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Cronaca Nera

Sarah Scazzi: la serie tv fa infuriare Avetrana. «Michele Misseri? E’ una brava persona»

L’omicidio di Sarah Scazzi diventa una serie su Disney+: “Avetrana – Qui non è Hollywood”. I cittadini, però, sono sconvolti dal ritorno di un capitolo doloroso della loro storia.

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    Avetrana è pronta a tornare sotto ai riflettori. Il motivo è sempre lo stesso: l’omicidio di Sarah Scazzi, la ragazza di 15 anni uccisa nell’agosto del 2010 dalla zia Cosima Serrano e dalla cugina Sabrina Misseri, che stanno scontando l’ergastolo. Dopo 14 anni dall’accaduto, l’assassinio non tornerà in televisione per una svolta nel caso, bensì arriverà in autunno su Disney+ con una serie intitolata “Avetrana – Qui non è Hollywood”.

    La notizia delle riprese ha colto di sorpresa il pubblico, che ricorda ancora tutti i processi che sono stati svolti per arrivare a condannare i colpevoli. In particolare, i cittadini del paese in provincia di Taranto si sono dichiarati «sconvolti» per la realizzazione delle puntate. Il sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi, ha dichiarato a Repubblica: «Quando ho appreso la notizia non ci ho dato tanto peso. Ma poi, riflettendoci, avrei preferito che non si tornasse a parlare di una vicenda così dolorosa, sia per la famiglia di Sarah Scazzi sia per il paese».

    La serie tv

    La serie televisiva sarà composta da quattro episodi, ognuno della durata di 60 minuti. Le riprese sono state condotte da Pippo Mezzapesa, mentre la sceneggiatura è stata curata dal regista insieme ad Antonella Gaeta e Davide Serino. I protagonisti della vicenda sono stati interpretati da diversi volti noti della televisione italiana. Vanessa Scalera e Paolo De Vita hanno interpretato Cosima e Michele Misseri, mentre Giulia Perulli ha ricoperto il ruolo di Sabrina Misseri. Imma Villa ha indossato i panni di Concetta Serrano, mentre Federica Pala è stata scelta per il ruolo di Sarah Scazzi. La giornalista Daniela è stata interpretata da Anna Ferzetti, Ivano da Giancarlo Commare e il Maresciallo Persichella da Antonio Gerardi.

    La protesta dei residenti

    Se il pubblico italiano è molto curioso di vedere le puntate, non vale lo stesso per i residenti di Avetrana. I cittadini più volte hanno contestato il modo in cui i turisti, ancora oggi, tendono a fermarsi per scattare delle foto davanti alla casa di Michele Misseri, uscito dal carcere all’inizio dell’anno per buona condotta.

    Alcune ragazze, intervistate sempre da Repubblica, hanno spiegato: «Vorremmo essere un paese normale, ma da anni conviviamo con questo omicidio che sembra non lasciarci mai. Molte persone scendono dalle auto per scattarsi dei selfie con dietro lo sfondo della casa di Michele Misseri. È assurdo. Vorremmo solo essere lasciati in pace».

    Il parere su Michele Misseri

    Una protesta, quella dei residenti di Avetrana, mirata anche a proteggere la privacy dello zio di Sarah Scazzi, che era stato condannato per la soppressione del cadavere della nipote. Dopo essere stato scarcerato, Misseri è tornato nella sua casa in via Deledda. L’abitazione risulta ancora con il citofono staccato e i teloni neri coprono il cancello.

    «Adesso Michele si dedica al giardinaggio e fa una vita molto riservata – hanno spiegato i vicini di casa e i cittadini – si vede poco in giro, dà giusto il buongiorno e la buonasera. Per noi Michele è una brava persona. I colpevoli sono altri e stanno in carcere. Sapere che si tornerà a parlare di un fatto così doloroso non farà bene a nessuno».

      Cronaca Nera

      Giulio Regeni, il racconto delle torture: «Bendato e portato a spalla, sfinito dal dolore»

      Durante il processo contro quattro 007 egiziani, un testimone racconta il brutale trattamento subito da Giulio Regeni. In aula, il video proiettato da Al Jazeera e la commossa testimonianza della sorella riportano alla luce dettagli atroci.

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        Giulio Regeni «ammanettato con le mani dietro la schiena, bendato, portato a spalla da due carcerieri perché sfinito dalla tortura». È questo uno dei dettagli emersi oggi durante il processo in corso a Roma contro quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati della morte del ricercatore friulano, rapito e ucciso al Cairo nel 2016.

        Un cittadino palestinese, ex detenuto in una struttura di sicurezza egiziana, ha raccontato in un video trasmesso da Al Jazeera e proiettato in aula: «L’ho visto uscire da un interrogatorio. Era piegato dal dolore, non riusciva a stare in piedi. Lo riportavano alle celle sorreggendolo».

        Le parole strazianti del testimone si sono unite alla commovente testimonianza di Irene Regeni, sorella di Giulio, che ha ricordato in lacrime il fratello: «Era un ragazzo normale, appassionato di storia e culture diverse. Studiava l’arabo ed era entusiasta di partire per l’Egitto. Per me era un esempio, il fratellone che dava consigli. Non immaginavamo che sarebbe finita così».

