Cronaca
«Abbiamo vinto, avrai 277 mila euro»: così Randi Ingerman è stata truffata dalla sua avvocata
L’avvocata Serena Grassi è stata rinviata a giudizio con le accuse di patrocinio infedele e falso. Secondo i magistrati, avrebbe ingannato la showgirl Randi Ingerman, facendole credere di aver vinto cause legali che, in realtà, non erano state nemmeno avviate o erano state perse. Per supportare le sue affermazioni, Grassi avrebbe persino mostrato sentenze false del Tribunale di Milano. Il caso è ora nelle mani della Procura di Brescia, che ha chiesto il rinvio a giudizio della legale.

Serena Grassi, avvocata 45enne, è stata rinviata a giudizio con gravi accuse di patrocinio infedele e falsificazione di atti. La vicenda ha preso il via quando la sua celebre cliente, la showgirl Randi Ingerman, 56 anni, si è resa conto di essere stata ingannata per anni. La Grassi avrebbe fatto credere alla Ingerman di aver vinto una serie di cause legali, alcune delle quali nemmeno avviate, mentre altre erano state realmente perse, ma falsificate per sembrare vittorie.
Il caso più emblematico è quello di una presunta causa contro una banca, nella quale la Grassi avrebbe comunicato alla Ingerman una vittoria con un risarcimento di 277.000 euro. In realtà, quella causa era stata persa, ma per nascondere la verità, l’avvocata avrebbe falsificato una sentenza del Tribunale di Milano, attribuendola al giudice Adriana Cassano Cicuto. Quest’ultima, ignara del tutto, si trova ora insieme alla giudice del lavoro Zenaide Crispino, coinvolta in un’altra presunta falsificazione, come parte offesa nel processo.
La vicenda non si limita a questa singola falsificazione. La Grassi avrebbe assicurato alla Ingerman di aver avviato ulteriori azioni legali contro una clinica e contro l’Inps, ma anche in questi casi si sarebbe trattato di pura invenzione o, quando effettivamente avviate, di cause perse senza informare la cliente del vero esito. In ogni caso, la realtà veniva mascherata con documenti contraffatti, mantenendo la Ingerman nell’illusione di vittorie inesistenti.
La showgirl, assistita dall’avvocato Davide Steccanella, ha deciso di denunciare la Grassi, scoprendo così l’intero inganno che ha coinvolto anche le toghe del distretto giudiziario milanese. La competenza del caso è passata alla Procura di Brescia, dove il pm Giovanni Tedeschi ha chiesto il rinvio a giudizio per Serena Grassi.
Un sistema di falsificazioni e bugie
La gravità delle accuse rivolte alla Grassi si riflette nella complessità e nell’audacia delle sue azioni. Non si trattava solo di mentire alla cliente, ma di costruire un’intera realtà parallela fatta di documenti legali fasulli, mirata a mantenere una parvenza di successo professionale. È questo che rende il caso particolarmente eclatante, mettendo in luce i rischi legati alla fiducia cieca riposta in un professionista.
Il processo, che si annuncia lungo e complesso, dovrà fare chiarezza su tutte le circostanze e determinare la responsabilità dell’avvocata in un caso che ha lasciato una profonda ferita nella vita personale e professionale della sua ex cliente.
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Cronaca Nera
Saman Abbas, la condanna che veniva da casa: la procura chiede l’ergastolo per tutta la famiglia
Nel processo d’appello per la morte di Saman Abbas, la Procura generale chiede una pena esemplare per tutti gli imputati. Il delitto, premeditato e “inumano”, avrebbe avuto come unico movente la libertà della ragazza di scegliere la propria vita. “Non era ribelle, voleva solo essere se stessa”.

«Un’esecuzione familiare, lucida e spietata, travestita da onore». Con queste parole la procuratrice generale Silvia Marzocchi ha chiesto alla Corte d’Assise d’Appello di Bologna la condanna all’ergastolo per tutti e cinque i familiari accusati dell’omicidio di Saman Abbas: padre, madre, zio e i due cugini. Una richiesta che arriva al termine di una requisitoria lunga, articolata, segnata dalla volontà di restituire piena verità e dignità alla ragazza uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021.
