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Cronaca Nera

Il genetista Linarello sul caso Garlasco: “Il Dna sulle mani di Chiara Poggi? È di Andrea Sempio, non ho dubbi”

Le nuove perizie dei consulenti della Procura di Pavia confermano in pieno l’analisi di otto anni fa e riaprono il giallo di Garlasco. Linarello smonta l’ipotesi della contaminazione accidentale: «Quel Dna non poteva essere lì da giorni, Sempio o chi per lui ha toccato Chiara dopo l’aggressione».

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    Il Dna sopra le unghie di Chiara Poggi? “È quello di Sempio, non ho dubbi”. Pasquale Linarello lo afferma senza esitazioni, consapevole del peso delle sue parole. È stato lui, il genetista che per primo, otto anni fa, ha attribuito ad Andrea Sempio il profilo genetico rinvenuto sulle mani di Chiara Poggi, la ragazza uccisa nella sua villetta di Garlasco il 13 agosto 2007. Quelle stesse conclusioni, a lungo ignorate e considerate non decisive, oggi tornano al centro della scena. I nuovi periti della Procura di Pavia, incaricati di riesaminare il caso, confermano in pieno il lavoro di Linarello e riaprono la pista che porta a Sempio, amico di famiglia dei Poggi.

    «Non è un Dna bellissimo, questo è vero – ammette Linarello – ma è più che sufficiente per fare un confronto. E il confronto ci dice senza margine di dubbio che è il Dna di Andrea Sempio». Nessun tentennamento, nessuna zona grigia. Secondo l’esperto, la traccia trovata sulle dita di Chiara corrisponde perfettamente a quella di Sempio, o meglio, a quella di un maschio appartenente al suo nucleo familiare. «Siccome Andrea Sempio non ha fratelli – chiarisce il genetista – o è suo, o è di suo padre».

    Ma Linarello è convinto che l’identificazione sia univoca: «Io lavoravo alla cieca, non sapevo che il profilo genetico da confrontare fosse quello trovato sul corpo della ragazza. Lo confrontai con quello estratto da una tazzina toccata da Sempio e il risultato fu inequivocabile: erano identici».

    Il caso Garlasco, che ha visto condannato in via definitiva Alberto Stasi, fidanzato della vittima, sembra dunque riaprirsi. Linarello è netto nel respingere la vecchia teoria secondo cui il Dna di Sempio sarebbe potuto finire accidentalmente sulle mani della ragazza: «Quando Chiara è stata uccisa – spiega – il computer di casa non veniva acceso da tre giorni. Dovremmo pensare che in piena estate non si sia mai lavata le mani o fatta una doccia, e che il Dna sia rimasto lì intatto: è impossibile».

    C’è un altro dettaglio cruciale, che il genetista mette in evidenza: «Il Dna non era sotto le unghie ma sopra. Infatti il Ris di Parma, subito dopo l’omicidio, cercò tracce sotto le unghie e non trovò nulla». Questo elemento porta Linarello a una deduzione: «Sappiamo che Chiara non ha avuto il tempo di difendersi, è stata colpita subito. Quel Dna, quindi, deve essere finito sulle sue mani successivamente, probabilmente quando l’aggressore l’ha trascinata per la casa. Ed è lì che il contatto con Sempio si fa possibile».

    Nel secondo processo d’appello, il professor Avato già segnalò la presenza di un profilo genetico maschile ignoto. Ma la sua voce non trovò spazio nel dibattimento: «Non gli permisero di confrontarsi con il consulente dei giudici», ricorda Linarello, che ora vede confermate le sue analisi dal nuovo pool di esperti.

    Anche se il materiale genetico originale non è più disponibile, il genetista si dice certo: «La tecnica ha fatto passi avanti, ma i risultati che abbiamo sono sufficienti. È il Dna di Sempio». E questa nuova verità scientifica riapre una ferita mai del tutto rimarginata.

    Adesso il destino giudiziario di Andrea Sempio – mai formalmente accusato in passato – è nelle mani della Procura di Pavia. Sarà il tribunale a stabilire se questo tassello sarà sufficiente per riaprire, dopo quasi due decenni, un giallo che ha segnato la cronaca italiana.

