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Cronaca

Attenzione alla nuova truffa telefonica: “Suo figlio ha avuto un incidente!”

Da nord a sud, sempre più cittadini raccontano di aver ricevuto chiamate da sedicenti agenti che comunicano finti incidenti ai danni di figli o parenti. Lo scopo? Estorcere denaro facendo leva sulla paura. Ecco come difendersi dalle nuove truffe.

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    La scena è sempre la stessa: il telefono squilla, una voce si presenta come carabiniere o agente delle forze dell’ordine e comunica, con toni allarmati, che un figlio o un parente stretto è rimasto coinvolto in un grave incidente. “Suo figlio ha investito una persona anziana, serve immediatamente un risarcimento!” è una delle frasi più frequenti. Pochi attimi e il panico s’impadronisce della vittima, che, sorpresa dalla notizia e in preda alla paura, rischia di cedere alla trappola tesa dai truffatori.

    È una tattica meschina, che gioca sulla paura per trarre profitto. Molte persone hanno già raccontato di aver ricevuto chiamate di questo tipo, come una cittadina del nord Italia che ha denunciato la truffa alle pagine de L’Eco di Bergamo: “Mi hanno chiamata dicendo che mio figlio aveva avuto un incidente. All’inizio mi sono spaventata, poi mi sono ricordata che lui vive all’estero. Ho capito che era una truffa e ho riattaccato.”

    Ma non tutti riescono a reagire con la stessa freddezza. Per chi si trova all’improvviso immerso in una situazione di presunto pericolo per un figlio, un coniuge o un parente, mantenere la calma non è facile. Ed è proprio su questo che puntano i truffatori, che, fingendosi carabinieri, operatori di polizia o avvocati, lanciano il finto allarme nella speranza di spingere le vittime ad agire senza riflettere.

    Secondo le segnalazioni, i criminali usano diverse tattiche per rendere le loro chiamate convincenti. Il copione inizia sempre con il panico e termina con una richiesta di denaro. Talvolta, i truffatori chiedono di effettuare immediati bonifici o trasferimenti in denaro, sostenendo che questi sarebbero necessari per evitare problemi legali o penali al presunto familiare coinvolto.

    I consigli per difendersi

    Come difendersi, allora, da questo tipo di truffe? Ecco alcune semplici regole per mantenere la calma e smascherare eventuali tentativi di raggiro:

    • Non agire d’impulso: la paura è la leva principale di queste truffe. Respira e prenditi qualche secondo per pensare con chiarezza.
    • Diffida di chi chiede denaro: nessun agente delle forze dell’ordine o professionista richiederebbe pagamenti via telefono, tantomeno per presunti incidenti o risarcimenti.
    • Chiama subito il familiare coinvolto: contattare il diretto interessato è il modo più rapido per capire se la chiamata è autentica.
    • Segnala l’accaduto alle forze dell’ordine: non appena possibile, comunica l’accaduto ai carabinieri o alla polizia, contribuendo così a tenere traccia di questi fenomeni e ad avvisare altre potenziali vittime.

    Come ha sottolineato l’ex vicesindaco di Valbrembo, nel bergamasco, che ha diffuso l’allerta: “È importante che tutte le famiglie siano informate di queste truffe. Le forze dell’ordine sono già al corrente della situazione.” Questa truffa si aggiunge al “Wangiri”, un sistema di chiamate perse che addebita costi elevati, e ribadisce quanto sia importante diffidare delle chiamate sospette, soprattutto quando a essere coinvolti sono i propri cari.

    Purtroppo, le truffe telefoniche continuano a mietere vittime in Italia. Ma, informati e preparati, possiamo tutti fare la nostra parte per spegnere questo circolo vizioso, proteggendo noi stessi e i nostri cari.

      Storie vere

      Multa da 200 euro per una birra nei vicoli di Genova: “Aiutatemi a pagarla, offritemi una birretta virtuale!”

      Multata di 200 euro per una birra consumata nei vicoli della città della Lanterna, lancia una raccolta fondi sulla piattaforma di crowdfunding GoFundMe.