Saman aveva 18 anni. E voleva essere libera. Libera di scegliere con chi vivere, libera di rifiutare un matrimonio combinato, libera di amare. Una libertà che la sua famiglia ha vissuto come una colpa, una minaccia, un’onta da cancellare. Da punire. Per questo, secondo l’accusa, la giovane sarebbe stata vittima di una «condanna a morte pronunciata dall’intero nucleo familiare». Un delitto premeditato, eseguito con freddezza e determinazione. Con la partecipazione attiva — ribadisce la Procura — di tutti gli imputati.
La scena si consuma nel silenzio della campagna emiliana. Il corpo della ragazza verrà ritrovato solo 18 mesi dopo, interrato a pochi metri da un casolare. A scavare la fossa, secondo quanto emerso dal processo, sarebbero stati i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, inizialmente assolti. A commettere materialmente l’omicidio sarebbe stato lo zio, Danish Hasnain, che ha reso dichiarazioni spontanee in aula accusando nuovamente i due parenti: «Erano con me. Hanno scavato e seppellito il corpo». Una versione che trova riscontro anche nelle risultanze investigative: le celle telefoniche, i tracciamenti e le immagini li collocano tutti sulla scena. E soprattutto confermano la presenza di più persone al momento dell’occultamento del cadavere.
Già condannati all’ergastolo in primo grado, i genitori di Saman — Shabbar Abbas e Nazia Shaheen — tornano ora al centro del dibattimento con un profilo aggravato: secondo la procuratrice generale, è necessario ridefinire il loro ruolo non come meri fiancheggiatori, ma come architetti del delitto. Non solo non avrebbero fatto nulla per salvare la figlia, ma l’avrebbero accompagnata consapevolmente alla morte. Fino all’ultimo giorno, racconta Marzocchi, avrebbero mantenuto con lei un atteggiamento affettuoso, solo in apparenza: «Saman è stata immersa in una recita — ha detto — un copione scritto per rassicurarla mentre tutto era già deciso».
Particolarmente significativo, secondo l’accusa, è anche il ruolo del fratello minore. Il ragazzo, minorenne all’epoca dei fatti, aveva raccontato di essere stato testimone della tragedia e di essere stato costretto alla fuga. La Corte di primo grado aveva ipotizzato che proprio lui, con una denuncia ai carabinieri, potesse aver innescato la lite familiare culminata nell’omicidio. Una tesi che la Procura generale respinge con forza. Il fratello, dice Marzocchi, è una vittima secondaria: «Non ha mai contraddetto sé stesso, non aveva nulla da guadagnare e tutto da perdere. È stato sacrificato, isolato, sottoposto a una pressione insostenibile».
La requisitoria della pubblica accusa ha chiesto anche un anno di isolamento diurno per ciascuno dei cinque imputati. Una pena esemplare, non per vendetta, ma per ristabilire un ordine etico e giuridico: «Bisogna togliere a Saman — ha detto la pg — il ruolo di ragazza ribelle, trasgressiva. Non era sconsiderata. Non ha fatto nulla per meritare la morte. Ha solo chiesto di poter vivere secondo i suoi desideri legittimi».
La data fatale, quella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, coincide con un punto di non ritorno. Il 3 maggio, infatti, Saman sarebbe dovuta essere trasferita in una comunità protetta. La famiglia sapeva che le restavano pochi giorni da “controllare” la figlia. E la decisione di ucciderla, secondo la Procura, è maturata proprio per evitare che se ne andasse per sempre, sottraendosi alla loro autorità.
Nel cortile di casa, qualche giorno prima, c’è un video. Saman sorride, scherza con la madre. È un’immagine che oggi pesa come una condanna. Perché dimostra che lei, nonostante tutto, non avrebbe mai rinunciato alla sua famiglia, se solo le fosse stato permesso di viverla da persona libera. Ma quella libertà, per chi ha deciso la sua fine, era il vero scandalo da cancellare.
Storie vere
Altro che Sky e Netflix: nel Biellese riapre il cinema a luci rosse!