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      Sempio, l’alibi scricchiola: il giallo dello scontrino, la libreria chiusa e le risposte contraddittorie

      Lo scontrino trovato un anno dopo nel cassetto, la libreria chiusa, il cellulare che “non aggancia” Vigevano e un dialogo captato dai carabinieri: nuovi dubbi sulla versione di Sempio per la mattina dell’omicidio Poggi

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        Cosa lega un semplice scontrino da 1 euro al delitto di Garlasco? È su quel pezzetto di carta che si regge da anni l’alibi di Andrea Sempio, l’amico di Marco Poggi, fratello della vittima, che fin dalle prime fasi dell’inchiesta ha sostenuto di trovarsi a Vigevano la mattina in cui Chiara Poggi venne uccisa. Oggi, però, quell’alibi presenta più di una crepa.

        Il biglietto del parcheggio, emesso alle 10.18 del 13 agosto 2007 in piazza Sant’Ambrogio, è stato ritrovato nell’auto di famiglia dal padre di Sempio solo una settimana dopo il delitto e consegnato ai carabinieri oltre un anno più tardi, durante il secondo interrogatorio del figlio. Conservato per mesi in un cassetto, viene oggi considerato l’unico elemento materiale che collocherebbe Sempio fuori da Garlasco, proprio mentre Chiara veniva uccisa nella sua abitazione.

        Eppure, intorno a questo scontrino, emergono dettagli che sollevano interrogativi. Sempio ha sempre dichiarato di essere andato a Vigevano per acquistare dei libri, trovando però la libreria chiusa. Un dettaglio apparentemente secondario, che assume un peso diverso quando nel 2017, sotto intercettazione, Sempio stesso si mostra titubante. Riferendosi al verbale con i magistrati, confessa al padre: «Mi han chiesto se ero andato a Vigevano. Siccome ero andato a comprare il cellulare e non i libri, hanno rilevato il mio cellulare lì. Ho detto che non mi ricordo».

        Un cambio di versione che mina la coerenza del racconto. Anche perché, dai tabulati, emerge che il cellulare di Sempio, tra le 9.58 e le 12.18, ha sempre agganciato la cella di Garlasco, mai quelle di Vigevano. La spiegazione ufficiale è che per Vodafone, «in astratto», questo scenario sarebbe possibile. Ma i tracciati delle celle di Vigevano non vennero mai acquisiti.

        Ci sono poi altri dettagli che aggiungono mistero. Sempre Sempio, parlando con il padre, rileva una discrepanza sull’effettivo momento in cui lo scontrino fu trovato. «Ne abbiamo cannata una», dice al padre, «che io ho detto che lo scontrino era stato ritrovato dopo che ero stato sentito, tu hai detto che l’abbiamo trovato prima». Il padre prova a rassicurarlo: «A me sembra la prima, però non cambia niente».

        In realtà cambia eccome. Perché lo scontrino rappresenta la chiave di volta dell’alibi di Sempio e ogni incertezza temporale attorno alla sua scoperta alimenta dubbi e sospetti. Anche il gip, nel decreto di archiviazione del 2017, nota che Sempio effettuò una sola chiamata alle 9.58, agganciando la cella di Garlasco, e che solo dopo, tra le 10 e le 11, si sarebbe spostato a Vigevano, rientrando poi in paese senza mai essere tracciato dalle celle cittadine.

        A rendere ancora più ambigua la ricostruzione ci sono poi le dichiarazioni dei genitori di Sempio: entrambi confermano che il figlio quella mattina avrebbe preso l’auto per andare in libreria, ma secondo il figlio sarebbe stato invece un negozio di cellulari. Inoltre, l’agenda con la lista degli impegni di quella giornata, elemento utile a chiarire i movimenti, non è mai stata trovata.

        Sempio era già stato sentito nel 2007, come amico della famiglia Poggi, ma solo dieci anni dopo, con la riapertura dell’inchiesta, la sua posizione è stata nuovamente approfondita. La procura aveva già rilevato criticità nella sua versione, ma ora, con l’indagine nuovamente aperta dopo le ultime rivelazioni sul DNA trovato sulle unghie della vittima, anche l’alibi del parcheggio rischia di crollare sotto il peso delle contraddizioni.

