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Cronaca Nera

La pista oscura di Garlasco: spunta il satanismo nelle indagini difensive su Stasi

Mentre la difesa puntava su Andrea Sempio come nuovo indagato per l’omicidio di Chiara Poggi, l’avvocata Bocellari segnalava presunti legami con ambienti oscuri: “Indagini su un terreno pericoloso”.

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    Quando si pensava che sul caso Garlasco fosse già stato scritto tutto, ecco affiorare un nuovo tassello dalle tinte oscure. È il settembre 2017 quando Giada Bocellari, avvocata di Alberto Stasi – condannato in via definitiva a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi – presenta una denuncia ai carabinieri. Il motivo? Essere stata seguita in auto e aver ricevuto strane “soffiate” su presunti collegamenti con ambienti satanisti.

    Una pista ormai abbandonata

    La legale racconta ai militari un episodio inquietante: una sera si accorge di un’auto sospetta che la tallona, mentre sta per chiudere e consegnare il fascicolo di indagini difensive che punta il dito su Andrea Sempio, l’amico di Marco Poggi ora nuovamente indagato. Ma non è solo la paura per quell’inseguimento a spingerla dai carabinieri: la Bocellari aggiunge di aver ricevuto messaggi da due donne che le parlano di “un terreno pericoloso dove sono coinvolte persone legate al satanismo”.

    Una veggente

    Una di queste donne si presenta come una “vegente-sensitiva” e contatta l’avvocata tramite i social. Le racconta di un filone inquietante: dietro la vicenda di Garlasco ci sarebbe “qualcosa di oscuro”, fatto di riti e figure ambigue. Un’altra donna le scrive avvertendola che la vicenda “potrebbe risultare pericolosa” perché legata al satanismo.

    Non solo: la Bocellari riferisce anche di essersi imbattuta, durante le indagini difensive, in una serie di suicidi sospetti tra ragazzi della Lomellina e in un omicidio irrisolto, tutti circostanze che – a suo dire – avrebbero coinvolto ambienti frequentati da figure già emerse nel caso Poggi.

    Si riaprono le indagini

    Dichiarazioni pesanti, che spingono a chiedersi se davvero ci sia dell’altro, mai emerso in oltre quindici anni di indagini. Per la giustizia, la verità ufficiale resta quella che ha portato Stasi alla condanna definitiva nel 2015. Ma le nuove indagini su Sempio lasciano margini alla possibile innocenza dell’ex fidanzato. Ma nei documenti difensivi e nei verbali della Bocellari si intravedono spiragli di una narrazione ancora più cupa, fatta di simbolismi e ipotesi su riti occulti nella provincia pavese.

    Una pista suggestiva che, seppur mai confermata dagli inquirenti, torna a gettare un’ombra noir su uno dei casi di cronaca più controversi degli ultimi vent’anni.

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      Cronaca Nera

      “L’ho vista svanire nel buio”: parla la madre di Saman, condannata all’ergastolo

      Per la prima volta in aula, la madre di Saman Abbas racconta fra le lacrime l’ultima sera della figlia: “Le diedi 200 euro e la vidi scomparire nel buio”. Poi accusa i parenti: “Non siamo stati noi genitori”. In aula presenti anche lo zio Danish Hasnain e i due cugini imputati.

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        “L’ho vista svanire nel buio. A differenza di quel che dice mio figlio Ali, io non ho visto nessuno. Se avessi visto qualcuno o un’aggressione sarei intervenuta e ovviamente non lo avrei consentito perché sono la mamma”. Con voce spezzata dalle lacrime, per la prima volta Nazia Shaheen, madre di Saman Abbas, prende la parola in corte d’Assise d’appello. La donna, condannata in primo grado in contumacia all’ergastolo come il marito Shabbar Abbas, ha raccontato la sua versione sull’ultima notte della figlia, uccisa a Novellara fra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 per essersi opposta a un matrimonio forzato.

        Shaheen, arrestata in Pakistan e rientrata in Italia nell’estate del 2024 dopo una lunga latitanza, sostiene di non aver visto nulla quella sera e di aver tentato in ogni modo di fermare la ragazza. “Saman mi ha visto piangere e mi ha chiesto perché. Io le ho detto che non volevo andasse via. Lei continuava a dire che sarebbe andata via e io la supplicavo di non andare…”.

        “Non c’è stato nessun litigio, ma solo una discussione per convincerla a restare”, aggiunge la donna. “La nostra unica richiesta era che lei restasse a qualsiasi condizione avesse voluto lei… Eravamo pronti anche a metterlo per iscritto. Ho avuto degli attacchi di panico e sono dovuta uscire, quando mi ha visto così mi ha detto va bene mamma… non vado…”. Poi però la situazione cambia: “Lei aveva in mano il cellulare, poi ha ricominciato a dire che sarebbe andata e noi la imploravamo di restare visto che era già buio”.

