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Cronaca Nera

Delitto dell’ultrà Boiocchi, arrestati i killer: «Ucciso nella guerra tra i tifosi dell’Inter»

Dietro l’omicidio del capo storico della Curva Nord c’è una faida da manuale: potere, soldi, biglietti, droga e silenzi. Il calcio c’entra poco. E lo Stato ci arriva solo quando scorre il sangue. Ma per anni, troppe volte, ha lasciato fare.

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    Un agguato in stile mafioso, in una strada della periferia milanese. Cinque colpi, due a segno. Una vittima che aveva fatto della curva uno strumento di potere. E un mandante, oggi collaboratore di giustizia, che parla di regolamenti di conti, di gerarchie, di successioni. Non è un romanzo criminale: è il calcio italiano nel suo lato più opaco, quello delle curve, dei clan e delle guerre intestine.

    L’arresto dei presunti autori e organizzatori dell’omicidio di Vittorio Boiocchi, freddato a Milano nel 2022, è un colpo importante per la giustizia. Ma non è una notizia nuova. Quello che emerge oggi, e che già si sapeva — o si fingeva di non sapere — è che una parte del tifo organizzato non ha nulla a che fare con lo sport. È un ambiente dove la violenza è un codice interno, e il consenso si compra e si vende. Dove chi “guida” la curva gestisce biglietti, merchandising, viaggi, sicurezza, estorsioni e — in molti casi — droga e legami con le mafie. E dove ogni tanto qualcuno cade.

    Boiocchi era stato appena scarcerato dopo 26 anni. È bastato questo a far temere che volesse tornare a comandare. A riprendersi i soldi, i favori, i rapporti. E così è stato ucciso. A ordinarlo, secondo la Procura antimafia di Milano, Andrea Beretta, suo successore, oggi pentito. E il quadro che emerge è quello di una curva gestita come un clan, con logiche tribali, capi, delfini e traditori.

    Ma il punto non è solo l’omicidio. È tutto il sistema che lo ha reso possibile. È il silenzio assenso di società sportive che da decenni trattano con questi soggetti, per mantenere la pace nello stadio. È la timidezza di istituzioni e leghe, che sanno ma si voltano dall’altra parte. È il paradosso di uno Stato che — come spesso accade — si muove con decisione solo quando ci scappa il morto.

    Perché a Milano, come in tante altre città, le curve non sono solo tifo, ma territori. E il territorio, se non lo governa lo Stato, lo governa qualcun altro. La “Doppia Curva”, l’indagine della Dda che ha svelato i rapporti tra tifo organizzato, clan della ‘ndrangheta e interessi trasversali nel mondo Inter-Milan, dovrebbe bastare per capire che il calcio è diventato solo la facciata. Dietro ci sono affari. Giri di denaro. Equilibri che nulla hanno a che fare con la passione.

    È normale che un capo ultrà venga ucciso in stile esecuzione? Che il suo successore finisca a sua volta coinvolto in un altro omicidio mafioso? Che uno dei killer venga arrestato in Bulgaria, mentre si nasconde sul Mar Nero, come un boss qualunque? No, non è normale. Ma è reso possibile da decenni di tolleranza, paura e connivenze.

    La Milano che oggi arresta, per fortuna, è anche la Milano che per anni ha lasciato fare. Come Roma, Napoli, Torino, Bergamo. Non è questione di geografia, ma di vuoto. Vuoto legislativo, vuoto educativo, vuoto di coraggio.

    Cosa ne sarà ora della Curva Nord? Chi prenderà il posto di chi? E quanti continueranno a fingere che si tratti “solo di tifo”? Fino al prossimo morto, alla prossima vendetta, al prossimo comunicato.

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      Delitto di Garlasco, il tribunale concede la semilibertà a Stasi: passerà parte della giornata fuori dal carcere

      Nessuna violazione, secondo i giudici, nell’intervista concessa da Stasi alle Iene. La sua condotta è stata valutata “corretta e responsabile”. Per la Procura, invece, l’episodio meritava un approfondimento. Ma ora l’ex studente della Bocconi potrà lasciare il carcere di giorno, con base presso lo zio e contratto da contabile.