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        Genova, centro storico. Laura Capini, genovese doc, è diventata protagonista di una storia che mescola ironia, burocrazia e una richiesta decisamente… social. La signora è stata multata di 200 euro per aver portato con sé una bottiglia di birra nei vicoli del centro storico di Genova. Per fare risaltare l’assurda decisione dei vigili urbani – che comunque hanno seguito l’odinanza approvata dal Comune – ha deciso di lanciare una raccolta fondi su GoFundMe per coprire la “mazzata”. La donazione nel momento in cui scriviamo è arrivata a raccogliere l’88% (220 euro) della cifra richiesta che è di 250 euro totali con 21 donatori.

        Chi beve birra campa cent’anni…Meditate gente, meditate…

        Una Moretti in vetro da 66 cl: materiale pericolosissimo, vero arsenale di degrado urbano“, ci scherza sopra la Capini nel suo post, in cui racconta l’accaduto con il suo compagno Massimo. Fermati dalle forze della vigilanza urbana nella notte tra il 16 e il 17 novembre, i due si sono visti sequestrare le birre (una aperta, l’altra intonsa) e recapitare la sanzione di 200 euro. “Me la incornicio questa multa“, ha detto la Capini, passando poi dalle parole ai fatti e pubblicando la foto del verbale come fosse un’opera d’arte moderna. La giovane però non si è fermata all’umorismo. Infatti ha attivato una campagna di crowdfunding, ovvero una raccolta fondi online, invitando chi condivide la sua indignazione a offrirle “una birretta virtuale” per aiutarla a pagare la multa.

        Cosa dice l’ordinanza anti-alcol di Genova?

        La multa ricevuta da Laura si basa sul regolamento di polizia urbana in vigore nel centro storico, che vieta di detenere bevande alcoliche (e non) in contenitori di vetro o metallo all’aperto, dalle 22:00 alle 6:00. La misura, introdotta per contrastare degrado e microcriminalità, si somma all’ordinanza anti-alcol varata nel 2023 e prorogata fino a settembre del 2025. Questa vieta il consumo di alcolici in aree pubbliche in tutta Genova, a meno che non si trovino in dehors autorizzati o contenitori sigillati. In alcune “zone rosse” come Cornigliano, Sampierdarena e il centro storico, il divieto è persino più stringente, estendendosi dalle 12:00 alle 8:00 del giorno successivo. L’idea è prevenire abusi, ma il regolamento non fa distinzioni: birra o acqua in borraccia, tutto è passibile di sanzione.

        Deboli con i forti, forti con i deboli?

        Laura non nasconde il suo disappunto. “Le leggi servono, ma possono essere scritte e applicate in modo più sensato. Un paio d’anni fa multarono uno che mangiava in pausa pranzo. Non sarà il caso di rivedere le priorità?

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          Cronaca

          Trapani, orrore dietro le sbarre: torture e abusi nel carcere Cerulli, 11 arresti e 14 sospensioni

          Lanci d’acqua mista a urina, violenze gratuite e detenuti ridotti a oggetti: le parole del procuratore Gabriele Paci gettano luce su una realtà agghiacciante. 46 indagati tra gli agenti penitenziari.

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            L’orrore del carcere Pietro Cerulli di Trapani si è svelato in tutta la sua crudezza: una sequenza di abusi e violenze che, secondo la procura, andavano ben oltre l’episodico, configurandosi come un metodo sistematico per garantire l’ordine. Undici agenti penitenziari agli arresti domiciliari, quattordici sospesi dal servizio e un totale di 46 indagati. L’accusa è pesante: tortura, abuso d’autorità e falso ideologico.

            Le indagini, partite nel 2021 e concluse solo di recente, hanno rivelato uno scenario che sembra uscito da un romanzo dell’orrore. Il reparto blu, chiuso oggi per carenze igienico-sanitarie, era diventato il teatro di veri e propri abusi nei confronti dei detenuti, spesso con problemi psichiatrici. Qui, lontano da occhi indiscreti – visto che non vi erano telecamere – i detenuti venivano sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, come raccontato dal procuratore di Trapani Gabriele Paci: “Venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina e sottoposti a violenze quasi di gruppo, gratuite e inconcepibili”.

