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Cronaca

Emis Killa, tra armi, soldi e pestaggi: il rapper nel mirino per associazione a delinquere

Emiliano Rudolf Giambelli, in arte Emis Killa, è stato per anni una presenza fissa accanto al leader degli ultrà milanisti Luca Lucci. Le intercettazioni e le indagini della Dda lo collocano nel cuore degli affari sporchi della curva: armi in casa, pestaggi fuori dallo stadio e un business da proteggere. Ora è indagato per associazione a delinquere.

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    I tempi in cui Emis Killa rappava della vita di strada senza esserne coinvolto sembrano lontani anni luce. Negli ultimi mesi il suo nome è finito sempre più spesso nelle carte dell’inchiesta “Doppie Curve”, fino a portarlo dritto nel mirino della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano con un’accusa pesante come l’associazione a delinquere.

    Le indagini hanno svelato una rete di contatti inquietante. Il rapper era vicinissimo al leader della Curva Sud, Luca Lucci, il vero boss del secondo anello verde di San Siro, tanto da essere ospite fisso ai suoi eventi personali, dalle cene di Capodanno fino alle cresime di famiglia. Una frequentazione che non si limitava alle tavolate tra amici, ma che lo vedeva attivo anche negli affari della curva, la stessa curva che secondo gli inquirenti si muoveva come una vera e propria cosca.

    Le prime ombre sul suo coinvolgimento emergono con la grande retata del 29 settembre scorso, quando l’inchiesta su Lucci e i suoi sodali ha portato all’arresto di diversi ultrà con pesanti accuse, dal traffico di droga alle estorsioni. Emis Killa, all’epoca, ne era uscito solo sfiorato, con un ruolo di contorno nelle carte dell’indagine. Ma le cose sono cambiate nei mesi successivi.

    L’11 aprile scorso, prima di Milan-Roma in Europa League, il rapper si trovava ai cancelli di San Siro quando uno steward troppo ligio ai controlli è stato aggredito e pestato. Pochi mesi prima, il 17 agosto, aveva persino messo a disposizione il suo sky box personale a San Siro per Lucci, nel giorno del suo ritorno ufficiale sugli spalti dopo un periodo lontano dallo stadio. E mentre la Curva Sud lo omaggiava con uno striscione gigante – “Il Joker ride sempre”, dedicato al boss degli ultrà – Emis Killa restava nell’ombra, ma con il ruolo di uomo di fiducia.

    Le cose hanno iniziato a precipitare con le perquisizioni a casa sua. Gli agenti hanno trovato un arsenale: sette coltelli, tre tirapugni, uno sfollagente telescopico, un taser e 40mila euro in contanti. Alla domanda sulla provenienza del denaro, il rapper ha provato a minimizzare: “Il cash per i miei concerti”, ha dichiarato.

    Ma le indagini della procura di Milano non si sono fermate. Il sospetto è che con Lucci sepolto da ordinanze cautelari in carcere, qualcuno dovesse prendere in mano il business della Curva Sud. Ed è così che il nome di Emis Killa è finito sul registro degli indagati con l’accusa di associazione a delinquere, considerato un membro del sodalizio criminale che gestiva gli affari della curva.

    Le conseguenze non si sono fatte attendere. Il 23 dicembre è arrivato il daspo di tre anni firmato dal questore di Milano Bruno Megale, che lo definisce “un soggetto di pericolosità grave, attuale e concreta”. Il provvedimento gli vieta non solo di entrare negli stadi, ma anche di avvicinarsi a Milanello entro un raggio di 500 metri. Il rapper non potrà neppure camminare nel piazzale di San Siro nei giorni delle partite, dove per anni gli ultrà hanno imposto il loro racket su ambulanti e venditori di sciarpe.

    Nel provvedimento del questore, si legge chiaramente l’intenzione di “scardinare l’azione di controllo criminale esercitata dalla consorteria della Curva Sud”, e il nome di Emis Killa è tra quelli ritenuti troppo legati all’organizzazione per poter restare fuori dalle restrizioni.

    Per il rapper, che per anni ha cantato storie di vita difficile, è arrivato il momento di affrontare un’accusa che potrebbe cambiare tutto. Ma ora non è più solo una questione di strada e rime: è una questione di giustizia.

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      Storie vere

      Disabilità. separazione, resilienza. Così Giulia ha trasformato una tragedia in una vita felice

      Dopo un incidente che l’ha resa disabile e una dolorosa separazione, l’influencer racconta la sua storia di forza, resilienza e amore accanto al marito Andrea e ai loro due figli, dimostrando che la felicità è possibile anche oltre le avversità.

