Cronaca Nera
La famiglia Cecchettin contro le motivazioni della sentenza su Turetta: «Un precedente pericoloso»
Secondo i giudici, le 75 coltellate non sono crudeltà ma inesperienza. Elena Cecchettin parla di “disinteresse per la vita umana” e accusa la giustizia di alimentare l’idea che anche la violenza più efferata possa essere spiegata, compresa, ridotta a un errore tecnico. Una sentenza destinata a dividere.

«Una sentenza simile, con motivazioni simili, in un momento storico come questo, non solo è pericolosa, ma segna un terribile precedente». Elena Cecchettin, sorella di Giulia, la giovane uccisa da Filippo Turetta l’11 novembre 2023, affida a Instagram la sua reazione, netta e accorata, alle motivazioni della sentenza che ha condannato il ventitreenne all’ergastolo. Una condanna pesante, sì, ma che secondo Elena — e non solo lei — lascia aperti varchi inquietanti sul piano culturale e giuridico.
Niente crudeltà?
La frase più controversa è quella con cui la Corte d’Assise di Venezia esclude l’aggravante della crudeltà: le 75 coltellate inferte da Turetta, scrivono i giudici, non sono state il frutto di una volontà deliberata di infliggere dolore gratuito, bensì la conseguenza della sua «inabilità» e «inesperienza» nel compiere un omicidio.
Un segnale devastante
Un passaggio che ha fatto sobbalzare in molti, e che Elena Cecchettin definisce senza mezzi termini un segnale devastante: «Se nemmeno un numero di coltellate così elevato è sufficiente a configurare la crudeltà, abbiamo un problema. Perché se inesperienza vuol dire esclusione dell’aggravante, allora possiamo anche dire che non ci importa della vita umana. Della vita di una donna».
Si è preparato in ogni dettaglio
Il nodo centrale del ragionamento, per Elena, è il messaggio implicito che passa: che anche l’omicidio premeditato, eseguito con meticolosità, preparato in ogni dettaglio (come dimostra la lista trovata sul cellulare di Turetta, con tanto di zaino, badile e sacchi della spazzatura), possa essere in qualche modo attenuato se l’esecutore non ha esperienza.
«Turetta non aveva esitazioni — si legge nella sentenza — attuò pedissequamente il piano ideato giorni prima». Eppure, quella brutalità — 75 fendenti, solo due o tre mortali — viene descritta come quasi involontaria, frutto di goffaggine, più che di spietatezza.
Non è solo uno sfogo personale
Il post di Elena Cecchettin non è un semplice sfogo personale. È una riflessione politica e civile. «Sì, fa la differenza riconoscere le aggravanti. Perché vuol dire che la violenza di genere non è presente solo dove c’è il coltello. Ma molto prima. E significa che abbiamo tempo per prevenirla».
E ancora: «La giustizia non ha solo il compito di chiarire il passato, ma anche di prevenire il futuro». Un monito che risuona amaro: se oggi si decide che accoltellare 75 volte non è crudeltà, cosa impedirà domani a qualcun altro di pensare che si può fare, senza “aggravanti”?
Non c’è neppure lo stalking
Anche l’aggravante dello stalking, pure contestata, è stata esclusa. La Corte ha riconosciuto «condotte moleste, prepotenti, vessatorie», ma ha sottolineato che Giulia «non aveva paura di Filippo», come riferito dai famigliari. Una linea che, agli occhi di molti osservatori, rischia di diventare una trappola: se una vittima non ha (o non mostra) paura, il persecutore non è tale?
I commenti critici sono arrivati anche dalla politica. La deputata Luana Zanella ha parlato di «notte lunga» da affrontare, mentre Martina Semenzato, presidente della commissione femminicidi, ha domandato con sarcasmo: «C’è un numero minimo di coltellate per definire un gesto crudele?». La tesi dell’overkilling — cioè dell’eccesso di violenza tipico del femminicidio — sembra qui svanire dietro a un tecnicismo che, per molti, suona come un alibi.
Dal punto di vista processuale, la sentenza regge. È stata riconosciuta la premeditazione, esclusa ogni attenuante, e i giudici hanno definito Turetta «lucido, determinato, consapevole». Hanno sottolineato come la fuga in Germania, durata sette giorni, sia finita solo quando «ha finito i soldi» e non per una qualche forma di pentimento.
