse eccessivo, visto che ha già fatto una parziale marcia indietro: inizierà solo con i “criminali”. Peccato che per lui, essere un immigrato senza documenti sia già un crimine passibile di espulsione.
Elise Stefanik, ambasciatrice ONU: l’inesperienza come biglietto da visita
Nel delicatissimo ruolo di rappresentante degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, troviamo Elise Stefanik, fedelissima trumpiana nota per la sua abilità nel ripetere a pappagallo qualunque teoria complottista le venga servita. Vicinissima a QAnon (ebbene sì, quelli che credono che Hillary Clinton sia a capo di una setta satanica che si mantiene giovane bevendo il sangue dei bambini nello scantinato di una pizzeria), andrà a discutere all’Onu dei massimi sistemi. Con lei, la diplomazia americana si ridurrà a meme e tweet, probabilmente scritti in Comic Sans.
Kristi Noem: alla Sicurezza Interna l’ammazzacuccioli
Governatrice del South Dakota e fedelissima di Trump, è stata nominata segretaria alla Sicurezza Interna. Noem si è distinta per le sue posizioni ferme in materia di immigrazione e sicurezza. Tra le sue iniziative passate, il dispiegamento della Guardia Nazionale al confine con il Messico e il taglio di fondi per programmi inclusivi. La sua storia personale – come il racconto di aver sparato al suo cane da caccia, un cucciolo di 14 mesi che non voleva ubbidire – ha fatto discutere, ma per Trump è una scelta perfettamente in linea con la sua visione di un governo forte e deciso. Si spera che abbia più pietà per gli esseri umani che per i segugi, ma c’è chi ne dubita.
Mike Waltz, consigliere per la Sicurezza Nazionale: l’esperto di minacce globali
Nel ruolo chiave di consigliere per la Sicurezza Nazionale, Trump ha scelto Mike Waltz, deputato e veterano pluridecorato. Waltz porta con sé un’esperienza significativa in politica estera, ma anche una visione molto rigida sulle relazioni internazionali. È un sostenitore di un approccio più aggressivo verso la Cina e di una politica di deterrenza nei confronti di Russia e Iran. Noto per il suo approccio duro e per il suo sostegno a una politica di “pace attraverso la forza”, sotto la sua guida ci si aspetta un’intensificazione delle tensioni con la Cina, che Waltz considera la principale minaccia strategica per gli Stati Uniti.
Steven C. Witkoff: un magnate immobiliare alla prova del Medio Oriente
Donald Trump ha scelto Steven C. Witkoff, magnate immobiliare e filantropo, come inviato speciale per il Medio Oriente. Nonostante la sua esperienza limitata in politica estera, Trump lo ha definito “una voce instancabile per la pace”. Tuttavia, la sua prima dichiarazione sul conflitto israelo-palestinese ha già sollevato polemiche: “Non esiste la Cisgiordania, esistono solo Giudea e Samaria”. Una posizione che rischia di compromettere ogni tentativo di dialogo con i palestinesi. La nomina sembra più mirata a rafforzare il sostegno interno alle politiche pro-Israele che a costruire ponti nella regione. Con un incarico delicatissimo, Witkoff dovrà dimostrare se un uomo d’affari può trasformarsi in un efficace diplomatico.
Matt Gaetz: Ministro della Giustizia perfetto per Trump?
Chi meglio di Matt Gaetz, noto alle cronache per essere stato al centro di indagini federali e accuse infamanti, poteva guidare il Dipartimento di Giustizia nell’amministrazione Trump? Deputato della Florida e fedelissimo del tycoon, Gaetz è stato indagato per traffico sessuale, presunti rapporti con una minorenne e uso di droghe, sebbene nel 2023 il Dipartimento di Giustizia abbia deciso di non procedere con accuse formali. Le polemiche non si sono fermate: una Commissione Etica della Camera stava indagando su comportamenti inappropriati e regali non dichiarati, ma l’inchiesta è stata interrotta dopo le sue dimissioni nel 2024. Nonostante tutto, Trump ha elogiato la sua “determinazione a riformare il sistema giudiziario”, affidandogli un ruolo delicatissimo che, secondo molti, potrebbe accentuare le tensioni politiche piuttosto che risolverle.
