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Sonar: tra suoni e visioni

Whamageddon: hai perso anche tu?

Da un’idea di quattro amici danesi nasce il Whamageddon, il gioco natalizio più spietato e impossibile da vincere, che da quasi vent’anni mette alla prova milioni di persone: evitare a tutti i costi Last Christmas degli Wham! fino alla mezzanotte del 24 dicembre. Tra “stragi” musicali, perdite improvvise e persino una mappa interattiva per le “vittime”, la sfida continua a crescere di popolarità, mentre il brano raggiunge finalmente la vetta delle classifiche, consacrandosi come un vero tormentone delle feste.

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    Si fa un gran parlare di Whamageddon (alcune sere fa anche al Tg1), i social si riempioni di contenuti in tema e c’è persino chi arriva a litigare per colpa sua. Trattasi di un gioco di Natale (difficilissimo da vincere) che da 20 anni coinvolge ogni anno sempre più persone in tutto il mondo. Le regole? Poche e semplici, anche se poche sono le persone che riescono a rispettarle, a cominciare dalla prima: evitare di ascoltare la canzone degli Wham! Last Christmas, per tutto dicembre.

    Un nome apocalittico per un passatempo natalizio

    Il titolo del gioco ricorda la parola “Armageddon”, l’epica battaglia tra bene e male nel giorno del Giudizio. E, pur essendo lontanissime da conflitti nucleari o dalla fine del mondo, il gioco è talmente difficile da vincere che in effetti il numero di “vittime” finisce per essere pari a quello dei racconti distopici di mondi post apocalittici.

    Sopravvivono e vincono in pochi

    Perché è così difficile “sopravvivere” al Whamageddon? Perché non dipende solo dai giocatori e dalle giocatrici. La prima e più importante regola è “resistere il più a lungo possibile senza sentire la canzone degli Wham!, Last Christmas“. Tutto questo dal primo dicembre fino alla mezzanotte del 24 dicembre.

    Mannaggia al Tg1…

    Ad essere applicata è solo la versione originale del brano, quindi è consentito ascoltare remix e cover. Diversamente, se viene riprodotta la versione classica del 1984 in qualche negozio, ristorante, festa o cena, giocatori e giocatrici devono immediatamente abbandonare lo spazio. In caso di perdita, si può postare l’hashtag #Whamageddon sui social media. A quel punto, con un pizzico di sana perfidia, anche inviare il link alla canzone a chi è ancora in gara o metterla nelle stories per provare a far perdere anche altre persone. Per esempio, durante il Whamageddon del 2023, un DJ che stava suonando davanti a 7mila persone al Sixfields Stadium di Northampton, in Inghilterra, ha messo la versione originale di Last Christmas con la precisa intenzione di compiere una vera e propria strage! Oppure come l’altra sera al Tg1 – quella che ho citato all’inizio di questo pezzo – che, mannaggia a loro, ha decretato la mia eliminazione! E non credo di essere stato l’unico…

    Dalla fantasia bizzarra di quattro ragazzi danesi

    Ad inventare questa challenge 18 anni fa sono stati quattro ragazzi danesi: Thomas Mertz, Rasmus Leth Bjerre, Oliver Nøglebæk e Søren Gelineck. Mertz, intervistato dalla CBS, ha raccontato che il gioco di riuscire a evitare Last Christmas è venuto in mente a lui e gli altri amici quando per l’ennesimo anno di fila si sono resi conto che la canzone degli Wham! veniva riprodotta costantemente durante il periodo natalizio.

    Esiste anche il suo esatto opposto

    I quattro Hanno creato anche un sito (in inglese) nel quale tra merchandising e regole c’è anche la mappa di “Whamhalla”, la terra dei perdenti: non è altro che una mappa interattiva del pianeta terra che indica la posizione e la condizione di tutti i giocatori. L’avatar di chi perde viene spedito qui, in questo aldilà virtuale (il termine Whamhalla è la crasi di “Valhalla”, aldilà dei guerrieri valorosi nella mitologia nordica, e “Wham!”, il nome del duo britannico composto da George Michael e Andrew Ridgeley). Esistono anche le varianti di Whamageddon: una, chiamata Wham!Hunter, prevede che giocatori e giocatrici ottengano un punto ogni volta che ascoltano la canzone Last Christmas.

    Il brano col Natale c’entra poco o nulla

    Last Christmas rappresenta è un punto fermo delle playlist natalizie di persone comuni, stazioni radio, negozi, pub e ristoranti. Ma l’unico riferimento al Natale è nella parola Christmas del ritornello, il testo parla prevalentemente di un incontro casuale tra due persone che “lo scorso natale” erano state insieme. Parla quindi di una relazione fallita e della sensazione provata nel ritrovarsi faccia a faccia con l’ex, un anno dopo. Solo la frase “Last Christmas” si riferisce effettivamente al periodo delle feste.