        La famiglia Regeni non ha mai smesso di cercare la verità. Durante l’udienza, Irene ha raccontato come scoprì della tortura inflitta a Giulio: «Ricordo una telefonata di mia madre: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».

        Anche il medico legale incaricato di analizzare il corpo di Giulio ha confermato le atroci sofferenze subite: «Bastonate sui piedi, bruciature e ammanettamento di polsi e caviglie. È stato sottoposto a torture indicibili».

        Il processo rappresenta un tentativo di fare luce su uno dei casi di violazione dei diritti umani più controversi degli ultimi anni, con un’attenzione crescente da parte della comunità internazionale.

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          Cronaca Nera

          Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati

          Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.

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            Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.

            Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
            Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.

            Come difendersi dallo spoofing
            Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.

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              Cronaca Nera

              Mostro di Firenze: riesumati i resti di Francesco Vinci, l’ex moglie crede che sia ancora vivo

              Esami sul DNA per verificare l’identità del cadavere trovato carbonizzato nel 1993. La famiglia sospetta una messa in scena. La riesumazione di Francesco Vinci potrebbe essere il tassello mancante di un puzzle complesso, che lega la sua vicenda personale a quella più ampia e tragica del Mostro di Firenze. Un’ombra lunga che continua a pesare sulla cronaca nera italiana.

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                Questa mattina, nel cimitero di Montelupo Fiorentino, sono stati riesumati i resti di Francesco Vinci, una delle figure chiave della cosiddetta “pista sarda” legata ai delitti del Mostro di Firenze. L’operazione è stata disposta dalla Procura di Firenze, ma la richiesta iniziale era partita dalla famiglia dello stesso Vinci. La vedova, Vitalia Velis, e i figli vogliono sapere se quel corpo ritrovato incaprettato e carbonizzato nel 1993 sia realmente il loro caro. Secondo la donna, infatti, il cadavere potrebbe non essere di Vinci, e sostiene addirittura di aver visto il marito ancora vivo dopo la sua presunta morte.

                Chi era Francesco Vinci?

                Originario di Villacidro, in Sardegna, Francesco Vinci era uno dei principali sospettati nella “pista sarda” sui delitti del Mostro di Firenze, il serial killer responsabile di otto duplici omicidi tra il 1968 e il 1985. Vinci fu incarcerato nel 1982, ma venne poi rilasciato quando, nel 1983, avvenne il delitto dei ragazzi tedeschi a Giogoli mentre lui era in prigione. La sua morte, avvenuta nel 1993, è sempre stata avvolta nel mistero.

                Il macabro ritrovamento

                Il corpo, trovato carbonizzato in una Fiat Uno nelle campagne di Chianni, vicino Pisa, era irriconoscibile. A complicare ulteriormente l’identificazione, il cadavere era privo delle mani, elemento che impediva un riconoscimento certo. All’epoca, Vinci fu identificato solo grazie a una fede e a un orologio trovati nel veicolo, oggetti che avrebbero potuto essere messi lì da chiunque. La situazione ha alimentato i sospetti della famiglia, convinta che il cadavere potesse non appartenere a lui.

                Il sospetto della moglie e la riesumazione

                La moglie Vitalia Velis ha raccontato di aver visto Francesco dopo la sua presunta morte, in un’auto, e di averlo perfino salutato. Un’ipotesi che sembrerebbe assurda, ma che ha spinto la famiglia a chiedere un esame del DNA per chiarire la questione. Ora, grazie alla riesumazione e all’analisi del materiale genetico, si cercherà di stabilire con certezza se i resti appartengano davvero a Vinci. L’esame comparativo del DNA verrà condotto con il materiale genetico dei figli e i risultati potrebbero finalmente chiudere questo capitolo ambiguo.

                I dubbi degli inquirenti

                Il criminologo Davide Cannella, che assiste la famiglia, ha sottolineato come, sin dall’inizio, ci siano state delle anomalie. “Dall’autopsia emergono elementi che non quadrano. Chi ha ucciso Vinci e Angelo Vargiu, trovato insieme a lui nell’auto, ha cercato di rendere impossibile il riconoscimento”, ha dichiarato. Mancano, infatti, le mani, e non è stato mai trovato il proiettile che avrebbe potuto fornire ulteriori indizi.

                L’importanza del DNA

                Il lavoro degli esperti sarà cruciale. Se il genetista riuscirà a estrapolare il DNA dai resti riesumati, verrà comparato con quello dei figli di Vinci. Questo permetterà di confermare, o smentire, l’identità del corpo ritrovato. In caso di corrispondenza, il campione genetico verrà inserito nella banca dati delle indagini sui delitti del Mostro di Firenze, un’inchiesta che, nonostante gli anni, continua a sollevare interrogativi e a cercare risposte.

                Un’indagine senza fine

                Alla riesumazione, oltre alle pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti, erano presenti anche i figli di Vinci e i loro consulenti: il genetista forense Eugenio D’Orio e il medico legale Aldo Allegrini. I resti sono stati trasportati all’istituto di medicina legale di Firenze, dove saranno esaminati dai periti. La speranza è che i risultati possano fornire un po’ di chiarezza a una storia che, a trent’anni di distanza, ancora non ha trovato il suo epilogo.

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