Tulsi Gabbard: da Sanders a Trump, con l’agilità di una ballerina di liscio
Chi l’avrebbe mai detto che Tulsi Gabbard, paladina della sinistra estrema di Bernie Sanders, avrebbe fatto un salto acrobatico verso l’estrema destra di Donald Trump? Con la grazia di una ballerina di liscio, Gabbard ha abbandonato i Democratici nel 2022 per abbracciare posizioni ultraconservatrici: anti-aborto, anti-transgender e pro-muri di confine. Non contenta, ha consolidato il suo status di “trumpiana di ferro” lodando dittatori come Vladimir Putin e Bashar al-Assad. Ora, il tycoon la premia facendola sua consigliera speciale per la politica estera: un incarico perfetto per chi, come lei, ha sempre visto la diplomazia più come un optional che una priorità.
Marco Rubio: da “Little Marco” a Segretario di Stato, con inchino finale
Marco Rubio, una volta deriso da Trump come “Little Marco” durante le primarie del 2016, ha fatto la sua scalata verso la redenzione politica. Ora è il nuovo Segretario di Stato, un incarico di peso per uno che ha trascorso anni facendo il tifo per ogni guerra possibile, dalla Cina all’Iran, passando per l’Ucraina. Ex “neocon” a pieno titolo, Rubio ha imparato a mettere da parte i sogni da crociata globale per sposare il verbo trumpiano: meno Nato, più compromessi, e un bel “negoziato” per chiudere il capitolo Ucraina. Il primo ispanico a ricoprire questo incarico, Rubio è il perfetto esempio di come la politica estera americana possa oscillare tra il falco e l’opportunista, purché si rimanga nel solco di “America First”.
Susie Wiles: la “fanciulla di ghiaccio” al timone della Casa Bianca
Susie Wiles, prima donna a diventare capo dello staff della Casa Bianca, è l’arma segreta di Trump: discreta, silenziosa e letale. Dopo aver coordinato le campagne elettorali del tycoon dal 2016 con la freddezza di un cecchino, Wiles si è guadagnata il soprannome di “fanciulla di ghiaccio” direttamente dal suo capo, che l’ha celebrata durante il discorso della vittoria. Poco nota al grande pubblico, Wiles ha lavorato nell’ombra, evitando i riflettori e costruendo strategie che, piaccia o no, hanno funzionato. Ora sarà lei a gestire il caos organizzativo di una presidenza che promette di essere tutto fuorché tranquilla: un ruolo perfetto per chi ha fatto della compostezza glaciale la sua arma migliore.
Pete Hegseth: da Fox News al comando del Pentagono
Tra i nominati da Donald Trump, Pete Hegseth, giornalista e conduttore per Fox News, spicca come una scelta tanto controversa quanto prevedibile. Prima di essere scelto come capo del Pentagono, Hegseth ha lavorato per otto anni nel network conservatore, diventando uno dei volti più riconoscibili e una voce fervente a sostegno delle politiche “America First” di Trump. La sua transizione da opinionista televisivo a leader delle forze armate ha suscitato non poche polemiche, soprattutto per alcune dichiarazioni controverse, tra cui la sua opposizione alla presenza di donne in ruoli di combattimento. Durante la sua carriera militare, ha servito come ufficiale di fanteria nella Guardia Nazionale dell’Esercito, con missioni in Iraq, Afghanistan e Guantanamo Bay. Il suo passato non è privo di scandali: nel 2019, ha persuaso Trump a graziare due soldati americani condannati per crimini di guerra in Iraq, suscitando indignazione tra esperti militari e associazioni per i diritti umani.
