Cronaca Nera
Gino Cecchettin: «La memoria di Giulia è stata umiliata. La giustizia deve basarsi sui fatti»
Tra citazioni inappropriate e tentativi di smontare le aggravanti, Gino Cecchettin racconta il suo dolore e l’impegno per combattere la violenza anche fuori dalle aule di tribunale.
«Io ieri mi sono nuovamente sentito offeso e la memoria di Giulia umiliata», ha scritto Gino Cecchettin sui social, all’indomani dell’udienza che ha visto l’arringa della difesa di Filippo Turetta, accusato dell’omicidio della figlia. «Il diritto alla difesa è sacro, ma credo sia importante mantenersi entro i limiti del buon senso e del rispetto umano».
Un intervento raro per Gino Cecchettin, che ha scelto di sfogarsi su Facebook per raccontare il proprio punto di vista. «Le parole della difesa ci hanno ferito. “È un ragazzino di 22 anni”, “ha colpito alla cieca”, “è stato un po’ come va”. Frasi usate per smontare le aggravanti di crudeltà e premeditazione. Ma noi siamo la famiglia della vittima. Il nostro dolore non può essere ignorato».
Sotto accusa, anche la citazione di Pablo Escobar da parte degli avvocati di Turetta. «Perché confrontare Filippo con un boss della droga? Che senso ha? È stata un’ulteriore offesa. Hanno pensato solo a lui e non a noi, a quanto certe parole potessero ferirci. E noi abbiamo già sofferto tanto».
Fiducia nella giustizia
In vista della sentenza del 3 dicembre, Gino Cecchettin ribadisce la fiducia nella giustizia: «La richiesta dell’ergastolo? Non è un reato parlarne. Bisogna basarsi sui fatti commessi. Mi fido della giustizia, il pm e la sua squadra hanno lavorato egregiamente».
Tuttavia, riconosce la complessità della pena: «È giusto pensarci bene prima di infliggerla, ma le leggi italiane la contemplano. Sono certo che chi ha lavorato a questo caso abbia ponderato ogni decisione con serietà».
Impegno contro la violenza
Oltre al processo, il papà di Giulia guarda avanti, impegnandosi attivamente contro la violenza. «Stiamo organizzando un incontro con il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara per trovare percorsi comuni che possano combattere la violenza. La Fondazione Giulia Cecchettin ha tanto lavoro da fare. Il nostro obiettivo è presentare una proposta concreta il prima possibile. Ce n’è bisogno».
Gino Cecchettin sarà presente in aula per la sentenza: «È doveroso esserci, per rispetto verso chi ha lavorato al caso e verso Giulia. Ma il nostro impegno non finisce qui: dobbiamo fare di più, dentro e fuori le aule di tribunale».
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Cronaca Nera
Processo Turetta, la difesa in Corte d’Assise: «Giudicate secondo diritto, non con una mano guidata dalla vendetta»
Accusato di omicidio aggravato e altri reati, Turetta attende il verdetto il 3 dicembre. La difesa rinuncia alla perizia psichiatrica e agli ascolti dei testimoni.
Nella sede della Corte d’Assise di Venezia, si è consumata oggi l’arringa dell’avvocato Giovanni Caruso, difensore di Filippo Turetta, accusato dell’omicidio aggravato di Giulia Cecchettin. Caruso si è rivolto alla Corte con un appello forte e diretto: «Voi non dovrete emettere una sentenza giusta, dovrete pronunciare una sentenza secondo legalità. E la legalità vi impone di giudicare con una mano legata dietro la schiena, che non risponde alla legge del taglione».
Le accuse contro Turetta sono gravissime: omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dall’efferatezza, stalking, sequestro di persona, detenzione d’armi e occultamento di cadavere. Una serie di reati che hanno portato il pubblico ministero Andrea Petroni, nella sua requisitoria, a chiedere la pena dell’ergastolo.
Caruso, però, ha impostato la difesa su un approccio che definisce “celerità e rispetto del diritto”. L’avvocato ha rinunciato all’udienza preliminare, alla perizia psichiatrica e all’ascolto dei testimoni, accettando integralmente il fascicolo delle indagini. «Non è un processo per stabilire cosa è successo, ma per decidere una pena. E l’ergastolo, da tempo, è ritenuto una pena inumana e degradante. È il tributo che lo Stato di diritto paga a chi vorrebbe buttare via la chiave».
Turetta, immobile accanto al suo avvocato, ha mantenuto la stessa posa assunta durante la requisitoria del pm: la testa china, lo sguardo perso nel vuoto. Nessun familiare dell’imputato era presente in aula oggi, né lo erano durante l’interrogatorio dello scorso ottobre. La loro assenza si è fatta notare e sarà probabilmente colmata il 3 dicembre, quando la Corte d’Assise emetterà il verdetto.
La difesa ha voluto sottolineare che l’unico obiettivo è evitare che il processo si trasformi in una vendetta pubblica. «L’esposizione alla gogna dell’imputato è inciviltà giuridica», ha concluso Caruso.
Con il verdetto ormai alle porte, il dibattito tra accusa e difesa segna un momento cruciale. Da un lato, il pm chiede l’ergastolo per uno dei casi più gravi e mediaticamente rilevanti degli ultimi anni; dall’altro, la difesa insiste sulla necessità di rispettare il diritto e non cedere alla pressione sociale. Il destino di Filippo Turetta sarà deciso tra pochi giorni, mentre l’intero Paese osserva con attenzione.
Cronaca Nera
Giulio Regeni, il racconto delle torture: «Bendato e portato a spalla, sfinito dal dolore»
Durante il processo contro quattro 007 egiziani, un testimone racconta il brutale trattamento subito da Giulio Regeni. In aula, il video proiettato da Al Jazeera e la commossa testimonianza della sorella riportano alla luce dettagli atroci.
Giulio Regeni «ammanettato con le mani dietro la schiena, bendato, portato a spalla da due carcerieri perché sfinito dalla tortura». È questo uno dei dettagli emersi oggi durante il processo in corso a Roma contro quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati della morte del ricercatore friulano, rapito e ucciso al Cairo nel 2016.
Un cittadino palestinese, ex detenuto in una struttura di sicurezza egiziana, ha raccontato in un video trasmesso da Al Jazeera e proiettato in aula: «L’ho visto uscire da un interrogatorio. Era piegato dal dolore, non riusciva a stare in piedi. Lo riportavano alle celle sorreggendolo».
Le parole strazianti del testimone si sono unite alla commovente testimonianza di Irene Regeni, sorella di Giulio, che ha ricordato in lacrime il fratello: «Era un ragazzo normale, appassionato di storia e culture diverse. Studiava l’arabo ed era entusiasta di partire per l’Egitto. Per me era un esempio, il fratellone che dava consigli. Non immaginavamo che sarebbe finita così».
La famiglia Regeni non ha mai smesso di cercare la verità. Durante l’udienza, Irene ha raccontato come scoprì della tortura inflitta a Giulio: «Ricordo una telefonata di mia madre: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».
Anche il medico legale incaricato di analizzare il corpo di Giulio ha confermato le atroci sofferenze subite: «Bastonate sui piedi, bruciature e ammanettamento di polsi e caviglie. È stato sottoposto a torture indicibili».
Il processo rappresenta un tentativo di fare luce su uno dei casi di violazione dei diritti umani più controversi degli ultimi anni, con un’attenzione crescente da parte della comunità internazionale.
Cronaca Nera
Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati
Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.
Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.
Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.
Come difendersi dallo spoofing
Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.
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