Non un gesto riparativo, non una parola per la famiglia di Giulia. Eppure, resta quella motivazione che pesa come un macigno: la crudeltà, per la giustizia italiana, deve avere caratteristiche ben diverse.
Elena Cecchettin, che sin dai primi giorni dopo il delitto ha trasformato il proprio dolore in impegno pubblico, conclude il suo messaggio con una frase che suona come una denuncia collettiva: «Se una persona si sentirà autorizzata ad accoltellarne un’altra 75 volte perché sa che questo non costituisce crudeltà, allora saremo tutti responsabili di averlo permesso».
Il caso è chiuso, ma la discussione — inevitabilmente — è appena cominciata.
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Cronaca Nera
“Finalmente luce”: arrestata l’amante-insegnante di Messina Denaro. Le immagini con il boss smentiscono tutto
Era stata lei stessa a presentarsi in procura dopo l’arresto del boss, dicendo di averlo conosciuto come “Francesco Salsi”, ex anestesista in pensione. Ma le telecamere e i pizzini raccontano tutt’altro: incontri in auto, pranzi insieme, borse griffate e un legame molto più profondo.

Un altro tassello si aggiunge al mosaico oscuro che ruota attorno alla lunga latitanza di Matteo Messina Denaro, arrestato nel gennaio 2023. E questa volta il nome è quello di Floriana Calcagno, 50 anni, insegnante di matematica presso l’istituto Ruggiero D’Altavilla di Mazara del Vallo. Secondo gli inquirenti, non solo amante del boss, ma anche sua complice, pronta a fare da staffetta, a coprirne gli spostamenti, a facilitare – consapevolmente – la vita dell’uomo più ricercato d’Italia.
Floriana, sposata con Paolo De Santo (imparentato con figure vicine al boss), si era presentata spontaneamente in procura dopo l’arresto di Messina Denaro. “L’ho conosciuto per caso, in un supermercato”, aveva raccontato, “disse di chiamarsi Francesco Salsi, ex anestesista in pensione”. Una versione che la procura ha subito messo in discussione, tanto da iscriverla nel registro degli indagati con accuse pesanti: favoreggiamento aggravato e procurata inosservanza della pena.
Ora è scattato l’arresto. A incastrarla, immagini inequivocabili raccolte dalla Sisco e dal Ros nel corso della lunga caccia al boss. Si vedono lei e Messina Denaro in auto insieme, al ristorante, fuori dalla scuola dove la donna insegnava. A volte era lui ad andarla a prendere, altre volte era lei a precederlo nei tragitti, come una vera “scorta affettiva”. In una sequenza, li si vede entrare nell’appartamento del boss. E ogni incontro veniva segnato con cura da Messina Denaro sul suo calendario con parole emblematiche: “luce”, “finalmente luce”, “preso tutto”.
Non era affatto un legame occasionale. Tant’è che Laura Bonafede, la storica amante del boss, ora condannata a 11 anni e 4 mesi, scriveva pizzini velenosi pieni di rabbia e gelosia nei confronti della Calcagno. La definiva “handicap”, “gatta morta” e la accusava di ricevere borse e regali dal boss. “Regali borse come un distintivo? Fuck”, scriveva con rabbia. E poi ancora, con disprezzo: “Aveva un Moncler un po’ datato e un paio di anfibi… secondo me c’è il tuo zampino”.
La Bonafede annotava persino gli incontri con la rivale: “Abbiamo incontrato l’handicappata, ci ha fermate per salutarci. Era vestita meglio. Cugino le ha fatto i complimenti. Terribile”.
Ma dietro il triangolo amoroso si cela una rete molto più complessa e pericolosa, che unisce affetti, complicità e omertà. Donne che – secondo la procura – potrebbero custodire segreti cruciali, forse persino il più importante: il luogo dove il boss teneva nascosti i suoi pizzini, quei messaggi cifrati attraverso cui gestiva affari, contatti e ordini di morte.
