Sic transit gloria mundi
Trump e il delirio coloniale: “Gli USA prenderanno il controllo di Gaza e deporteranno 1,7 milioni di palestinesi”
Nel corso di una conferenza stampa con Benjamin Netanyahu, Donald Trump ha annunciato un piano che sembra uscito da un manuale di pulizia etnica: l’esilio forzato di 1,7 milioni di abitanti di Gaza e il controllo statunitense sulla Striscia. Nessun dettaglio su come intenda farlo, nessuna considerazione per i palestinesi. Solo un’idea pericolosa che rischia di incendiare il Medio Oriente.

C’è qualcosa di profondamente delirante nel piano di Donald Trump per Gaza, annunciato con la solita nonchalance nella East Room della Casa Bianca, accanto a un compiaciuto Benjamin Netanyahu. L’ex presidente USA ha proposto, con una leggerezza inquietante, di prendere il controllo della Striscia e “spostare” 1,7 milioni di palestinesi in un “buono, fresco e bello pezzo di terra” altrove.
Come se fosse un trasloco. Come se non stessimo parlando di persone che vivono sulla loro terra, da generazioni, e che non hanno alcuna intenzione di lasciarla.
Un piano senza precedenti: l’arroganza di un colonialismo moderno
La proposta di Trump, se mai dovesse essere presa sul serio, rappresenterebbe una delle più grandi violazioni del diritto internazionale degli ultimi decenni. Un trasferimento forzato di popolazione, un’espropriazione di massa, un’occupazione di fatto da parte degli Stati Uniti, con la promessa – nemmeno tanto chiara – di “sviluppare” Gaza.
Svilupparla per chi? Per gli sfollati che non ci saranno più? Per una popolazione sostituita? O forse per una gestione diretta che favorisca altri interessi?
Gaza, i palestinesi e l’opposizione del mondo arabo
C’è un dettaglio che Trump si ostina a ignorare: i palestinesi non vogliono andarsene. Gli abitanti di Gaza hanno ripetuto in ogni modo possibile che la loro terra è la loro casa, e nessuna potenza straniera ha il diritto di esiliarli. Anche le nazioni arabe vicine, da sempre contrarie alla deportazione dei palestinesi, hanno ribadito la loro opposizione. Eppure Trump va avanti, dichiarando con assoluta convinzione che Egitto e Giordania sarebbero dalla sua parte.
In che modo, esattamente? Nessun leader arabo ha mai detto di essere disposto ad accogliere una massa di rifugiati forzati. Eppure, nella sua narrativa semplificata, Trump racconta una realtà alternativa, dove gli arabi accettano senza fiatare e i palestinesi partono volentieri.
Il nulla dietro l’annuncio: occupazione con che mezzi?
C’è un altro enorme buco nel discorso di Trump: in che modo gli Stati Uniti intendono “prendere il controllo” di Gaza? Con truppe sul campo? Con una presenza militare permanente? Oppure immagina una gestione da remoto, come una colonia amministrata a distanza?
Trump non lo dice, perché probabilmente non lo sa nemmeno lui. “Faremo ciò che è necessario”, ha dichiarato, lasciando tutto nel vago, senza affrontare minimamente la realtà geopolitica di un’occupazione americana in uno dei territori più instabili del pianeta.
Una proposta incendiaria e pericolosa
Ciò che è chiaro è che questo piano, se mai dovesse essere considerato seriamente, sarebbe una miccia pronta a esplodere nel Medio Oriente. Già adesso la tensione nella regione è alle stelle, e la sola idea di un’occupazione USA e di una deportazione di massa rischia di provocare conseguenze gravissime.
Trump, come sempre, parla senza pensare, senza calcolare le reazioni, senza nemmeno preoccuparsi di chi dovrebbe subire le sue idee folli. Ma questa volta il livello di irresponsabilità è da record. Non solo perché la sua proposta è eticamente e storicamente aberrante, ma perché accende un fuoco che potrebbe bruciare molto più di quanto lui stesso immagini.
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Sic transit gloria mundi
Trump e il compleanno di Hitler: legge marziale in arrivo? Ma per favore.
