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Cronaca

Emanuela Orlandi e i nuovi audio: «È con Barbara, suonerà il flauto a un matrimonio»

Gli audio Inediti di Pierluigi e Mario: la scomparsa di Emanuela Orlandi tra depistaggi e misteri

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    Sono emerse nuove registrazioni audio riguardanti il misterioso caso di Emanuela Orlandi, la quindicenne sparita nel nulla nel giugno del 1983. Pierluigi e Mario – nomi con cui si sono presentati i due telefonisti – sono i primi due individui ad aver contattato la famiglia Orlandi dopo la scomparsa di Emanuela, e le loro telefonate rappresentano i primi tentativi di depistaggio in uno dei cold case più celebri degli anni Ottanta.

    Il 25 giugno 1983, Pierluigi contattò la famiglia Orlandi, fornendo dettagli rilevanti sulla sparizione della ragazza ma rifiutandosi di collaborare con le autorità. In quel periodo, Papa Giovanni Paolo II, che si trovava in Polonia, venne informato dell’accaduto. Il giorno successivo, il 26 giugno, i Servizi Segreti fecero il loro ingresso a casa Orlandi, ancor prima che il Papa lanciasse un appello pubblico ai presunti rapitori affinché liberassero Emanuela.

    La terza telefonata di Pierluigi, registrata grazie alla famiglia Orlandi che dal 27 giugno iniziò a registrare tutte le chiamate, avvenne in un contesto curioso. Pierluigi, affermando di avere sedici anni, disse di trovarsi al ristorante con i genitori. Nel sottofondo si udivano rumori tipici di un locale marittimo. Raccontò che Emanuela era con una certa Barbara e che le aveva chiesto di suonare il flauto per il matrimonio della sorella di quest’ultima. Lo zio di Emanuela, colpito dal racconto, propose un incontro in Vaticano, ma l’interlocutore, sorpreso, rispose con due domande: “In Vaticano? Ma lei è un prete?”. L’analisi degli audio, concessa in esclusiva a FQ Magazine da Pietro Orlandi, rivelò che la voce e il linguaggio non sembravano appartenere a un sedicenne.

    Il 27 giugno, un uomo che si presentò come Mario telefonò alla famiglia Orlandi. Con accento romanesco e dichiarando di avere trentacinque anni, disse di voler chiarire che il suo amico, rappresentante della Avon, non era coinvolto nella scomparsa di Emanuela. Secondo le indagini, una delle piste seguite era che la giovane fosse stata avvicinata da un rappresentante della nota azienda cosmetica prima di scomparire. Mario aggiunse che insieme al suo amico lavoravano due ragazze, una delle quali era Barbara, la stessa Barbara menzionata da Pierluigi. La ragazza avrebbe dovuto far ritorno a casa per un matrimonio in famiglia, lo stesso evento per cui Emanuela avrebbe dovuto suonare il flauto.

    I racconti di Pierluigi e Mario, sebbene contenessero alcuni elementi coincidenti, si rivelarono depistaggi, come confermato anche da successive indagini e dichiarazioni di presunti rapitori. Questi nuovi audio offrono un’ulteriore complessità a un caso già intricato, lasciando ancora molti interrogativi irrisolti sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

      Storie vere

      Multa da 200 euro per una birra nei vicoli di Genova: “Aiutatemi a pagarla, offritemi una birretta virtuale!”

      Multata di 200 euro per una birra consumata nei vicoli della città della Lanterna, lancia una raccolta fondi sulla piattaforma di crowdfunding GoFundMe.

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        Genova, centro storico. Laura Capini, genovese doc, è diventata protagonista di una storia che mescola ironia, burocrazia e una richiesta decisamente… social. La signora è stata multata di 200 euro per aver portato con sé una bottiglia di birra nei vicoli del centro storico di Genova. Per fare risaltare l’assurda decisione dei vigili urbani – che comunque hanno seguito l’odinanza approvata dal Comune – ha deciso di lanciare una raccolta fondi su GoFundMe per coprire la “mazzata”. La donazione nel momento in cui scriviamo è arrivata a raccogliere l’88% (220 euro) della cifra richiesta che è di 250 euro totali con 21 donatori.