        Infine il racconto dell’uscita di casa: “Le diedi 200 euro perché almeno avesse qualche soldo in tasca… poi lei è uscita e siamo usciti anche noi. Saman camminava davanti a noi… era distante e l’ho vista svanire nel buio”. Poi, continua Shaheen, “sono entrata e mi sono messa a piangere mentre Ali mi consolava”.

        “La notte l’ho passata piangendo”, aggiunge la donna. “Non sono stata io ad uccidere Saman. Sembro viva, ma in realtà mi sento morta”.

        A seguire è intervenuto anche Shabbar Abbas, il padre: “Non siamo stati noi genitori a uccidere nostra figlia, né avremmo acconsentito che altri lo facessero”. L’uomo ammette però di aver chiesto aiuto ai parenti: “Quella sera ero convinto che ad aspettare Saman ci fosse il suo fidanzato, allora ho chiesto a mio fratello e ai cugini di venire per dargli una lezione, ma non per fargli troppo male”. Poi aggiunge: “Sul tardi sono uscito a controllare, ma non ho visto o sentito nessuno”.

        E ancora: “La mattina ho chiesto ai tre cosa avevano fatto la sera prima. Loro mi dissero che non erano neppure venuti. Ho sentito Danish che ha dichiarato che erano presenti lui e gli altri due, quindi penso siano stati loro tre”.

        In aula sono presenti anche gli altri imputati: lo zio Danish Hasnain, già condannato in primo grado a 14 anni di reclusione, e i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, assolti in primo grado. Nelle scorse udienze è stato ascoltato anche il fratello della vittima, che all’epoca dei fatti era minorenne. “Chiesi ai miei parenti dove fosse finita Saman, mi risposero che sarebbe andata in paradiso”.

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          Sempio, l’alibi scricchiola: il giallo dello scontrino, la libreria chiusa e le risposte contraddittorie

          Lo scontrino trovato un anno dopo nel cassetto, la libreria chiusa, il cellulare che “non aggancia” Vigevano e un dialogo captato dai carabinieri: nuovi dubbi sulla versione di Sempio per la mattina dell’omicidio Poggi

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            Cosa lega un semplice scontrino da 1 euro al delitto di Garlasco? È su quel pezzetto di carta che si regge da anni l’alibi di Andrea Sempio, l’amico di Marco Poggi, fratello della vittima, che fin dalle prime fasi dell’inchiesta ha sostenuto di trovarsi a Vigevano la mattina in cui Chiara Poggi venne uccisa. Oggi, però, quell’alibi presenta più di una crepa.

            Il biglietto del parcheggio, emesso alle 10.18 del 13 agosto 2007 in piazza Sant’Ambrogio, è stato ritrovato nell’auto di famiglia dal padre di Sempio solo una settimana dopo il delitto e consegnato ai carabinieri oltre un anno più tardi, durante il secondo interrogatorio del figlio. Conservato per mesi in un cassetto, viene oggi considerato l’unico elemento materiale che collocherebbe Sempio fuori da Garlasco, proprio mentre Chiara veniva uccisa nella sua abitazione.

            Eppure, intorno a questo scontrino, emergono dettagli che sollevano interrogativi. Sempio ha sempre dichiarato di essere andato a Vigevano per acquistare dei libri, trovando però la libreria chiusa. Un dettaglio apparentemente secondario, che assume un peso diverso quando nel 2017, sotto intercettazione, Sempio stesso si mostra titubante. Riferendosi al verbale con i magistrati, confessa al padre: «Mi han chiesto se ero andato a Vigevano. Siccome ero andato a comprare il cellulare e non i libri, hanno rilevato il mio cellulare lì. Ho detto che non mi ricordo».

            Un cambio di versione che mina la coerenza del racconto. Anche perché, dai tabulati, emerge che il cellulare di Sempio, tra le 9.58 e le 12.18, ha sempre agganciato la cella di Garlasco, mai quelle di Vigevano. La spiegazione ufficiale è che per Vodafone, «in astratto», questo scenario sarebbe possibile. Ma i tracciati delle celle di Vigevano non vennero mai acquisiti.

            Ci sono poi altri dettagli che aggiungono mistero. Sempre Sempio, parlando con il padre, rileva una discrepanza sull’effettivo momento in cui lo scontrino fu trovato. «Ne abbiamo cannata una», dice al padre, «che io ho detto che lo scontrino era stato ritrovato dopo che ero stato sentito, tu hai detto che l’abbiamo trovato prima». Il padre prova a rassicurarlo: «A me sembra la prima, però non cambia niente».

            In realtà cambia eccome. Perché lo scontrino rappresenta la chiave di volta dell’alibi di Sempio e ogni incertezza temporale attorno alla sua scoperta alimenta dubbi e sospetti. Anche il gip, nel decreto di archiviazione del 2017, nota che Sempio effettuò una sola chiamata alle 9.58, agganciando la cella di Garlasco, e che solo dopo, tra le 10 e le 11, si sarebbe spostato a Vigevano, rientrando poi in paese senza mai essere tracciato dalle celle cittadine.