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        Un nome che ancora oggi divide l’opinione pubblica, a quasi vent’anni da uno dei delitti più discussi e mediatici del nostro Paese. Alberto Stasi, condannato in via definitiva nel 2015 per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, potrà uscire dal carcere di giorno. A stabilirlo sono stati i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Milano, che hanno accolto la richiesta di semilibertà avanzata dai legali dell’uomo lo scorso dicembre.

        Parte della giornata fuori da Bollate

        La misura consente all’ex studente della Bocconi, oggi 41enne, di trascorrere parte della giornata fuori da Bollate, non solo per motivi di lavoro ma anche per partecipare ad attività di reinserimento sociale. La sera, però, dovrà fare rientro in carcere. Una decisione che arriva dopo una lunga valutazione del suo percorso detentivo, ritenuto “connotato da correttezza, serietà e rispetto delle regole”, come riportato nel dispositivo firmato dalle giudici Federica Gentile e Maria Paola Caffarena, affiancate da due esperti.

        Appoggio abitativo presso lo zio

        Il provvedimento autorizza il “proseguimento dell’attività lavorativa già in corso”, un impiego da contabile amministrativo con contratto a tempo indeterminato, e consente che Stasi abbia appoggio abitativo presso lo zio, durante le ore in cui sarà fuori dal penitenziario.

        Opposizione della Procura

        Un percorso che ha però incontrato la netta opposizione della Procura generale di Milano, che aveva chiesto ai giudici di rigettare la richiesta o quantomeno rinviare la decisione, per poter approfondire un passaggio ritenuto significativo: l’intervista rilasciata da Stasi alla trasmissione Le Iene. Un’apparizione televisiva, secondo i magistrati, che sarebbe avvenuta senza autorizzazione. Una violazione, quindi, delle prescrizioni previste per chi usufruisce di benefici penitenziari.

        La ricostruzione della difesa

        Diversa la ricostruzione della difesa, che ha spiegato come l’intervista sia avvenuta durante un permesso premio regolarmente concesso. La tesi è stata accolta dal Tribunale di Sorveglianza, che non solo non ha ravvisato alcuna infrazione formale, ma ha anche giudicato “pacato e rispettoso” il contenuto dell’intervento televisivo. “Il comportamento, valutato all’interno di un percorso penitenziario rigoroso e privo di criticità – scrivono i giudici – non è idoneo a compromettere gli esiti della relazione di osservazione”.

        Aveva già avuto permessi premio

        Non è il primo beneficio penitenziario che viene concesso a Stasi, che negli anni ha già usufruito di permessi premio e lavoro esterno, sempre – secondo il carcere di Bollate – con profitto e nel rispetto delle regole. Gli educatori e il personale dell’istituto lo descrivono come affidabile, partecipe e responsabile, e i giudici ne hanno tenuto conto nel disporre la nuova misura, che rappresenta un ulteriore passo verso la futura scarcerazione.

        Ma al di là degli aspetti tecnici e del linguaggio giuridico, resta la memoria di quel 13 agosto 2007, quando il corpo di Chiara Poggi fu ritrovato senza vita nella villetta di famiglia a Garlasco, e il nome di Alberto Stasi entrò per sempre nella cronaca giudiziaria italiana. Un caso lungo, tormentato, fatto di assoluzioni iniziali e ribaltamenti in appello, che si è chiuso con la condanna definitiva a 16 anni di reclusione per omicidio volontario, nonostante Stasi abbia sempre professato la propria innocenza.

        Ora, dopo oltre otto anni dietro le sbarre, l’uomo può tornare a vivere alcune ore fuori dal carcere, muovendosi in un regime controllato ma meno restrittivo. Un passaggio che non cancella la condanna né attenua il peso di quella vicenda, ma che segna una nuova fase. Per i giudici, si tratta di una misura compatibile con il principio rieducativo della pena. Per altri, invece, è solo l’ennesima ferita che il sistema infligge alla memoria di Chiara.

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          Stasi e la semilibertà, la Procura dice no: “Intervista non autorizzata”. Ma il carcere lo smentisce

          Il tribunale di Sorveglianza di Milano si è riservato la decisione: attesa entro cinque giorni. La difesa: “Nessuna infrazione”. Il carcere di Bollate conferma: l’intervista fu registrata durante un permesso premio e non ha violato le regole. Ma la Procura chiede il rigetto o almeno un rinvio.