        Chi beve birra campa cent’anni…Meditate gente, meditate…

        Una Moretti in vetro da 66 cl: materiale pericolosissimo, vero arsenale di degrado urbano“, ci scherza sopra la Capini nel suo post, in cui racconta l’accaduto con il suo compagno Massimo. Fermati dalle forze della vigilanza urbana nella notte tra il 16 e il 17 novembre, i due si sono visti sequestrare le birre (una aperta, l’altra intonsa) e recapitare la sanzione di 200 euro. “Me la incornicio questa multa“, ha detto la Capini, passando poi dalle parole ai fatti e pubblicando la foto del verbale come fosse un’opera d’arte moderna. La giovane però non si è fermata all’umorismo. Infatti ha attivato una campagna di crowdfunding, ovvero una raccolta fondi online, invitando chi condivide la sua indignazione a offrirle “una birretta virtuale” per aiutarla a pagare la multa.

        Cosa dice l’ordinanza anti-alcol di Genova?

        La multa ricevuta da Laura si basa sul regolamento di polizia urbana in vigore nel centro storico, che vieta di detenere bevande alcoliche (e non) in contenitori di vetro o metallo all’aperto, dalle 22:00 alle 6:00. La misura, introdotta per contrastare degrado e microcriminalità, si somma all’ordinanza anti-alcol varata nel 2023 e prorogata fino a settembre del 2025. Questa vieta il consumo di alcolici in aree pubbliche in tutta Genova, a meno che non si trovino in dehors autorizzati o contenitori sigillati. In alcune “zone rosse” come Cornigliano, Sampierdarena e il centro storico, il divieto è persino più stringente, estendendosi dalle 12:00 alle 8:00 del giorno successivo. L’idea è prevenire abusi, ma il regolamento non fa distinzioni: birra o acqua in borraccia, tutto è passibile di sanzione.

        Deboli con i forti, forti con i deboli?

        Laura non nasconde il suo disappunto. “Le leggi servono, ma possono essere scritte e applicate in modo più sensato. Un paio d’anni fa multarono uno che mangiava in pausa pranzo. Non sarà il caso di rivedere le priorità?

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          Cronaca

          Trapani, orrore dietro le sbarre: torture e abusi nel carcere Cerulli, 11 arresti e 14 sospensioni

          Lanci d’acqua mista a urina, violenze gratuite e detenuti ridotti a oggetti: le parole del procuratore Gabriele Paci gettano luce su una realtà agghiacciante. 46 indagati tra gli agenti penitenziari.

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            L’orrore del carcere Pietro Cerulli di Trapani si è svelato in tutta la sua crudezza: una sequenza di abusi e violenze che, secondo la procura, andavano ben oltre l’episodico, configurandosi come un metodo sistematico per garantire l’ordine. Undici agenti penitenziari agli arresti domiciliari, quattordici sospesi dal servizio e un totale di 46 indagati. L’accusa è pesante: tortura, abuso d’autorità e falso ideologico.

            Le indagini, partite nel 2021 e concluse solo di recente, hanno rivelato uno scenario che sembra uscito da un romanzo dell’orrore. Il reparto blu, chiuso oggi per carenze igienico-sanitarie, era diventato il teatro di veri e propri abusi nei confronti dei detenuti, spesso con problemi psichiatrici. Qui, lontano da occhi indiscreti – visto che non vi erano telecamere – i detenuti venivano sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, come raccontato dal procuratore di Trapani Gabriele Paci: “Venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina e sottoposti a violenze quasi di gruppo, gratuite e inconcepibili”.

            Una prassi agghiacciante

            Secondo quanto emerso, l’uso della violenza non era un episodio isolato, ma una prassi per alcuni agenti. “Non si trattava di sfoghi sporadici, ma di un metodo per garantire l’ordine”, ha dichiarato Paci, aggiungendo che il gip Giancarlo Caruso ha riconosciuto in questi atti la configurazione del reato di tortura.

