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Cronaca

Eredità Agnelli: sequestro di 74,8 milioni per John, Lapo e Ginevra Elkann

I sospetti ruotano intorno alla fittizia residenza estera della vedova di Gianni Agnelli. Secondo le accuse, la sua stabile dimora era in Italia, ma l’eredità è stata gestita seguendo il diritto svizzero. Per la Procura, un disegno criminale per evitare le tasse italiane su un patrimonio di oltre 800 milioni di euro

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    Non c’è pace per l’eredità della famiglia più famosa d’Italia. Dopo anni di battaglie legali e tensioni interne, la Procura di Torino ha disposto un sequestro preventivo di beni per 74,8 milioni di euro nei confronti di John, Lapo e Ginevra Elkann, insieme al commercialista e presidente della Juventus Gianluca Ferrero e al notaio svizzero Urs Robert Von Gruenigen. L’accusa? Frode fiscale e truffa ai danni dello Stato.

    Al centro l’eredità dell’avvocato

    Al centro dell’inchiesta c’è la gestione dell’eredità di Marella Caracciolo, vedova di Gianni Agnelli. Secondo gli inquirenti, la signora Agnelli sarebbe stata residente stabilmente in Italia almeno dal 2010, nonostante fosse formalmente domiciliata in Svizzera. E qui cominciano i guai: il testamento è stato aperto seguendo il diritto elvetico, permettendo di sottrarre una parte cospicua del patrimonio ai controlli fiscali italiani. Un’operazione che la Procura definisce come un “disegno criminoso volto a sottrarre l’ingente patrimonio e i relativi redditi alle leggi successorie e fiscali italiane”.

    L’esposto di Margherita

    L’esposto di Margherita Agnelli, madre dei tre fratelli Elkann, è stato l’innesco dell’indagine. Margherita, da tempo in guerra aperta con i figli per la gestione dell’eredità, ha denunciato la presunta fittizia residenza estera della madre, dando il via a un’indagine che ha portato alla scoperta di documenti contabili, e-mail e altre prove che sembrano confermare i sospetti.

    Il cuore dell’accusa ruota intorno alla rendita vitalizia percepita da Marella Caracciolo, che ammonterebbe a oltre 29 milioni di euro tra il 2015 e il 2019. Una somma su cui, secondo la Procura, non sono state pagate le imposte dovute in Italia. Ma non finisce qui: nel mirino ci sono anche redditi di capitale provenienti da attività finanziarie gestite tramite trust alle Bahamas, per un valore complessivo di oltre 116 milioni di euro. E poi le imposte sulle successioni e donazioni, con un totale di tributi evasi stimato in oltre 32 milioni di euro, su una massa ereditaria che supera gli 800 milioni.

    Un quadro che ha portato all’intervento della Guardia di Finanza, delegata a eseguire il sequestro preventivo. “Plurimi e convergenti elementi indiziari” è la formula utilizzata dalla Procura per descrivere le prove raccolte durante l’indagine. A pesare nella decisione del sequestro anche la rilevazione di spartizioni post mortem tra gli eredi di opere d’arte e gioielli di immenso valore, che avrebbero contribuito a ridurre l’imponibile fiscale in Italia.

    L’inchiesta prosegue, con i legali degli Elkann pronti a dare battaglia. “È tutto in regola, ogni operazione è stata fatta rispettando le normative vigenti”, è la linea difensiva. Ma la Procura non molla la presa e, al momento, la posizione dei fratelli Elkann e degli altri indagati resta sotto la lente di ingrandimento.

    La famiglia Agnelli, simbolo del capitalismo italiano e protagonista della storia economica e politica del Paese, continua a far parlare di sé. E mentre i riflettori si accendono su questa intricata vicenda legale, si attendono sviluppi che potrebbero riscrivere ancora una volta il futuro del celebre casato.

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      Storie vere

      Sequestrata a un narcotrafficante una Ferrari F512TR andrà all’asta per sostenere un progetto per il recupero dei tossicodipendenti

      La Ferrari F512TR, icona degli anni ’90, è stata messa all’asta dopo essere stata confiscata a un narcotrafficante. Il ricavato sarà destinato a programmi per combattere la tossicodipendenza, trasformando un simbolo di eccesso in uno strumento di speranza

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        Destinato a collezionisti di un certo livello di vita una Ferrari F512TR, sequestrata a un narcotrafficante verrà messa all’asta dallo Stato. Evoluzione della celebre Testarossa, l’F512TR è stata prodotta tra il 1993 e il 1995 in soli 2.261 esemplari. Pochi esemplari per quei ricchi che nel mondo si contendono almeno uno dei modelli di Maranello. Con un motore V12 da 5.0 litri e 428 cavalli, questa bellezza coupé accelera da 0 a 100 km/h in 4,8 secondi. E raggiunge una velocità massima di 314 km/h. Anche a distanza di 30 anni, le prestazioni della Ferrari F512TR continuano a stupire. E il prezzo? La sua valutazione è di circa 143 mila euro.