Il giudice per le indagini preliminari Filippo Serio ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare su richiesta del pool antimafia della procura di Palermo. La Calcagno, interrogata come indagata a gennaio, si era avvalsa della facoltà di non rispondere. Ma oggi il cerchio si stringe: l’insegnante che si dichiarava ignara è ora al centro di una delle pagine più inquietanti della latitanza di Messina Denaro. E forse – come per la Bonafede – sarà proprio la gelosia, questa volta documentata, a trasformarsi nella più inaspettata delle prove d’accusa.
Cronaca Nera
Delitto dell’ultrà Boiocchi, arrestati i killer: «Ucciso nella guerra tra i tifosi dell’Inter»
Dietro l’omicidio del capo storico della Curva Nord c’è una faida da manuale: potere, soldi, biglietti, droga e silenzi. Il calcio c’entra poco. E lo Stato ci arriva solo quando scorre il sangue. Ma per anni, troppe volte, ha lasciato fare.

Un agguato in stile mafioso, in una strada della periferia milanese. Cinque colpi, due a segno. Una vittima che aveva fatto della curva uno strumento di potere. E un mandante, oggi collaboratore di giustizia, che parla di regolamenti di conti, di gerarchie, di successioni. Non è un romanzo criminale: è il calcio italiano nel suo lato più opaco, quello delle curve, dei clan e delle guerre intestine.
L’arresto dei presunti autori e organizzatori dell’omicidio di Vittorio Boiocchi, freddato a Milano nel 2022, è un colpo importante per la giustizia. Ma non è una notizia nuova. Quello che emerge oggi, e che già si sapeva — o si fingeva di non sapere — è che una parte del tifo organizzato non ha nulla a che fare con lo sport. È un ambiente dove la violenza è un codice interno, e il consenso si compra e si vende. Dove chi “guida” la curva gestisce biglietti, merchandising, viaggi, sicurezza, estorsioni e — in molti casi — droga e legami con le mafie. E dove ogni tanto qualcuno cade.
Boiocchi era stato appena scarcerato dopo 26 anni. È bastato questo a far temere che volesse tornare a comandare. A riprendersi i soldi, i favori, i rapporti. E così è stato ucciso. A ordinarlo, secondo la Procura antimafia di Milano, Andrea Beretta, suo successore, oggi pentito. E il quadro che emerge è quello di una curva gestita come un clan, con logiche tribali, capi, delfini e traditori.
Ma il punto non è solo l’omicidio. È tutto il sistema che lo ha reso possibile. È il silenzio assenso di società sportive che da decenni trattano con questi soggetti, per mantenere la pace nello stadio. È la timidezza di istituzioni e leghe, che sanno ma si voltano dall’altra parte. È il paradosso di uno Stato che — come spesso accade — si muove con decisione solo quando ci scappa il morto.
Perché a Milano, come in tante altre città, le curve non sono solo tifo, ma territori. E il territorio, se non lo governa lo Stato, lo governa qualcun altro. La “Doppia Curva”, l’indagine della Dda che ha svelato i rapporti tra tifo organizzato, clan della ‘ndrangheta e interessi trasversali nel mondo Inter-Milan, dovrebbe bastare per capire che il calcio è diventato solo la facciata. Dietro ci sono affari. Giri di denaro. Equilibri che nulla hanno a che fare con la passione.
È normale che un capo ultrà venga ucciso in stile esecuzione? Che il suo successore finisca a sua volta coinvolto in un altro omicidio mafioso? Che uno dei killer venga arrestato in Bulgaria, mentre si nasconde sul Mar Nero, come un boss qualunque? No, non è normale. Ma è reso possibile da decenni di tolleranza, paura e connivenze.
La Milano che oggi arresta, per fortuna, è anche la Milano che per anni ha lasciato fare. Come Roma, Napoli, Torino, Bergamo. Non è questione di geografia, ma di vuoto. Vuoto legislativo, vuoto educativo, vuoto di coraggio.
Cosa ne sarà ora della Curva Nord? Chi prenderà il posto di chi? E quanti continueranno a fingere che si tratti “solo di tifo”? Fino al prossimo morto, alla prossima vendetta, al prossimo comunicato.