            Circa venti i casi accertati finora, ma le indagini sono state rese possibili solo grazie all’installazione di telecamere nel reparto blu, oggi chiuso. “Era un girone dantesco”, ha aggiunto il procuratore, “che sembra ripreso direttamente dalle pagine de I Miserabili di Victor Hugo”.

            L’indagine e le reazioni

            Le indagini, coordinate dal nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria di Palermo, hanno rotto il muro di omertà che spesso avvolge situazioni simili. Nonostante lo stress e le difficili condizioni lavorative degli agenti siano stati riconosciuti dal procuratore Paci, “questo non legittima assolutamente le violenze”, ha precisato.

            Il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, ha espresso soddisfazione per il fatto che il reato di tortura abbia permesso di incriminare i responsabili. “Questo reato è fondamentale per perseguire chi si macchia di simili crimini e per sostenere le vittime. Ma, soprattutto, è cruciale per rompere il muro di omertà”, ha commentato.

            Gonnella ha lodato le professionalità interne all’Amministrazione penitenziaria che hanno permesso di far emergere la verità e riconoscere i diritti fondamentali dei detenuti. “Ora ci auguriamo che si faccia piena chiarezza, riconoscendo le responsabilità in sede processuale”.

            Un sistema sotto accusa

            Il carcere di Trapani non è il primo a finire al centro di uno scandalo simile. Questi episodi mettono in evidenza un sistema che sembra incapace di proteggere i diritti fondamentali dei detenuti, pur riconoscendo le difficoltà operative degli agenti penitenziari. Tuttavia, ciò che emerge con forza è che nulla può giustificare una simile degenerazione del ruolo delle forze dell’ordine.

            Le indagini proseguono, e con esse la speranza che episodi come quelli avvenuti nel carcere Cerulli diventino, finalmente, solo un ricordo del passato.

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              Cronaca Nera

              Giulio Regeni, il racconto delle torture: «Bendato e portato a spalla, sfinito dal dolore»

              Durante il processo contro quattro 007 egiziani, un testimone racconta il brutale trattamento subito da Giulio Regeni. In aula, il video proiettato da Al Jazeera e la commossa testimonianza della sorella riportano alla luce dettagli atroci.

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                Giulio Regeni «ammanettato con le mani dietro la schiena, bendato, portato a spalla da due carcerieri perché sfinito dalla tortura». È questo uno dei dettagli emersi oggi durante il processo in corso a Roma contro quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati della morte del ricercatore friulano, rapito e ucciso al Cairo nel 2016.

                Un cittadino palestinese, ex detenuto in una struttura di sicurezza egiziana, ha raccontato in un video trasmesso da Al Jazeera e proiettato in aula: «L’ho visto uscire da un interrogatorio. Era piegato dal dolore, non riusciva a stare in piedi. Lo riportavano alle celle sorreggendolo».

                Le parole strazianti del testimone si sono unite alla commovente testimonianza di Irene Regeni, sorella di Giulio, che ha ricordato in lacrime il fratello: «Era un ragazzo normale, appassionato di storia e culture diverse. Studiava l’arabo ed era entusiasta di partire per l’Egitto. Per me era un esempio, il fratellone che dava consigli. Non immaginavamo che sarebbe finita così».

                La famiglia Regeni non ha mai smesso di cercare la verità. Durante l’udienza, Irene ha raccontato come scoprì della tortura inflitta a Giulio: «Ricordo una telefonata di mia madre: ‘Hanno fatto tanto male a Giulio’. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».

                Anche il medico legale incaricato di analizzare il corpo di Giulio ha confermato le atroci sofferenze subite: «Bastonate sui piedi, bruciature e ammanettamento di polsi e caviglie. È stato sottoposto a torture indicibili».

                Il processo rappresenta un tentativo di fare luce su uno dei casi di violazione dei diritti umani più controversi degli ultimi anni, con un’attenzione crescente da parte della comunità internazionale.

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