Torna l’America dei complotti e dei colpi di Stato da meme. Il 20 aprile Trump dovrebbe valutare se invocare l’Insurrection Act. E TikTok si scatena: “È il compleanno di Hitler! Vuole la dittatura!”. Zero prove, tanto allarmismo, e un ex presidente sempre più ossessionato dal potere assoluto.

Eccoci qui, con l’ultima perla del trumpismo tossico: il 20 aprile, giorno del compleanno di Adolf Hitler, il presidente Usa potrebbe proclamare la legge marziale. Lo dicono, con la consueta sobrietà, decine di migliaia di utenti su TikTok, X e Facebook. Gli stessi che qualche mese fa giuravano che Biden era un cyborg e la Terra piatta.
Tutto nasce da un ordine esecutivo firmato da Trump il giorno del suo ritorno alla Casa Bianca, il 20 gennaio scorso. In quel testo, apparentemente tecnico, il presidente ordinava al Dipartimento della Difesa e a quello della Sicurezza interna di consegnare entro 90 giorni un rapporto sulla situazione al confine col Messico. Report che, per caso o per destino (inquietante solo per chi legge troppi post alle tre di notte), scade proprio il 20 aprile.
In quel documento c’è anche un passaggio che ha riacceso tutte le fantasie da Guerra Civile 2.0: il governo valuterà se invocare l’Insurrection Act del 1807, una norma antica come la muffa che consente al presidente di usare l’esercito per sedare rivolte, disordini o minacce all’ordine pubblico. Non la legge marziale. Ma si sa, nei social “Insurrection Act” suona troppo tecnico. E così via con le fan fiction della distopia.
Chiariamolo subito: non ci sono prove, né mezze conferme, né mezzi sussurri, che Trump voglia introdurre la legge marziale. Anche perché significherebbe sospendere i diritti civili, sciogliere le corti civili e consegnare le chiavi del Paese ai generali. E se c’è una cosa che Trump ama, è farsi servire dai generali, non servirli. Anche quando cita con ammirazione Hitler e la fedeltà dei suoi, tanto per ricordare a tutti da che parte del baratro si affaccia ogni volta che apre bocca.
Ma la rete non conosce il freno a mano. L’hashtag #martiallaw ha già fatto il pieno di visualizzazioni. I più fantasiosi parlano di un piano segreto, orchestrato sulla falsariga del famigerato “Project 2025”, il programma redatto da ultraconservatori trumpiani pronti a trasformare gli Usa in un regime modello Orban, ma con più armi e meno libri.
E i segnali? Gli arresti di studenti e docenti universitari accusati di antisemitismo, qualche repressione sospetta delle proteste, il clima sempre più teso. Basta poco per alimentare la paranoia. I media americani ufficialmente minimizzano, ma in realtà nessuno si fida davvero. Trump è già stato capace di sobillare un assalto a Capitol Hill con un tweet. Figurarsi cosa potrebbe fare con un report in mano e una tv sintonizzata su sé stesso.
Però attenzione: invocare l’Insurrection Act non è legge marziale. Anche se il confine è sottile, soprattutto quando l’uomo al comando è allergico alla democrazia, alle regole, alla verità e alla grammatica. Nella storia americana, quell’atto è stato usato poche volte e sempre in situazioni estreme: da Lincoln nella guerra civile, da Ulysses Grant per fermare il Ku-Klux-Klan, e da George H. W. Bush nel 1991 dopo il caso Rodney King.
Oggi, nel 2025, l’idea che venga invocato per costruire l’ennesima messinscena muscolare contro i migranti è tutto fuorché fantascienza. Trump ha già mostrato di cosa è capace quando fiuta consensi nel panico. Ma proclamare la legge marziale? Davvero?
Il punto non è se accadrà. È il fatto stesso che sembri plausibile. Che milioni di persone in America oggi possano anche solo immaginare il proprio presidente fare un favore alla memoria di Hitler il giorno del suo compleanno, mentre firma un atto d’emergenza per blindare il confine, dice tutto sullo stato di salute della democrazia americana.
E su quello, sì, c’è da avere paura. Non per il 20 aprile. Ma per il 21. E tutti i giorni dopo.