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            Un’intervista, un permesso premio e ora un no che rischia di pesare sul percorso di reinserimento di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. La Procura generale di Milano ha espresso parere contrario alla concessione della semilibertà, richiesta dai legali del 41enne e discussa ieri mattina in un’udienza a porte chiuse davanti al tribunale di Sorveglianza.

            Motivo del rigetto? L’intervista rilasciata alla trasmissione “Le Iene” nel marzo scorso, secondo i magistrati non autorizzata. Una circostanza che per la sostituta procuratrice generale Valeria Marino rappresenta una possibile violazione e, di conseguenza, un elemento di ostacolo alla concessione della misura alternativa. In subordine, la Procura ha chiesto un rinvio per effettuare ulteriori accertamenti.

            Peccato che lo stesso carcere di Bollate, attraverso una relazione firmata dal direttore Giorgio Leggieri, abbia precisato che l’intervista è avvenuta durante un permesso premio regolarmente concesso e non ha violato alcuna prescrizione. “Non si sono rilevate infrazioni”, si legge nel documento. E anche la redazione de “Le Iene” ha preso posizione: “Se il direttore dice che non ci sono state infrazioni, ci chiediamo quale regola sia stata infranta”.

            Due versioni a confronto

            Una divergenza che ha creato confusione, anche mediatica. Subito dopo l’udienza, uno dei legali di Stasi, l’avvocato Glauco Gasperini, aveva parlato di un “parere parzialmente positivo” da parte della Procura, un’interpretazione basata – si è poi capito – sulle relazioni favorevoli del carcere. Ma l’ufficialità ha poi detto altro: il parere della Procura è negativo, proprio a causa di quella intervista.

            Il tribunale di Sorveglianza, presieduto dalla giudice Anna Maria Oddone, si è riservato la decisione, attesa entro cinque giorni. Non è la prima volta che il caso Stasi torna sotto i riflettori. Il 41enne è in carcere dal 2015, dopo la condanna definitiva per l’omicidio avvenuto a Garlasco nel 2007, e dal 2023 è stato ammesso al lavoro esterno come contabile.

            Semilibertà, un passo in più

            A differenza della liberazione condizionale, per cui serve l’ammissione di responsabilità, la semilibertà non richiede un “ravvedimento”. E Stasi, anche in interviste recenti, ha ribadito la propria innocenza, facendo riferimento alle nuove indagini su Andrea Sempio, ex amico di Chiara Poggi. Ma al di là delle dichiarazioni, a giocare a suo favore ci sono dieci anni di buona condotta e le relazioni positive di educatori e operatori penitenziari.

            Il passaggio alla semilibertà gli consentirebbe una permanenza più ampia all’esterno del carcere, non limitata al solo orario lavorativo. Un percorso di graduale ritorno alla vita civile, come previsto dalla normativa, che però ora si complica per un’intervista che – almeno secondo il carcere – non ha mai violato le regole.

            Un futuro segnato dal tempo

            A Stasi restano da scontare poco più di quattro anni, e tenendo conto dei benefici di legge (45 giorni di sconto ogni sei mesi), il fine pena potrebbe arrivare tra il 2028 e il 2029. Entro quel termine, potrebbe chiedere anche l’affidamento in prova, misura alternativa che prevede il reinserimento totale con obblighi specifici e lavori socialmente utili.

            Ma intanto il suo presente si decide a palazzo di giustizia, piano terra, davanti a un’aula chiusa al pubblico ma piena di telecamere fuori dalla porta. Stasi non c’era, per scelta e per rispetto – ha fatto sapere il suo legale – ma il suo volto è tornato ovunque. Un nome che continua a dividere, e che continua a far discutere. Anche quando, almeno formalmente, ha rispettato le regole.

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              La famiglia Cecchettin contro le motivazioni della sentenza su Turetta: «Un precedente pericoloso»

              Secondo i giudici, le 75 coltellate non sono crudeltà ma inesperienza. Elena Cecchettin parla di “disinteresse per la vita umana” e accusa la giustizia di alimentare l’idea che anche la violenza più efferata possa essere spiegata, compresa, ridotta a un errore tecnico. Una sentenza destinata a dividere.

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                «Una sentenza simile, con motivazioni simili, in un momento storico come questo, non solo è pericolosa, ma segna un terribile precedente». Elena Cecchettin, sorella di Giulia, la giovane uccisa da Filippo Turetta l’11 novembre 2023, affida a Instagram la sua reazione, netta e accorata, alle motivazioni della sentenza che ha condannato il ventitreenne all’ergastolo. Una condanna pesante, sì, ma che secondo Elena — e non solo lei — lascia aperti varchi inquietanti sul piano culturale e giuridico.