Chiuso dal 2020, nella provincia di Biella riapre il cinema a luci rosse Play Movie, rilanciato dal giovane imprenditore Flavio Tromboni (nome omen…). In un mondo dominato dallo streaming, la pellicola hot torna protagonista.

A Cossato riapre il cinema a luci rosse Play Movie, chiuso dal 2020 e ora rilanciato dal giovane imprenditore Flavio Tromboni. In un mondo dominato dallo streaming, la pellicola hot torna protagonista. Una scommessa retrò che potrebbe accendere l’economia locale, una scelta indubbiamente coraggiosa che mescola nostalgia – secondo alcuni – e spirito di comunità. Il Play Movie non è solo una sala a luci rosse: per i non-bacchettoni è un manifesto contro l’appiattimento digitale.
Ritorno al futuro… vietato ai minori
Nel cuore del Biellese, dove il tempo sembra scorrere più lento e i sabati pomeriggio profumano di nostalgia, riapre un’istituzione tanto discussa quanto amata: il Play Movie, storico cinema a luci rosse di Cossato. A riaccendere il proiettore è Flavio Tromboni, 25 anni, già noto per gestire il leggendario Roma Blu di Torino. La sua missione? Riportare il piacere offline al centro della scena.
Addio buffering, bentornato brivido
Mentre il resto del mondo si perde tra contenuti digitali, abbonamenti multipli e connessioni instabili, Cossato sceglie l’autenticità della sala buia, delle poltrone imbottite e dei sussurri imbarazzati tra sconosciuti. Con 200 posti a sedere, aria condizionata e un catalogo rigorosamente vietato ai minori, il cinema riapre le sue porte ogni weekend, dal sabato alla domenica, dalle 15 fino a mezzanotte. Altro che binge-watching, qui si parla di experience watching.
Turismo sess…ehm, culturale
Non è solo una questione di eros: il ritorno del Play Movie è anche un’occasione per ridare vita all’economia locale. Con appena due cinema porno attivi in tutto il Piemonte, e il più vicino a Piacenza, Cossato si candida a diventare una meta per appassionati del genere. Si parla già di car sharing tra province, birre post-film nei bar vicini e – perché no – una piccola rivoluzione nel turismo esperienziale.
Soft lighting, hard impact
La struttura è stata completamente ristrutturata: nuovo impianto audio, sedute comode, luci soffuse e un’atmosfera che strizza l’occhio ai gloriosi anni ’90 del cinema erotico. Un mix perfetto tra nostalgia e intrattenimento che, secondo Tromboni, “può attrarre spettatori da tutto il Nord Italia”. A guidarlo, non solo il desiderio (in ogni senso del termine), ma una visione culturale ben chiara: “La gente ha bisogno di tornare a vivere le cose insieme. Anche il piacere”.
Kant o “La supplente fa l’orale”?
Naturalmente, non mancano le polemiche. C’è chi grida al degrado culturale e chi invoca proposte più “elevate”. Ma la verità è semplice: tra una sala vuota con un documentario sulla dialettica hegeliana e una sala piena per un titolo vintage dai doppi sensi espliciti, è chiaro quale delle due fa girare (l’economia).
Il biglietto? Costa meno di un abbonamento streaming
Il prezzo d’ingresso è competitivo, e l’esperienza è irripetibile. Perché il Play Movie non è solo un cinema: è un salto temporale, una provocazione e, per molti, un appuntamento fisso con il passato… e con il desiderio
Cronaca
“Pronto, Presidente?”. Numeri di Stato a portata di plug-in: la voragine della cybersicurezza italiana
Bastano 50 euro e un’estensione per browser per ottenere i contatti privati di Mattarella, Meloni e migliaia di funzionari pubblici. Andrea Mavilla, esperto informatico, scopre una falla clamorosa. Nessun hacker, nessun dark web: solo un’Italia che ignora i propri rischi digitali.

È bastato un plug-in. Nessuna password violata, nessun dark web, nessuna rete sotterranea. Solo un’estensione del browser, scaricabile da chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la rete. E così, in pochi clic e con un abbonamento mensile da circa cinquanta euro, è possibile mettere le mani su qualcosa che dovrebbe essere, per definizione, intoccabile: i numeri privati dei vertici dello Stato italiano. Non i telefoni di servizio, non quelli visibili sugli organigrammi ufficiali, ma quelli personali, utilizzati per comunicazioni riservate con amici, parenti, collaboratori stretti.