    Fino a pochi anni fa mai al primo posto

    Per 36 anni è stato il singolo più venduto nel Regno Unito (oltre due milioni di copie) senza aver mai raggiunto la vetta della classifica. Solo nel 2017 ha raggiunto il numero 2 (eguagliando il suo picco più alto): dopo la morte di George Michael nel Natale 2016, i fan hanno iniziato una campagna affinché raggiungesse il numero 1. Sembrava che non sarebbe mai successo ma gli Wham! hanno finalmente raggiunto il primo posto nella prima settimana del 2021. grazie agli streaming e ai download massicci nell’ultima settimana del 2020, superando perfino All I want for Christmas di Mariah Carey.

    Ora che è passato il termine… puoi pure cliccare!

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      Dandy Bestia: l’ultimo riff ignorato dai media

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        L’Italia ha perso un pezzo di storia del rock, ma, come al solito, in pochi sembrano essersene accorti. Fabio Testoni, in arte Dandy Bestia, leggendario chitarrista dei bolognesi Skiantos, ha lasciato questo mondo senza che i grandi media si prendessero la briga di celebrarlo. D’altronde, troppo impegnati a seguire le liti sui social di qualche miserabile influencer o l’ennesima dichiarazione da semi-analfabeta di uno strapagato calciatore… figurarsi se si ricordano di chi ha scritto pagine fondamentali del rock demenziale italiano!

        Quando il rock era (auto)ironia e genio

        Dandy Bestia è stato un pilastro di un genere che non si è mai preso troppo sul serio, e forse proprio per questo ha lasciato un segno indelebile. Con Freak Antoni e il resto della banda, gli Skiantos hanno stravolto il concetto stesso di musica in Italia: tra concerti surreali, testi grotteschi e una capacità unica di smascherare il ridicolo della società. Sono stati la voce fuori dal coro, il dito medio al conformismo musicale dritto in quel posto, l’unico vero esperimento punk nato in Italia senza bisogno di scimmiottare i mostri sacri d’oltreoceano.

        Demenziale… ma non solo, anzi…

        Il loro capolavoro MONOtono (uscito in un infuocato 1978, quando il punk stava ridettando le regole della musica giovane) resta ancora oggi un manifesto di ribellione e nonsense. Dandy Bestia, con la sua chitarra tagliente e il suo talento troppo spesso sottovalutato, ha dato al rock demenziale una dignità musicale insospettabile. Ma guai a chiamarlo “solo” demenziale: sotto la patina di idiozia consapevole c’era una genialità rara, un’arte che sfidava qualsiasi etichetta. A volte, inaspettatamente, anche con un velo leggero ma preciso di poesia…

        Morto e (come sempre) ignorato

        E così, la scomparsa di Dandy Bestia è scivolata via in silenzio, come una battuta geniale raccontata in una stanza vuota. Nessun titolone, nessuna prima pagina, giusto qualche riga sparsa sui giornali online. Eppure, il suo contributo alla musica italiana è stato enorme, anche se in troppi fingono di non saperlo. Gli Skiantos hanno ispirato generazioni di musicisti – un nome su tutti: Elio e Le Storie Tese -, dimostrando che si può fare rock senza prendersi sul serio e che si può prendere tutti bellamente per il culo, anche se stessi. Dandy Bestia ne era l’anima musicale, un chitarrista sopraffino capace di trasformare il nonsense in arte.

        Un addio come si deve: a suon di rock

        A chi oggi vuole ricordarlo, basterebbe mettere su Sono rozzo, sono grezzo, alzare il volume e brindare con una birra calda in onore di chi ha fatto della musica un atto di libertà. Se esiste un paradiso del rock, lui – dopo aver ritrovato il caro Freak Antoni – starà già accordando la chitarra per un assolo irriverente, con qualche santo sbalordito davanti a tanta genialità. Buon viaggio, Dandy. Io ti ricorderò… anche se i giornali preferiscono parlare d’altro. D’altronde… non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti, no?

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          Un walzer (l’ultimo) per Giovanni

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            Il giornalismo è spesso una brutta bestia, fatta di verità nascoste e di clamorose menzogne date in pasto agli ignari lettori. Sulla morte dell’amico Giovanni, figlio di Gino Paoli, alcune sedicenti testate si affrettano ora a sottolinearne l’ultimo incarico come direttore di un magazine legato ad un noto personaggio del vippismo italiota più becero, quasi dimenticando tutto il resto. Leggo con disgusto che la redazione attuale si spertica ora a ricordarlo con parole di enfatico elogio, attraverso vomitevoli pseudo-epitaffi di circostanza. Peccato che io so cosa veniva detto dietro le sue spalle. Poco male, l’oblio sa bene come far dissolvere l’infinita pochezza di questi miserabili figuri.

            Un’amicizia che i casi della vita non era riuscita a scalfire

            Con Giò ci eravamo sentiti di recente e lui, come al solito, era stato molto carino e gentile (anche con mia moglie), scusandosi per qualche scaramuccia pregressa fra noi che, comunque, non aveva mai minato la nostra amicizia. Persona dai grandi talenti e capacità dal punto di vista musicale e della scrittura, schivo, troppo buono, assolutamente disinteressato alla competizione che non lo toccava minimamente: per questo motivo ha avuto meno di quanto avrebbe meritato.