Scott Bessent e Bill Hagerty: i custodi del Tesoro e della politica estera trumpiana
Per il Dipartimento del Tesoro, il nome più accreditato è quello di Scott Bessent, hedge fund manager e uno dei principali fundraiser di Trump. Ex consigliere economico, Bessent è noto per il suo sostegno ai dazi e alla politica economica protezionistica che ha caratterizzato il primo mandato del tycoon. La sua nomina rappresenterebbe un ritorno al “Trumpismo” economico puro: meno globalizzazione, più America First, e nessun timore di irritare i partner commerciali.
Nel frattempo, per incarichi chiave legati alla politica estera, emerge il nome di Bill Hagerty, senatore repubblicano del Tennessee ed ex ambasciatore in Giappone. Hagerty si è distinto per le sue posizioni dure contro la Cina e per il suo appello a tagliare immediatamente tutti gli aiuti a Kiev. Con la sua esperienza diplomatica e la sua fedeltà a Trump, Hagerty rappresenta la continuità perfetta per un’amministrazione che punta a ridefinire gli equilibri geopolitici mondiali a favore degli Stati Uniti.
La squadra di Trump per il secondo mandato promette di essere tanto audace quanto divisiva. Le nomine riflettono una chiara volontà di ribaltare l’ordine politico ed economico degli ultimi anni, ma sollevano interrogativi sulla direzione che gli Stati Uniti prenderanno nei prossimi quattro anni. Se l’obiettivo è quello di mantenere alta l’attenzione e accendere il dibattito, Trump ci sta riuscendo perfettamente. Per dirla con una famosa canzone di Checco Zalone: “Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici”, in un perfetto mix di provocazione, ideologia estrema e politiche populiste. E mentre il mondo osserva attonito, Trump se la ride. Perché questa è la sua America: un reality show dove i buoni perdono sempre, e i cattivi hanno il microfono più grande.
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Sic transit gloria mundi
Il Governo paga il panettone? Sì, ma non a tutti: ecco il Bonus Natale e come ottenerlo
L’ultima circolare spiega a chi spetta l’assegno, come richiederlo e chi effettivamente riuscirà a metterselo in tasca. Spoiler: non è per tutti!
Vi aspettavate un bel regalo sotto l’albero? Il Governo quest’anno, con il Bonus Natale, ha deciso di stanziare fino a 100 euro per i dipendenti, ma attenzione, come sempre ci sono dei paletti. L’Agenzia delle Entrate ha appena pubblicato la circolare numero 19, che spiega chi può accedere a questa “generosa” indennità e come richiederla. Spoiler: non è per tutti. Il bonus, previsto dal decreto Omnibus, viene accreditato ai dipendenti che rispettano precisi requisiti di reddito e famiglia.
A chi spetta il Bonus Natale?
Per ottenere il bonus, il reddito complessivo del 2024 non deve superare i 28mila euro, ma attenzione: non basta. Bisogna avere un coniuge e almeno un figlio fiscalmente a carico, e l’imposta lorda sui redditi da lavoro dipendente deve essere superiore alle detrazioni. Quindi, se vi mancano moglie, marito o figli a carico, il bonus vi scivolerà via come neve al sole. Il reddito dell’abitazione principale non verrà conteggiato, e il coniuge, per poter “contare”, non deve essere separato legalmente. Per i nuclei monogenitoriali, serve almeno un figlio fiscalmente a carico. Insomma, c’è poco da fare: bisogna rispondere a ogni dettaglio.
Come fare per richiedere l’indennità
Chi spera di accaparrarsi il Bonus Natale deve inoltrare una richiesta scritta al proprio datore di lavoro, specificando il codice fiscale del coniuge e dei figli a carico. Un’autocertificazione per dimostrare di possedere i requisiti richiesti dalla norma, e il gioco è fatto… più o meno. Il datore di lavoro, a questo punto, potrà riconoscere l’indennità insieme alla tredicesima mensilità e recuperare la somma sotto forma di credito d’imposta.