            Una prassi agghiacciante

            Secondo quanto emerso, l’uso della violenza non era un episodio isolato, ma una prassi per alcuni agenti. “Non si trattava di sfoghi sporadici, ma di un metodo per garantire l’ordine”, ha dichiarato Paci, aggiungendo che il gip Giancarlo Caruso ha riconosciuto in questi atti la configurazione del reato di tortura.

            Circa venti i casi accertati finora, ma le indagini sono state rese possibili solo grazie all’installazione di telecamere nel reparto blu, oggi chiuso. “Era un girone dantesco”, ha aggiunto il procuratore, “che sembra ripreso direttamente dalle pagine de I Miserabili di Victor Hugo”.

            L’indagine e le reazioni

            Le indagini, coordinate dal nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria di Palermo, hanno rotto il muro di omertà che spesso avvolge situazioni simili. Nonostante lo stress e le difficili condizioni lavorative degli agenti siano stati riconosciuti dal procuratore Paci, “questo non legittima assolutamente le violenze”, ha precisato.

            Il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, ha espresso soddisfazione per il fatto che il reato di tortura abbia permesso di incriminare i responsabili. “Questo reato è fondamentale per perseguire chi si macchia di simili crimini e per sostenere le vittime. Ma, soprattutto, è cruciale per rompere il muro di omertà”, ha commentato.

            Gonnella ha lodato le professionalità interne all’Amministrazione penitenziaria che hanno permesso di far emergere la verità e riconoscere i diritti fondamentali dei detenuti. “Ora ci auguriamo che si faccia piena chiarezza, riconoscendo le responsabilità in sede processuale”.

            Un sistema sotto accusa

            Il carcere di Trapani non è il primo a finire al centro di uno scandalo simile. Questi episodi mettono in evidenza un sistema che sembra incapace di proteggere i diritti fondamentali dei detenuti, pur riconoscendo le difficoltà operative degli agenti penitenziari. Tuttavia, ciò che emerge con forza è che nulla può giustificare una simile degenerazione del ruolo delle forze dell’ordine.

            Le indagini proseguono, e con esse la speranza che episodi come quelli avvenuti nel carcere Cerulli diventino, finalmente, solo un ricordo del passato.

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              Cronaca Nera

              Giulio Regeni, il racconto delle torture: «Bendato e portato a spalla, sfinito dal dolore»

              Durante il processo contro quattro 007 egiziani, un testimone racconta il brutale trattamento subito da Giulio Regeni. In aula, il video proiettato da Al Jazeera e la commossa testimonianza della sorella riportano alla luce dettagli atroci.

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                Giulio Regeni «ammanettato con le mani dietro la schiena, bendato, portato a spalla da due carcerieri perché sfinito dalla tortura». È questo uno dei dettagli emersi oggi durante il processo in corso a Roma contro quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati della morte del ricercatore friulano, rapito e ucciso al Cairo nel 2016.

                Un cittadino palestinese, ex detenuto in una struttura di sicurezza egiziana, ha raccontato in un video trasmesso da Al Jazeera e proiettato in aula: «L’ho visto uscire da un interrogatorio. Era piegato dal dolore, non riusciva a stare in piedi. Lo riportavano alle celle sorreggendolo».

                Le parole strazianti del testimone si sono unite alla commovente testimonianza di Irene Regeni, sorella di Giulio, che ha ricordato in lacrime il fratello: «Era un ragazzo normale, appassionato di storia e culture diverse. Studiava l’arabo ed era entusiasta di partire per l’Egitto. Per me era un esempio, il fratellone che dava consigli. Non immaginavamo che sarebbe finita così».

                La famiglia Regeni non ha mai smesso di cercare la verità. Durante l’udienza, Irene ha raccontato come scoprì della tortura inflitta a Giulio: «Ricordo una telefonata di mia madre: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».

                Anche il medico legale incaricato di analizzare il corpo di Giulio ha confermato le atroci sofferenze subite: «Bastonate sui piedi, bruciature e ammanettamento di polsi e caviglie. È stato sottoposto a torture indicibili».

                Il processo rappresenta un tentativo di fare luce su uno dei casi di violazione dei diritti umani più controversi degli ultimi anni, con un’attenzione crescente da parte della comunità internazionale.

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