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          Cronaca Nera

          Saviano accusa: «Coca, escort e soldi facili, così la Gintoneria ripropone il copione delle mafie al Nord»

          «Il locale di Milano segue la logica criminale che la ‘Ndrangheta ha esportato negli anni Ottanta: oggi tutto è amplificato dai social e dalla ricerca della fama»

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            Roberto Saviano lancia un affondo preciso e durissimo dal suo profilo Instagram: l’affaire Gintoneria, il locale milanese travolto dall’inchiesta per droga e prostituzione, è il riflesso di una dinamica che parla direttamente alle viscere del potere criminale in Lombardia. Non si limita a leggere i fatti giudiziari: Saviano scava nella cultura che li rende possibili, evocando i legami storici tra la ‘Ndrangheta e la gestione dei locali notturni nel Nord Italia, da sempre terreno fertile per affari illeciti e riciclaggio.

            Il night club, spiega lo scrittore, è stato per anni un baluardo delle mafie in trasferta, in particolare tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le cosche calabresi e campane misero radici solide tra Milano e l’hinterland. “Per loro – racconta Saviano – questi locali erano come ristoranti sotto controllo: vendere droga sì, ma senza dare nell’occhio, con una regola aurea di clandestinità e discrezione”. Poi però è arrivata un’altra scuola, quella incarnata da Francis Turatello, il boss milanese che comprese come il crimine potesse cambiare pelle: ostentare il malaffare e renderlo parte integrante del business.

            Oggi, in piena era social, Saviano vede nel modello “Turatello 2.0” la chiave per capire l’attrattiva morbosa di posti come la Gintoneria. “Lacerenza non fa altro che riproporre questa dinamica: espone il peccato, lo rende marketing, sa che l’illegalità ostentata è un valore aggiunto per i suoi clienti”, affonda lo scrittore. E prosegue: “Il male, anche per chi lo disprezza, appare più autentico del bene. E la Gintoneria è la versione pacchiana e Instagram-friendly di questo vecchio copione”.

            Ma chi frequenta davvero il “tempio” della Gintoneria, incastonato tra i palazzi dietro la Stazione Centrale di Milano? Non certo l’élite della finanza o gli imprenditori della Milano che conta. I frequentatori abituali sono piccoli borghesi in cerca di status symbol da emulare: champagne spruzzato sulle tavolate, escort da esibire come trofei, cocaina spacciata come ingrediente della scalata sociale. “Il fruitore-tipo di quel locale è un parvenu con portafoglio da business class, ma anima da emarginato”, scrive Saviano, cogliendo la sottile distanza che separa questo mondo da quello dei veri circoli esclusivi della metropoli.

            Le cronache raccontano di personaggi come il leggendario “Lucione”, capace di bruciare 600mila euro in pochi anni in gin e serate ad alto tasso di eccessi. Il tutto giustificato alla Guardia di Finanza con la solita causale: “Champagne”. Ma in realtà serviva ad acquistare i “pacchetti Lacerenza”, vere e proprie combo di alcol e sesso recapitate anche a domicilio dal fido “Righello”, altra figura chiave dell’inchiesta.

            Dietro a questa apparente farsa da “Milano by night” si cela però un sistema ben più preoccupante. Per la Procura l’interesse è puntato su reati pesanti come lo sfruttamento della prostituzione, lo spaccio e, soprattutto, l’autoriciclaggio. Gli inquirenti sospettano che parte dei proventi – ben 2 milioni di euro nel 2023 – siano finiti in Albania, patria d’adozione di Stefania Nobile e Wanna Marchi, partner in affari di Lacerenza con la Ginco Eventi Spa. Un tesoretto che, secondo gli investigatori, potrebbe essere stato reinvestito nei locali gemelli della Gintoneria aperti a Tirana e Durazzo.

            L’inchiesta disegna così la parabola di una Milano deformata, dove l’ostentazione cafonal, l’alcol e le “notti senza regole” sostituiscono l’eleganza del passato. E dove, come scrive Saviano, il crimine non si limita più a nascondersi: “Ora ti mostra in faccia ciò che è, e questo basta a renderlo irresistibile per chi ha bisogno di sentirsi qualcuno, anche solo per una notte”.

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              Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

              Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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                Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

                “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

                “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

                Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

                “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

                Un puzzle senza pezzi combacianti

                Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

                E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

                E Andrea Sempio?

                L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

                Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

                Sedici anni dopo, i dubbi restano

                Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

                Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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