Insomma, la strada per ottenere il bonus non è proprio una passeggiata e richiede un bel po’ di documenti e requisiti da spuntare, ma per chi rientra nei parametri… è pur sempre un panettone pagato dal Governo!
E chi non ha i requisiti?
Niente paura, per chi non rientra tra i “fortunati” destinatari del Bonus Natale, resta sempre la possibilità di far pace con il forno di casa e preparare un panettone fai-da-te. Certo, non sarà coperto dall’assegno dell’Agenzia delle Entrate, ma di questi tempi meglio adattarsi… magari con un po’ di ironia!
Sic transit gloria mundi
I deliri ministeriali di Valditara: quando il patriarcato non esiste e la colpa è sempre degli stranieri
Le parole del ministro dell’Istruzione durante la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin gelano la sala e sollevano polemiche.
In una giornata in cui il dolore si intreccia alla speranza, le parole di Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, risuonano come un pugno nello stomaco. Nel corso della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, istituita in memoria della giovane vittima di femminicidio, il ministro ha sfoggiato un’arrogante negazione della realtà, proclamando che il patriarcato è un fenomeno del passato e spostando il discorso sulla violenza contro le donne su un piano di colpe attribuite all’immigrazione illegale.
Il patriarcato è morto. Anzi no, forse. Ma comunque non esiste.
Con toni da cattedra polverosa, Valditara si è lanciato in un’arringa che, se non fosse drammatica, sarebbe grottesca. “Il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975”, ha dichiarato, mostrando un’ignoranza spaventosa della struttura culturale e sociale che ancora permea la nostra società. Per lui, il problema si riduce a “residui di maschilismo”, un’elegante perifrasi per indicare il vero colpevole, un sistema che continua a giustificare e perpetuare il controllo e la violenza degli uomini sulle donne.
L’immigrazione come capro espiatorio.
Ma non è tutto: Valditara non si è accontentato di negare il patriarcato, ha anche pensato bene di tirare in ballo l’immigrazione. Secondo il ministro, “l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche alla devianza derivante dall’immigrazione illegale”. Un’affermazione che non solo sposta il dibattito su un piano razzista, ma che svuota di significato il dolore e la memoria di una giovane ragazza uccisa da un uomo italiano, con un nome e un cognome, cresciuto in una società che insegna il possesso e non il rispetto.
La dignità di Gino Cecchettin contro l’arroganza ministeriale.
Di fronte a questa deriva, la dignità di Gino Cecchettin, padre di Giulia, emerge ancora più luminosa. Le sue parole non hanno accusato, non hanno puntato il dito, ma hanno chiamato alla responsabilità: “Grazie all’amore di Giulia, porteremo un messaggio di educazione nelle scuole”. Un invito che Valditara sembra non avere colto, troppo impegnato a difendere una visione ristretta e ideologica che tradisce la complessità del problema.
Reazioni politiche e sdegno trasversale.
Le parole del ministro hanno suscitato un’ondata di sdegno. Laura Boldrini le ha definite “un intervento imbarazzante”, Gianni Cuperlo ha parlato di dichiarazioni “fuori sincrono con l’importanza della giornata”, mentre la deputata Pd Simona Malpezzi le ha bollate come “sbagliate nel merito e nel metodo”. Eppure, Valditara non si è lasciato smuovere, limitandosi a lamentare la solita “rissa della sinistra”, come se fosse la mancanza di pacatezza e non la sostanza delle sue affermazioni il vero problema.
Il patriarcato non sarà morto, ma il buon senso sì.
Mentre la sala della Regina di Palazzo Montecitorio avrebbe dovuto essere un luogo di ricordo e impegno, si è trasformata nell’ennesimo palcoscenico per deliri ministeriali. E il patriarcato? Non è morto, ministro Valditara. Vive e prospera proprio grazie a chi, come lei, preferisce negarlo invece di affrontarlo.