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        Ottobre 2011 è il mese che ha segnato un profondo cambiamento nella vita di Giulia Lamarca, influencer (con 725 mila follower), conosciuta per la sua forza e il suo messaggio di resilienza. A soli 19 anni, un grave incidente in moto le ha cambiato per sempre la quotidianità. Nove mesi di ricovero ospedaliero, la consapevolezza di non poter più camminare e l’addio del suo fidanzato dell’epoca. Un ragazzo che l’ha lasciata proprio nel giorno in cui ha ricevuto questa notizia devastante.

        Da una vigliaccata all’incontro della vita

        Dopo aver superato lo shock – il suo ex era in moto con lei il giorno dell’incidente – per Giulia le corsie dell’ospedale in cui ha vissuto i mesi più difficili della sua vita hanno creato lo spazio per un nuovo capitolo. In quelle stanze sempre uguali ha incontrato Andrea, il fisioterapista che sarebbe diventato il padre dei suoi figli, Ethan e Sophie. Ma tutto questo Giulia ancora non lo sapeva. Andrea si è innamorato subito di lei, ma «ci mise un po’ a conquistare la mia fiducia e il mio amore. Uscivo da un brutto periodo. Oggi posso dire di essere stata molto fortunata. È stato bello sentire che per lui andavo bene così». Infatti con il tempo, Andrea ha conquistato la fiducia e l’amore di Giulia, oggi trentenne, mostrando che per lui non contava la sua disabilità, ma la persona che era.

        Giulia è incredula di come si puo manifestare l’amore

        Giulia e Andrea sono una famiglia felice e incredula del percorso straordinario che hanno intrapreso insieme. “Non pensavo di poter raggiungere questo grado di felicità – confessa Giulia – siamo in quattro, è tutto vero?” Giulia è riuscita a fare della sua esperienza di vita un modo per sensibilizzare e incoraggiare il prossimo a non arrendersi mai.

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          Storie vere

          A 26 anni ha già tre case, come ha fatto? Ecco spiegato il successo finanziario di Charlie Sanderson

          Con un piano ben organizzato, disciplina e piccoli sacrifici, la giovane di Manchester dimostra che risparmiare e investire è possibile, senza mai rinunciare alla felicità e ai propri sogni.

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            Charlie Sanderson, una giovane di Manchester di soli 26 anni, è diventata un esempio di determinazione e organizzazione finanziaria. Con un piano ben studiato e un approccio metodico alle spese, è riuscita a comprare tre proprietà e ora si prepara per acquistare la sua quarta casa, senza mai rinunciare alla felicità. Ma come ha fatto? Ecco il suo percorso e le strategie che ha adottato. Magari ci si potrebbe ispirare…

            Il segreto del risparmio

            Charlie guadagna circa 40mila euro all’anno. Non poco ma nemmeno tanto. Al suo stipendio principale affianca lavoretti extra, come quello di “mystery shopper“. Ovvero una cliente misteriosa incaricata di valutare servizi e prodotti di aziende. Ma la chiave del suo successo sta nel modo in cui gestisce le sue spese. La giovane ha stabilito una regola ferrea: massimo 50 sterline al mese per tutto ciò che non è essenziale. Questo limite la aiuta a evitare spese inutili, ma non le impedisce di concedersi piccoli piaceri. Per esempio, in alcuni mesi spende meno di 10 sterline per cioccolato e snack, mentre in altri investe in esperienze che la rendono felice, come un pranzo fuori per lavoro o una serata al cinema. Seguendo il principio di ottimizzare anche queste spese, cerca di “ottenere il massimo” dalle piccole cose, dando priorità a ciò che ha un impatto positivo sulla sua vita.

            Gestire le proprie finanze… un gioco da ragazze

            Grazie a questa disciplina, Charlie ha già accumulato oltre 20mila sterline risparmiate, che ha investito saggiamente nelle sue proprietà. Inoltre, la sua capacità di pianificare a lungo termine le permette di bilanciare risparmio e obiettivi. Sta infatti lavorando per acquistare la casa dei suoi sogni e ha in programma un viaggio in Giappone il prossimo anno, dimostrando che è possibile risparmiare senza rinunciare alla propria felicità.