Sic transit gloria mundi
«Mi baciano il culo»: Trump torna in scena come un vecchio zio sbronzo al bar
Durante una cena di raccolta fondi, Trump imita i leader stranieri che chiedono accordi commerciali con toni umilianti. Poi annuncia: «È il nostro turno di fregarli». Un monologo da osteria, tra volgarità, autocompiacimento e delirio da potere. E tutto questo a poche ore dall’entrata in vigore dei dazi Usa.

Non era bastato il muro. Né le bufale sul voto truccato, gli insulti ai giudici, la stretta di mano a Putin, i reality show con Kim Jong-un. No. Donald Trump deve stupire ogni giorno, e lo ha fatto a modo suo: con una frase da bar di terz’ordine, pronunciata con la solita boria dell’uomo che crede di poter dire tutto senza pagarne il conto. «Mi baciano il culo», ha detto. Testuale. Riferendosi ai leader stranieri che — udite udite — osano cercare un contatto per negoziare con lui sui dazi.
Il palcoscenico, manco a dirlo, era una cena di raccolta fondi per il partito repubblicano, dove Trump ha dato il meglio — o il peggio — del suo repertorio. Volgarità, imitazioni, umiliazioni gratuite. Una parodia dell’uomo forte, che in realtà sa parlare solo in uno stile da cabina di camionisti frustrati. I Paesi stranieri «mi supplicano», dice lui. «Per favore signore, farò qualsiasi cosa». Imitazione compresa, tra risatine e cenni di approvazione da parte della sua platea. Il tutto a poche ore dall’entrata in vigore dei nuovi dazi americani, quelli «reciproci», annunciati come una vendetta commerciale, più che una strategia economica.
Trump gongola: «So quel che diavolo sto facendo», proclama. Come se l’assertività fosse già prova di competenza. Come se l’insulto fosse uno strumento diplomatico. Come se una battuta volgare bastasse a far dimenticare che i dazi colpiscono prima di tutto i consumatori americani, le aziende statunitensi e le relazioni già tese con buona parte del pianeta.
Ma tant’è. L’ex tycoon si sente tornato sul trono, e si atteggia a vendicatore della patria. «Molti Paesi ci hanno fregato per anni. Ora tocca a noi fregarli», dice, con quella lingua sciolta da bar dello sport, che trasforma la geopolitica in una partita a scopone con insulti tra amici.
Intanto, mentre Trump ride delle suppliche altrui, Washington si riempie di delegazioni: Israele è già arrivata, Giappone e Corea del Sud seguono a ruota, la premier italiana Giorgia Meloni è attesa il 17 aprile. La Cina, invece, promette battaglia: «Lotta fino alla fine», dicono da Pechino. Ma per Trump non è una guerra, no. È solo «il nostro turno». Il suo modo di intendere il mondo resta quello del piccolo bullo di quartiere che si vendica quando il bidello si gira.
A margine dello show, Trump trova anche il tempo per fare pressioni sul Congresso: invita i repubblicani a «chiudere gli occhi» (letterale) e approvare in blocco la sua “grande e bellissima” legge fiscale. Tagli alle tasse, riduzione della spesa, tutto impacchettato in un’altra frase da ciarlatano dell’economia. Il mantra è sempre lo stesso: semplificare, svuotare, distruggere. E possibilmente, insultare.
Il problema non è solo Trump. È che c’è ancora chi applaude. C’è chi ride. C’è chi trova “autenticità” in un linguaggio che ha smesso da tempo di essere diretto ed è diventato semplicemente volgare. C’è chi si commuove davanti a un leader che tratta la diplomazia internazionale come se stesse scegliendo i numeri del Superenalotto.
In tutto questo, l’America — quella vera, quella che vive, lavora, cerca di costruire — resta sullo sfondo. Mentre lui, il grande incantatore del nulla, continua a imitare leader mondiali tra una battuta becera e un rutto metaforico. E se la realtà non gli sorride, poco importa: basta un microfono, un palco e qualche vecchia volgarità da ripescare. Che poi la politica, per lui, è sempre stata questo: uno show da vecchio zio ubriaco che ha sbagliato sala e crede ancora di essere l’anima della festa.