Sic transit gloria mundi
Trump 2.0 e il suo governo degli impresentabili: la provocazione calcolata che divide il Congresso e tira in ballo il deep state
Matt Gaetz alla Giustizia nonostante le accuse di sesso con una minorenne, Pete Hegseth al Pentagono senza alcuna esperienza militare e con uno scandalo di aggressione sessuale sulle spalle. Tulsi Gabbard alla guida dell’intelligence accusata di rapporti ambigui con Mosca e Robert Kennedy Jr. alla Sanità, no vax e complottista. Trump sfida apertamente il Senato e l’establishment con una squadra di nomine che sembra fatta apposta per scatenare polemiche, puntando sul caos per consolidare il suo potere e rilanciare la sua narrativa contro il “deep state” che gli impedirebbe di governare.
Donald Trump non è mai stato il tipo da passare inosservato. Ma con la lista delle nomine per la sua seconda amministrazione, il presidente sembra aver deciso di trasformare la politica americana in un esperimento sociologico senza precedenti. È difficile guardare alla sua squadra di candidati senza chiedersi se ci troviamo davanti a un atto deliberato di sabotaggio del sistema, una provocazione calcolata per scatenare polemiche e consolidare la sua narrativa di “vittima del deep state”. O, più semplicemente, l’ennesima prova che Trump non ha mai avuto interesse a governare come un presidente razionale, ma solo a interpretare il ruolo dell’outsider perenne in lotta contro i poteri forti. Un chiagni e fotti, per dirla con una popolare vulgata napoletana, spinto all’estremo.
Ecco allora che Trump propone una squadra che sembra uscita più da un romanzo distopico che da una lista di governo. Nomine che lasciano interdetti persino i più fedeli sostenitori repubblicani, costringendo il Senato a una battaglia già esplosiva prima ancora di iniziare. Quattro i nomi sotto accusa, che ben difficilmente passeranno al vaglio del Senato: Matt Gaetz, plurinquisito e con accuse pesanti di rapporti sessuali con una minorenne, dovrebbe prendere il controllo del Dipartimento di Giustizia. Pete Hegseth, ex commentatore televisivo con nessuna esperienza di ruoli di comando militare, è destinato al Pentagono, l’istituzione più imponente della macchina statale americana. Tulsi Gabbard, ex democratica con dichiarate simpatie filo-russe, dovrebbe guidare l’intelligence nazionale. E Robert Kennedy Jr., complottista no vax e figura controversa persino tra i repubblicani, dovrebbe occuparsi di Sanità. Un cast che sembra più una dichiarazione di guerra al sistema che una proposta di governo.
Partiamo da Matt Gaetz, la nomina più esplosiva e controversa. Il deputato della Florida si porta dietro una serie di scandali che lo rendono praticamente indifendibile. Accusato di aver avuto rapporti sessuali con una diciassettenne, la sua vicenda ha visto il coinvolgimento del Comitato Etico della Camera, che non ha ancora concluso le indagini. La ragazza in questione ha testimoniato confermando i rapporti, ma Gaetz si difende sostenendo di non essere stato a conoscenza della sua età. Anche se l’inchiesta non ha portato a incriminazioni formali, il caso ha già fatto danni enormi alla sua immagine, alimentando l’odio persino tra i colleghi repubblicani, molti dei quali lo considerano ormai un personaggio tossico. Non aiuta il fatto che Gaetz abbia giocato un ruolo cruciale nella cacciata dello speaker repubblicano McCarthy, inimicandosi mezzo Congresso. Eppure, per Trump, questi scandali non sono un problema, ma quasi un requisito. Gaetz è un fedelissimo, un uomo disposto a tutto pur di proteggere il presidente e piegare il Dipartimento di Giustizia ai suoi ordini. Che sia un personaggio divisivo e screditato sembra essere un dettaglio irrilevante.