            Che cosa ci dice Charlie

            Con il suo esempio, Charlie sfida il pregiudizio secondo cui i giovani non sarebbero attenti al loro futuro. La sua dedizione e il suo metodo dimostrano che è possibile raggiungere grandi traguardi con uno stipendio medio e un’organizzazione intelligente delle finanze. La storia di Charlie non è solo una lezione di economia personale. Diventa un invito a credere nei propri sogni senza dimenticare di vivere il presente.

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              Mondo

              Scarpe da ginnastica sotto attacco: i dazi di Trump fanno tremare Nike e Adidas

              Nike, Adidas e Puma producono in Vietnam per abbattere i costi, ma ora rischiano grosso con le nuove tariffe volute da Trump. Spostare la produzione non sarà facile né rapido. Intanto aumentano i prezzi, crollano le Borse e si moltiplicano i timori per la catena globale della sneaker.

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                La guerra commerciale a stelle e strisce colpisce anche ai piedi. Nike, Adidas, Puma e tutti i principali produttori di scarpe sportive sono finiti nel mirino delle nuove tariffe Usa, e a farne le spese rischiano di essere sia i marchi internazionali sia gli stessi consumatori americani.

                Il presidente Donald Trump ha deciso di applicare una nuova tassa del 46% sulle scarpe importate dal Vietnam, attuale centro mondiale della produzione di calzature sportive. Un colpo durissimo per aziende che, da anni, hanno spostato l’intera filiera produttiva nel sud-est asiatico per ridurre i costi. Ora però, quelle stesse scarpe diventano improvvisamente troppo costose da importare negli Stati Uniti.

                Il peso del Vietnam nel mondo delle sneaker

                Nike, solo per citare il gigante del settore, ha avviato la produzione in Vietnam nel 1995 e oggi conta 130 fabbriche fornitrici nel Paese. Da lì arriva la metà della sua produzione di calzature. Anche Adidas dipende fortemente dal Vietnam, da cui importa quasi il 40% delle sue scarpe. Puma, stessa storia.

                Il Vietnam è diventato un pilastro della sneaker economy dopo che, nel primo mandato di Trump, molte aziende avevano abbandonato la Cina per evitare i dazi dell’epoca. Un processo lungo e complesso, reso possibile grazie a fornitori locali e a investimenti di gruppi sudcoreani e taiwanesi. Ora, il rischio è di dover traslocare di nuovo. E in fretta.

                Prezzi su, Borsa giù

                Secondo l’American Apparel & Footwear Association, la tariffa del 46% voluta da Trump si somma a dazi già esistenti del 20% sulle scarpe con tomaia in tessuto. Per restare a galla, le aziende dovranno alzare i prezzi fino al 20%, stima Adam Cochrane della Deutsche Bank.

                Nike ha già lanciato l’allarme nel suo rapporto trimestrale: “Navigare in questo ambiente incerto sarà complicato”, tra geopolitica, tariffe, valute e instabilità globale. Il risultato si è visto subito in Borsa: le azioni dell’azienda sono crollate ai minimi degli ultimi otto anni.

                Nuovi hub produttivi? Non prima di due anni

                Per chi vuole fuggire dal Vietnam, le opzioni non mancano: Messico, Brasile, Turchia ed Egitto sono tra i Paesi indicati dagli analisti come potenziali nuovi poli manifatturieri. Ma servono tempo, strutture, manodopera qualificata e soprattutto contratti.

                Lo spostamento della produzione richiederà dai 18 ai 24 mesi, spiegano gli esperti. E nel frattempo, i dazi restano. Anche perché Trump ha imposto tariffe minime del 10% su quasi tutti i partner commerciali, con picchi ben più alti su Cina e Indonesia, altri due importanti produttori di scarpe.

                Il paradosso della produzione americana

                Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma la realtà è che gli Stati Uniti non hanno fabbriche attrezzate né forza lavoro qualificata per realizzare scarpe sportive di alta gamma. Per questo, molti osservatori temono che l’unico effetto immediato sarà l’aumento dei prezzi per i consumatori americani.

                E intanto, in un mercato in cui il 99% delle calzature è importato, le grandi aziende valutano scenari alternativi: ridurre i volumi per gli Usa, dirottare i prodotti verso Europa, Medio Oriente o Cina, e tagliare i costi ovunque possibile. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica – osserva con amara ironia il Financial Times – quando la gente pagava i turisti per un paio di Levi’s originali.

                Le sneaker, insomma, sono diventate l’ultima vittima della guerra commerciale made in Trump. Un altro tassello nella strategia dei dazi che, più che rilanciare la manifattura americana, rischia di affossare le aziende e svuotare i portafogli dei consumatori. A colpi di dogana.

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