            Dotta citazione

            Porterò con me le lunghe discussioni musicali e soprattutto le risate, che sono di gran lunga la cosa più importante. Ci prendiamo troppo troppo sul serio noi umani, insignificanti cacchette di mosca nell’universo: se l’uomo delle caverne avesse saputo ridere – lo sosteneva Oscar Wilde, mica un Varani qualunque – la Storia avrebbe seguito un altro corso.

            L’ultima volta che abbiamo trascorso del tempo insieme

            In questa foto eravamo in prima fila alla presentazione del libro di Gino, l’anno scorso al Teatro Strehler, tra di noi c’era un altro amico, Ricky Gianco. Successivamente Giovanni ci aveva tenuto a portarmi in camerino da suo padre, col quale avevamo discusso di poesia, in particolare di un poeta genovese, Edoardo Firpo:

            Poesse fâ comme l’öchin / pe ogni onda che arriva / arsame sempre un pittin

            (Potessi fare come il gabbiano / per ogni onda che arriva / alzarmi sempre un poco)

            Tu ci sei riuscito Giovanni, sei lassù, da qualche parte nell’altissimo, finalmente libero di ridere, anche di noi. Una delle ultime volte che ci siamo sentiti avevamo parlato di questo brano di Bill Evans, che amavamo entrambi, ricordi? Un pianista che spesso tornava nei nostri discorsi da musicofili incalliti (o “coglioni avariati” come dicevi tu). Evans, come pochi altri, è riuscito a mescolare il jazz e le armonie di compositori classici europei come Claude Debussy e Maurice Ravel. Non stupisce allora che molte sue composizioni abbiano il tempo di 3/4, usato in Europa ma quasi inesistente nel jazz, almeno fino agli anni ’50.

            Tecnicismi per onanisti musicofili

            Pur disponendo di una formazione classica, è stato dunque uno dei pianisti che più ha rivoluzionato il linguaggio del piano jazz. Waltz For Debby è una delle composizioni più importanti ed anche più care al pianista. Il brano si apre sul tempo di 3/4 come ci si aspetta da un valzer, al minuto 1’04” il pezzo passa invece al tempo di 4/4, più comodo per le improvvisazioni. Durante l’assolo del pianoforte il contrabbasso continua ad improvvisare linee melodiche alternate a passaggi in cui accompagna, prima di prendere un assolo vero e proprio (al min. 3’58”). Dettagli sui quali ci piaceva soffermarci – Giovanni era anche un musicista – nelle nostre chiacchierate. Questa è per te, caro Giò, so che apprezzerai…

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              Quando la Regina Elisabetta incontrò il gotha del chitarrismo rock (video)

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                Parole di cortesia e frasi di circostanza per far sentire gli ospiti a loro agio, spazzando via tensioni e nervosismi? Oppure vere e proprie gaffe? Chi può dirlo. Tra i capitoli in assoluto più divertenti del rapporto tra la Regina Elisabetta II e il rock, nel corso dei suoi 70 anni di regno, c’è senza dubbio il simpatico siparietto che nel 2005 vide l’ex sovrana del Regno Unito, all’epoca 78enne, incontrare a Buckingham Palace una delegazione di star della musica rock composta da tre leggende come Brian May dei Queen, Jimmy Page dei Led Zeppelin, Eric Clapton e Jeff Beck, icone a livello mondiale.

                Un video imperdibile

                L’occasione offerta da un evento celebrativo dell’industria discografica britannica, alla presenza di Sua Maestà la Regina Elisabetta II. L’incontro è stato per anni tramandato oralmente da chi ha assistito a quel momento storico, fino a quando non è finalmente spuntato su YouTube il video che l’ha immortalato. E che ne restituisce la goffezza.

                Un quartetto di assi della sei corde

                Il primo del quartetto a stringere la mano alla Regina Elisabetta II è Brian May, il leggendario chitarrista dei Queen, che tre anni prima di quell’evento aveva suonato l’inno nazionale per il giubileo di Elisabetta nel 2002 e che ora si scusa con Sua Maestà – ironicamente – per aver fatto tutto quel casino rileggendo God save the Queen con un’orchestra suonando direttamente sul tetto di Buckingham Palace. La regina lo guarda un po’ perplessa e poi lo prende in contropiede: “Ah, eri tu?”, risponde. Subito dopo tocca a Jimmy Page, che con i Led Zeppelin ha scritto alcune delle pagine più importanti della storia della musica rock, ma che la Regina Elisabetta sembra non aver mai sentito nominare: “Anche lei è un…”. Page risponde imbarazzatissimo: “Sì, anche io sono un chitarrista…”. Brian May prova a soccorrerlo: “Jimmy è un mio eroe. I Led Zeppelin sono stati un modello per molti”. La Regina annuisce.

                La gaffe regale con Clapton

                Ancor più imbarazzante, però, è la stretta di mano con Eric Clapton e Jeff Beck: “Piacere di vedervi”, dice la sovrana ai due musicisti, dando l’impressione di conoscerli. Non è così. Dopo aver scrutato da capo a piedi “Slowhand”, gli domanda: “È molto tempo che suona la chitarra?”. E quello risponde: “Beh, saranno qualcosa come… 40 anni?”.

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