Poi c’è Pete Hegseth, altro fedelissimo di Trump, famoso più per la sua carriera da commentatore televisivo su Fox News che per competenze militari o amministrative. Trump lo ha scelto per il Pentagono con un obiettivo ben preciso: epurare i generali “woke” e trasformare l’esercito in un baluardo di fedeltà trumpiana. Ma Hegseth porta con sé non solo un curriculum vuoto, ma anche uno scandalo di aggressione sessuale. Nel 2017, secondo uno scoop di Vanity Fair, è stato accusato di aver molestato una donna durante un congresso della National Federation of Republican Women. Anche se non ci sono state incriminazioni, l’episodio alimenta ulteriori dubbi sulla sua idoneità a guidare l’apparato militare più potente al mondo. Come sempre, Trump sembra ignorare le competenze in favore della fedeltà personale.
La nomina di Tulsi Gabbard alla direzione dell’intelligence solleva altrettanti dubbi. Gabbard, ex deputata democratica passata a posizioni sempre più vicine alla destra trumpiana, è vista con grande sospetto per i suoi rapporti ambigui con la Russia e il suo filo-putinismo dichiarato e quasi sbandierato in dichiarazioni e interviste. Affidare i segreti più delicati della sicurezza nazionale a una figura del genere appare come una provocazione diretta, persino per molti repubblicani che vedono in questa scelta un rischio enorme per la sicurezza del paese. Trump, però, sembra puntare proprio su questa ambiguità, cercando di sfidare l’establishment e spingere ancora di più l’idea che il sistema sia ostile a chiunque non ne faccia parte.
Infine, Robert Kennedy Jr. alla Sanità. La sua nomina è forse la più ironica di tutte. Famoso per le sue teorie complottiste e per il negazionismo vaccinale, Kennedy rappresenta tutto ciò che il sistema sanitario americano dovrebbe combattere. Ma non è solo il suo complottismo a renderlo impresentabile: Kennedy è visto come troppo abortista dall’ala più conservatrice del partito repubblicano, rendendolo una figura divisiva non solo per i liberal, ma anche per molti tra i suoi stessi alleati politici. Tuttavia, è proprio questa capacità di polarizzare che sembra attrarre Trump, che lo vede come un alleato ideale per la sua battaglia contro le istituzioni tradizionali.
La strategia dietro queste nomine appare chiara. Trump non sta cercando un governo funzionale, ma una squadra di combattenti disposti a scendere in trincea con lui, a costo di distruggere ogni convenzione. Sa benissimo che il Senato avrà enormi difficoltà a confermare candidati con un passato così compromesso. Ma per Trump, le bocciature sono una vittoria. Ogni rifiuto del Senato diventerà un pretesto per gridare al complotto del “deep state”, dipingendosi ancora una volta come vittima di un sistema corrotto che vuole impedire la sua rivoluzione.
C’è poi un’alternativa ancora più estrema: i recess appointments. Questa norma poco usata, nata in un’epoca in cui i senatori viaggiavano a cavallo, permette al presidente di nominare funzionari temporanei quando il Congresso è in pausa. Trump potrebbe usarla per bypassare il Senato e lasciare che i suoi fedelissimi rimangano in carica almeno fino alla prossima sessione. Sarebbe una mossa brutale, che però rischierebbe di alienargli anche molti tra i repubblicani moderati, già scettici nei confronti della sua gestione caotica.
In entrambi i casi, Trump sembra perseguire il caos come strategia politica. La sua priorità non è mai stata quella di governare nel senso tradizionale del termine, ma di creare una narrativa di lotta perpetua contro i poteri forti. Questa squadra di impresentabili non è altro che l’ennesimo capitolo di una saga in cui il caos è l’unica costante, e Trump il protagonista indiscusso. Perché, nel bene e nel male, il trumpismo non è mai stato una questione di politica, ma di puro spettacolo. E in questo The Donald è un maestro indiscusso.
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