A scoprire questa falla spaventosa è stato Andrea Mavilla, esperto di informatica e cybersecurity, con un passato in Apple e anni di esperienza nel settore della protezione dei dati. Mentre analizzava alcune piattaforme di lead generation — quei siti specializzati nella raccolta e nella rivendita di contatti — si è imbattuto in un’anomalia inquietante: accedendo da un account standard, gli venivano mostrati nomi, email e numeri di cellulare di politici, dirigenti pubblici, ufficiali delle forze dell’ordine. Non frammenti sparsi, ma una vera mappa della vulnerabilità istituzionale italiana.
Le piattaforme in questione non sono illegali. Offrono servizi perfettamente registrati, con sede in Paesi come Israele, Stati Uniti e Russia. Si rivolgono a chi lavora nel marketing o nel B2B, promettendo accesso diretto a potenziali clienti qualificati. In realtà, attraverso i plug-in installati sui browser, questi servizi aprono varchi inimmaginabili. Basta visitare il profilo LinkedIn di una persona per ricevere, in tempo reale, il numero di telefono e l’indirizzo email che l’utente ha magari inserito altrove in rete, dimenticandosi di aver dato il consenso al trattamento dei dati.
Nel caso segnalato da Mavilla, i profili colpiti non sono solo quelli di imprenditori o manager: ci sono anche i numeri personali di Sergio Mattarella, Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, Guido Crosetto. E poi, ancora, quelli di migliaia di funzionari dello Stato, dipendenti di ministeri, agenti della Polizia di Stato, militari dell’Arma e della Guardia di Finanza. Un database parallelo, disponibile alla luce del sole. Nessuna rete criminale. Nessun software spia. Solo la disattenzione di un sistema incapace di controllare la dispersione dei dati digitali.
Mavilla ha cercato di segnalare il problema usando tutti i canali informali che aveva a disposizione. Ha scritto direttamente al ministro dell’Interno Piantedosi, ha contattato la vicepresidente della CIA Juliane Gallina tramite LinkedIn, ha cercato un contatto con l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Risposte? Poche. Laconiche. E spesso sminuenti. La frase più emblematica resta quella attribuita a un funzionario dell’Acn: “Bah, a noi pare una bufala”.
Ma non era una bufala. I dati erano lì, esposti, verificabili. Tanto che Mavilla — con l’aiuto di altri colleghi — è riuscito a confrontarli con numeri e indirizzi conosciuti, confermando la loro autenticità. E quando la questione è finalmente arrivata all’attenzione della Polizia postale, si è deciso di avviare un’indagine vera e propria, che ora proverà a risalire alle fonti e alle modalità con cui queste informazioni sono state raccolte, aggregate e distribuite.
Il punto è che, spesso, siamo noi stessi a mettere a rischio i nostri dati. Clicchiamo “accetto” su moduli online, autorizziamo accessi incondizionati, forniamo recapiti in cambio di uno sconto o di un eBook gratuito. Tutte queste tracce digitali finiscono in banche dati che si scambiano, si fondono, si vendono. E quando chi si occupa della sicurezza nazionale liquida con sufficienza una simile segnalazione, è legittimo domandarsi se sia l’arroganza o la sottovalutazione il vero punto debole del sistema.
Il caso sollevato da Andrea Mavilla non è una semplice storia di privacy violata. È la cartina di tornasole di un problema strutturale: l’assenza di una cultura della cybersicurezza che metta al centro non solo la protezione dei dati, ma anche la prontezza nell’ascoltare chi suona un campanello d’allarme. Stavolta è andata “bene”: i dati non sono finiti in mano a ricattatori, spie o gruppi criminali. Ma la porta è aperta. E lo è stata per troppo tempo, senza che nessuno se ne accorgesse.
Chi controlla la nostra sicurezza digitale? E soprattutto, chi ascolta chi la scopre in pericolo?
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