            A rendere ancora più ambigua la ricostruzione ci sono poi le dichiarazioni dei genitori di Sempio: entrambi confermano che il figlio quella mattina avrebbe preso l’auto per andare in libreria, ma secondo il figlio sarebbe stato invece un negozio di cellulari. Inoltre, l’agenda con la lista degli impegni di quella giornata, elemento utile a chiarire i movimenti, non è mai stata trovata.

            Sempio era già stato sentito nel 2007, come amico della famiglia Poggi, ma solo dieci anni dopo, con la riapertura dell’inchiesta, la sua posizione è stata nuovamente approfondita. La procura aveva già rilevato criticità nella sua versione, ma ora, con l’indagine nuovamente aperta dopo le ultime rivelazioni sul DNA trovato sulle unghie della vittima, anche l’alibi del parcheggio rischia di crollare sotto il peso delle contraddizioni.

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              Il genetista Linarello sul caso Garlasco: “Il Dna sulle mani di Chiara Poggi? È di Andrea Sempio, non ho dubbi”

              Le nuove perizie dei consulenti della Procura di Pavia confermano in pieno l’analisi di otto anni fa e riaprono il giallo di Garlasco. Linarello smonta l’ipotesi della contaminazione accidentale: «Quel Dna non poteva essere lì da giorni, Sempio o chi per lui ha toccato Chiara dopo l’aggressione».

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                Il Dna sopra le unghie di Chiara Poggi? “È quello di Sempio, non ho dubbi”. Pasquale Linarello lo afferma senza esitazioni, consapevole del peso delle sue parole. È stato lui, il genetista che per primo, otto anni fa, ha attribuito ad Andrea Sempio il profilo genetico rinvenuto sulle mani di Chiara Poggi, la ragazza uccisa nella sua villetta di Garlasco il 13 agosto 2007. Quelle stesse conclusioni, a lungo ignorate e considerate non decisive, oggi tornano al centro della scena. I nuovi periti della Procura di Pavia, incaricati di riesaminare il caso, confermano in pieno il lavoro di Linarello e riaprono la pista che porta a Sempio, amico di famiglia dei Poggi.

                «Non è un Dna bellissimo, questo è vero – ammette Linarello – ma è più che sufficiente per fare un confronto. E il confronto ci dice senza margine di dubbio che è il Dna di Andrea Sempio». Nessun tentennamento, nessuna zona grigia. Secondo l’esperto, la traccia trovata sulle dita di Chiara corrisponde perfettamente a quella di Sempio, o meglio, a quella di un maschio appartenente al suo nucleo familiare. «Siccome Andrea Sempio non ha fratelli – chiarisce il genetista – o è suo, o è di suo padre».

                Ma Linarello è convinto che l’identificazione sia univoca: «Io lavoravo alla cieca, non sapevo che il profilo genetico da confrontare fosse quello trovato sul corpo della ragazza. Lo confrontai con quello estratto da una tazzina toccata da Sempio e il risultato fu inequivocabile: erano identici».

                Il caso Garlasco, che ha visto condannato in via definitiva Alberto Stasi, fidanzato della vittima, sembra dunque riaprirsi. Linarello è netto nel respingere la vecchia teoria secondo cui il Dna di Sempio sarebbe potuto finire accidentalmente sulle mani della ragazza: «Quando Chiara è stata uccisa – spiega – il computer di casa non veniva acceso da tre giorni. Dovremmo pensare che in piena estate non si sia mai lavata le mani o fatta una doccia, e che il Dna sia rimasto lì intatto: è impossibile».

                C’è un altro dettaglio cruciale, che il genetista mette in evidenza: «Il Dna non era sotto le unghie ma sopra. Infatti il Ris di Parma, subito dopo l’omicidio, cercò tracce sotto le unghie e non trovò nulla». Questo elemento porta Linarello a una deduzione: «Sappiamo che Chiara non ha avuto il tempo di difendersi, è stata colpita subito. Quel Dna, quindi, deve essere finito sulle sue mani successivamente, probabilmente quando l’aggressore l’ha trascinata per la casa. Ed è lì che il contatto con Sempio si fa possibile».

                Nel secondo processo d’appello, il professor Avato già segnalò la presenza di un profilo genetico maschile ignoto. Ma la sua voce non trovò spazio nel dibattimento: «Non gli permisero di confrontarsi con il consulente dei giudici», ricorda Linarello, che ora vede confermate le sue analisi dal nuovo pool di esperti.

                Anche se il materiale genetico originale non è più disponibile, il genetista si dice certo: «La tecnica ha fatto passi avanti, ma i risultati che abbiamo sono sufficienti. È il Dna di Sempio». E questa nuova verità scientifica riapre una ferita mai del tutto rimarginata.

                Adesso il destino giudiziario di Andrea Sempio – mai formalmente accusato in passato – è nelle mani della Procura di Pavia. Sarà il tribunale a stabilire se questo tassello sarà sufficiente per riaprire, dopo quasi due decenni, un giallo che ha segnato la cronaca italiana.

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