Sonar: tra suoni e visioni
Un walzer (l’ultimo) per Giovanni
Il giornalismo è spesso una brutta bestia, fatta di verità nascoste e di clamorose menzogne date in pasto agli ignari lettori. Sulla morte dell’amico Giovanni, figlio di Gino Paoli, alcune sedicenti testate si affrettano ora a sottolinearne l’ultimo incarico come direttore di un magazine legato ad un noto personaggio del vippismo italiota più becero, quasi dimenticando tutto il resto. Leggo con disgusto che la redazione attuale si spertica ora a ricordarlo con parole di enfatico elogio, attraverso vomitevoli pseudo-epitaffi di circostanza. Peccato che io so cosa veniva detto dietro le sue spalle. Poco male, l’oblio sa bene come far dissolvere l’infinita pochezza di questi miserabili figuri.
Un’amicizia che i casi della vita non era riuscita a scalfire
Con Giò ci eravamo sentiti di recente e lui, come al solito, era stato molto carino e gentile (anche con mia moglie), scusandosi per qualche scaramuccia pregressa fra noi che, comunque, non aveva mai minato la nostra amicizia. Persona dai grandi talenti e capacità dal punto di vista musicale e della scrittura, schivo, troppo buono, assolutamente disinteressato alla competizione che non lo toccava minimamente: per questo motivo ha avuto meno di quanto avrebbe meritato.
Dotta citazione
Porterò con me le lunghe discussioni musicali e soprattutto le risate, che sono di gran lunga la cosa più importante. Ci prendiamo troppo troppo sul serio noi umani, insignificanti cacchette di mosca nell’universo: se l’uomo delle caverne avesse saputo ridere – lo sosteneva Oscar Wilde, mica un Varani qualunque – la Storia avrebbe seguito un altro corso.
L’ultima volta che abbiamo trascorso del tempo insieme
In questa foto eravamo in prima fila alla presentazione del libro di Gino, l’anno scorso al Teatro Strehler, tra di noi c’era un altro amico, Ricky Gianco. Successivamente Giovanni ci aveva tenuto a portarmi in camerino da suo padre, col quale avevamo discusso di poesia, in particolare di un poeta genovese, Edoardo Firpo:
Poesse fâ comme l’öchin / pe ogni onda che arriva / arsame sempre un pittin
(Potessi fare come il gabbiano / per ogni onda che arriva / alzarmi sempre un poco)
Tu ci sei riuscito Giovanni, sei lassù, da qualche parte nell’altissimo, finalmente libero di ridere, anche di noi. Una delle ultime volte che ci siamo sentiti avevamo parlato di questo brano di Bill Evans, che amavamo entrambi, ricordi? Un pianista che spesso tornava nei nostri discorsi da musicofili incalliti (o “coglioni avariati” come dicevi tu). Evans, come pochi altri, è riuscito a mescolare il jazz e le armonie di compositori classici europei come Claude Debussy e Maurice Ravel. Non stupisce allora che molte sue composizioni abbiano il tempo di 3/4, usato in Europa ma quasi inesistente nel jazz, almeno fino agli anni ’50.
Tecnicismi per onanisti musicofili
Pur disponendo di una formazione classica, è stato dunque uno dei pianisti che più ha rivoluzionato il linguaggio del piano jazz. Waltz For Debby è una delle composizioni più importanti ed anche più care al pianista. Il brano si apre sul tempo di 3/4 come ci si aspetta da un valzer, al minuto 1’04” il pezzo passa invece al tempo di 4/4, più comodo per le improvvisazioni. Durante l’assolo del pianoforte il contrabbasso continua ad improvvisare linee melodiche alternate a passaggi in cui accompagna, prima di prendere un assolo vero e proprio (al min. 3’58”). Dettagli sui quali ci piaceva soffermarci – Giovanni era anche un musicista – nelle nostre chiacchierate. Questa è per te, caro Giò, so che apprezzerai…