                Niente crudeltà?

                La frase più controversa è quella con cui la Corte d’Assise di Venezia esclude l’aggravante della crudeltà: le 75 coltellate inferte da Turetta, scrivono i giudici, non sono state il frutto di una volontà deliberata di infliggere dolore gratuito, bensì la conseguenza della sua «inabilità» e «inesperienza» nel compiere un omicidio.

                Un segnale devastante

                Un passaggio che ha fatto sobbalzare in molti, e che Elena Cecchettin definisce senza mezzi termini un segnale devastante: «Se nemmeno un numero di coltellate così elevato è sufficiente a configurare la crudeltà, abbiamo un problema. Perché se inesperienza vuol dire esclusione dell’aggravante, allora possiamo anche dire che non ci importa della vita umana. Della vita di una donna».

                Si è preparato in ogni dettaglio

                Il nodo centrale del ragionamento, per Elena, è il messaggio implicito che passa: che anche l’omicidio premeditato, eseguito con meticolosità, preparato in ogni dettaglio (come dimostra la lista trovata sul cellulare di Turetta, con tanto di zaino, badile e sacchi della spazzatura), possa essere in qualche modo attenuato se l’esecutore non ha esperienza.

                «Turetta non aveva esitazioni — si legge nella sentenza — attuò pedissequamente il piano ideato giorni prima». Eppure, quella brutalità — 75 fendenti, solo due o tre mortali — viene descritta come quasi involontaria, frutto di goffaggine, più che di spietatezza.

                Non è solo uno sfogo personale

                Il post di Elena Cecchettin non è un semplice sfogo personale. È una riflessione politica e civile. «Sì, fa la differenza riconoscere le aggravanti. Perché vuol dire che la violenza di genere non è presente solo dove c’è il coltello. Ma molto prima. E significa che abbiamo tempo per prevenirla».

                E ancora: «La giustizia non ha solo il compito di chiarire il passato, ma anche di prevenire il futuro». Un monito che risuona amaro: se oggi si decide che accoltellare 75 volte non è crudeltà, cosa impedirà domani a qualcun altro di pensare che si può fare, senza “aggravanti”?

                Non c’è neppure lo stalking

                Anche l’aggravante dello stalking, pure contestata, è stata esclusa. La Corte ha riconosciuto «condotte moleste, prepotenti, vessatorie», ma ha sottolineato che Giulia «non aveva paura di Filippo», come riferito dai famigliari. Una linea che, agli occhi di molti osservatori, rischia di diventare una trappola: se una vittima non ha (o non mostra) paura, il persecutore non è tale?

                I commenti critici sono arrivati anche dalla politica. La deputata Luana Zanella ha parlato di «notte lunga» da affrontare, mentre Martina Semenzato, presidente della commissione femminicidi, ha domandato con sarcasmo: «C’è un numero minimo di coltellate per definire un gesto crudele?». La tesi dell’overkilling — cioè dell’eccesso di violenza tipico del femminicidio — sembra qui svanire dietro a un tecnicismo che, per molti, suona come un alibi.

                Dal punto di vista processuale, la sentenza regge. È stata riconosciuta la premeditazione, esclusa ogni attenuante, e i giudici hanno definito Turetta «lucido, determinato, consapevole». Hanno sottolineato come la fuga in Germania, durata sette giorni, sia finita solo quando «ha finito i soldi» e non per una qualche forma di pentimento.

                Non un gesto riparativo, non una parola per la famiglia di Giulia. Eppure, resta quella motivazione che pesa come un macigno: la crudeltà, per la giustizia italiana, deve avere caratteristiche ben diverse.

                Elena Cecchettin, che sin dai primi giorni dopo il delitto ha trasformato il proprio dolore in impegno pubblico, conclude il suo messaggio con una frase che suona come una denuncia collettiva: «Se una persona si sentirà autorizzata ad accoltellarne un’altra 75 volte perché sa che questo non costituisce crudeltà, allora saremo tutti responsabili di averlo permesso».

                Il caso è chiuso, ma la discussione — inevitabilmente — è appena cominciata.

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