Cronaca Nera
Delitto di Garlasco, il tribunale concede la semilibertà a Stasi: passerà parte della giornata fuori dal carcere
Nessuna violazione, secondo i giudici, nell’intervista concessa da Stasi alle Iene. La sua condotta è stata valutata “corretta e responsabile”. Per la Procura, invece, l’episodio meritava un approfondimento. Ma ora l’ex studente della Bocconi potrà lasciare il carcere di giorno, con base presso lo zio e contratto da contabile.

Un nome che ancora oggi divide l’opinione pubblica, a quasi vent’anni da uno dei delitti più discussi e mediatici del nostro Paese. Alberto Stasi, condannato in via definitiva nel 2015 per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, potrà uscire dal carcere di giorno. A stabilirlo sono stati i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Milano, che hanno accolto la richiesta di semilibertà avanzata dai legali dell’uomo lo scorso dicembre.
Parte della giornata fuori da Bollate
La misura consente all’ex studente della Bocconi, oggi 41enne, di trascorrere parte della giornata fuori da Bollate, non solo per motivi di lavoro ma anche per partecipare ad attività di reinserimento sociale. La sera, però, dovrà fare rientro in carcere. Una decisione che arriva dopo una lunga valutazione del suo percorso detentivo, ritenuto “connotato da correttezza, serietà e rispetto delle regole”, come riportato nel dispositivo firmato dalle giudici Federica Gentile e Maria Paola Caffarena, affiancate da due esperti.
Appoggio abitativo presso lo zio
Il provvedimento autorizza il “proseguimento dell’attività lavorativa già in corso”, un impiego da contabile amministrativo con contratto a tempo indeterminato, e consente che Stasi abbia appoggio abitativo presso lo zio, durante le ore in cui sarà fuori dal penitenziario.
Opposizione della Procura
Un percorso che ha però incontrato la netta opposizione della Procura generale di Milano, che aveva chiesto ai giudici di rigettare la richiesta o quantomeno rinviare la decisione, per poter approfondire un passaggio ritenuto significativo: l’intervista rilasciata da Stasi alla trasmissione Le Iene. Un’apparizione televisiva, secondo i magistrati, che sarebbe avvenuta senza autorizzazione. Una violazione, quindi, delle prescrizioni previste per chi usufruisce di benefici penitenziari.
La ricostruzione della difesa
Diversa la ricostruzione della difesa, che ha spiegato come l’intervista sia avvenuta durante un permesso premio regolarmente concesso. La tesi è stata accolta dal Tribunale di Sorveglianza, che non solo non ha ravvisato alcuna infrazione formale, ma ha anche giudicato “pacato e rispettoso” il contenuto dell’intervento televisivo. “Il comportamento, valutato all’interno di un percorso penitenziario rigoroso e privo di criticità – scrivono i giudici – non è idoneo a compromettere gli esiti della relazione di osservazione”.
Aveva già avuto permessi premio
Non è il primo beneficio penitenziario che viene concesso a Stasi, che negli anni ha già usufruito di permessi premio e lavoro esterno, sempre – secondo il carcere di Bollate – con profitto e nel rispetto delle regole. Gli educatori e il personale dell’istituto lo descrivono come affidabile, partecipe e responsabile, e i giudici ne hanno tenuto conto nel disporre la nuova misura, che rappresenta un ulteriore passo verso la futura scarcerazione.
Ma al di là degli aspetti tecnici e del linguaggio giuridico, resta la memoria di quel 13 agosto 2007, quando il corpo di Chiara Poggi fu ritrovato senza vita nella villetta di famiglia a Garlasco, e il nome di Alberto Stasi entrò per sempre nella cronaca giudiziaria italiana. Un caso lungo, tormentato, fatto di assoluzioni iniziali e ribaltamenti in appello, che si è chiuso con la condanna definitiva a 16 anni di reclusione per omicidio volontario, nonostante Stasi abbia sempre professato la propria innocenza.
Ora, dopo oltre otto anni dietro le sbarre, l’uomo può tornare a vivere alcune ore fuori dal carcere, muovendosi in un regime controllato ma meno restrittivo. Un passaggio che non cancella la condanna né attenua il peso di quella vicenda, ma che segna una nuova fase. Per i giudici, si tratta di una misura compatibile con il principio rieducativo della pena. Per altri, invece, è solo l’ennesima ferita che il sistema infligge alla memoria di Chiara.
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