Sic transit gloria mundi
Nessuno può mettere Bergoglio in un angolo: il Papa tra ossigeno, fisioterapia e vaschette di gelato
Papa Francesco vive isolato al secondo piano della Domus: la routine è scandita da cure, esercizi, lavoro e pochi contatti. Ridotti i flussi di ossigeno, ripresi i saluti video e l’attività alla scrivania. Ma in vista della Pasqua, cresce l’attesa per un possibile ritorno a sorpresa in piazza San Pietro.

È circondato da medici, respiratori, infermieri, regole. Ma alla fine, quello che davvero non manca mai nella stanza 201 di Casa Santa Marta è… il gelato. Papa Francesco è in convalescenza, sì. Ma è pur sempre lui. E se gli chiedi di stare a riposo, ti ascolta con cortesia e poi fa come gli pare. Con buona pace della Direzione Sanitaria Vaticana.
Dopo il ricovero al Gemelli e la crisi respiratoria che ha fatto preoccupare mezzo mondo, il Pontefice ha trasformato il secondo piano della Domus in una sorta di residenza protetta. Non esce più per la messa in cappella, non scende a mensa, non passeggia nei corridoi: la sua giornata si svolge tra la suite e la cappella interna, riservata. Ma “isolato” è una parola grossa. Perché Francesco, seppur con naselli e ossigeno, continua a seguire dossier, firmare documenti, preparare discorsi e — pare — anche a dare direttive piuttosto energiche.
La sua routine è da atleta del recupero: sveglia all’alba, messa con i segretari, doppia sessione quotidiana di fisioterapia (una respiratoria, una motoria), riposo, lettura, telefonate. E poi, il momento clou: l’arrivo del gelato. Gusti prediletti? Limone, mango e dulce de leche. Il fornitore ufficiale è Sebastian Padron, un gelataio argentino che ha aperto il suo laboratorio non lontano dal Vaticano e che ormai conosce i gusti papali meglio dei segretari. Le vaschette vengono consegnate in cucina o direttamente alla reception della Domus. Cialdine comprese. Il Papa, raccontano, lo condivide volentieri con chi passa a trovarlo.
Il suo entourage è ridotto al minimo. I due infermieri fissi, Massimiliano Strappetti e Andrea Rinaldi, non lo perdono mai d’occhio. I segretari Salerno, Pellizzon e Villalon gestiscono agenda, visite e chiamate. Ma tutto avviene con discrezione, senza clamori. La parola d’ordine è una: protezione. Eppure, come spesso accade con Francesco, è lui il primo a rompere le regole. Domenica scorsa, per esempio, è uscito a sorpresa in piazza San Pietro per affacciarsi durante il Giubileo dei malati. Non era previsto, non era consigliato. Ma l’ha fatto lo stesso. Il Pontefice “più testardo dell’ossigeno”, come dice scherzando uno dei suoi assistenti.
Non riceve più visite ufficiali, ma non rinuncia a salutare ogni sera via video la parrocchia di Gaza, alle 20 in punto, attraverso lo smartphone di un collaboratore. Ogni tanto chiama i familiari in Argentina o qualche amico stretto. Brevi chiacchierate, spesso condite da una battuta, anche se la voce non è ancora del tutto tornata.
Nel frattempo, Casa Santa Marta è stata discretamente attrezzata: letto medico, macchinari, supporti, un piano completamente off-limits per altri ospiti. Tutto funziona come un piccolo ospedale privato vaticano. Senza clamori, ma con estrema efficienza.
Resta da capire se Francesco vorrà (e potrà) affacciarsi per la benedizione pasquale. Nessuno lo sa con certezza. I medici frenano, lui riflette. Ma se c’è una cosa che questi giorni ci confermano è che il Papa, quando ha deciso, non si ferma. Neppure col concentratore d’ossigeno. Né davanti ai consigli dei medici. Né, tantomeno, alla tentazione di una vaschetta di gelato al dulce de leche.
E in fondo, se anche i Santi amano i piccoli piaceri, perché il Papa non dovrebbe?
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