        I dettagli dell’asta tosta…

        La vendita si svolge online sulla piattaforma Escrapalia e si chiuderà il prossimo 10 aprile 2025. L’auto, targata 1126JTD, viene venduta “così com’è“, con 126.794 km all’attivo e alcune necessità di manutenzione. Per esempio? Beh bisognerà rivedere il cambio dei pneumatici e la sostituzione della batteria. Come una normalissima utilitaria…Nonostante le modifiche che la avvicinano al modello F512 M, l’auto conserva l’anima della F512TR originale.

        Avvertenze per l’acquirente

        Gli acquirenti stiano ben attenti. Oltre che vincere l’asta dovranno affrontare una tassa amministrativa di 1.845 euro e una commissione del 17,3%. Ma avranno accesso a una documentazione completa e a un’analisi dettagliata delle condizioni del veicolo.

        Ferrari F512TR anche un simbolo di rinascita

        Questa Ferrari non è solo un’auto da collezione. Diventerà anche un simbolo di rinascita. Il ricavato dell’asta, infatti, sarà interamente devoluto a programmi per il recupero dei tossicodipendenti, – ma guanda un po’ – una piccola rivincita da parte dello Stato che si batte contro mafie e criminalità.

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          Storie vere

          Pensionato dà una mano per l’adunata degli Alpini. Quattro giorni di lavoro che gli costeranno caro. Parola di Inps

          Il pensionato sta valutando un ricorso in appello, considerando anche altri casi analoghi in Italia.

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            Quando glielo hanno chiesto non ci ha pensato un attimo. Lo aveva fatto per tutta una vita lo spillatore di birra. La storia risale al 2023 quando un pensionato di 66 anni, ex dipendente di una birreria, ha accettato di lavorare per quattro giorni spillando birra all’adunata nazionale degli Alpini a Udine. Per quel “lavoretto” extra ha guadagnato 180 euro netti. Ma quel “lavoretto” gli è costato una sanzione di ben 29mila euro da parte dell’Inps, equivalente a un anno intero di pensione.

            Il motivo della sanzione

            Il pensionato era andato in pensione anticipata nel 2021 grazie al programma “Quota 100“, che consente di lasciare il lavoro prima del raggiungimento dell’età pensionabile. Tuttavia, la normativa prevede che chi beneficia di “Quota 100” non possa svolgere alcun lavoro retribuito, con l’unica eccezione del lavoro autonomo occasionale entro un limite di 5mila euro annui. Nonostante il pensionato abbia dichiarato di essersi informato presso gli uffici dell’Inps e di aver ricevuto rassicurazioni verbali, l’ente previdenziale è stato inflessibile. Ha applicato la normativa in modo rigoroso, imponendo la restituzione di un anno di pensione.

            La decisione del Tribunale che ha condannato il pensionato

            La vicenda è finita davanti al Tribunale del lavoro, che ha confermato la sanzione. L’unico beneficio ottenuto dal pensionato è stata una dilazione del pagamento. Invece di 650 euro mensili, dovrà restituire 430 euro al mese, per un totale di circa cinque anni.

            La posizione dell’Inps? Inflessibile

            L’Inps ha difeso la propria decisione, spiegando che il decreto legge 4 del 2019 vieta il cumulo della pensione anticipata con redditi da lavoro dipendente. Anna Pontassuglia, responsabile dell’Ufficio relazioni con il pubblico della sede provinciale dell’Inps, ha ribadito: “È ammessa solo la prestazione occasionale, comunque non superiore ai 5mila euro annui. L’istituto deve applicare pedissequamente la normativa.

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              Italia

              Torna la caccia alle streghe: una raccolta di firme per cancellare un concerto metal a Milano

              A quanto pare, il rock non muore mai. Ma fa ancora parecchio rumore, soprattutto tra chi non ama ascoltarlo. In soli due giorni, una petizione lanciata da CitizenGO ha raccolto oltre 35.000 firme per chiedere l’annullamento del concerto dei Behemoth. Satyricon e Rotting Christ in programma il 9 aprile all’Alcatraz di Milano. Le motivazioni? Offesa al sentimento religioso e, a detta di alcuni, minaccia al quieto vivere spirituale.

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                A perorare questa “guerra santa” contro il metal estremo è arrivata anche una lettera firmata dal consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Michele Mardegan, indirizzata direttamente al Sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Il contenuto? La richiesta ufficiale di annullamento dell’evento, probabilmente nella speranza di salvare le anime milanesi da riff infernali e cori gutturali. Peccato che nessuno abbia obbligato i cittadini a partecipare. Ma si sa, meglio prevenire che… headbanging!

                Il manifesto del concerto

                La risposta del web: Change.org contro la censura travestita da morale

                Come ogni buona storia rock, anche questa ha la sua controparte ribelle. Su Change.org è nata una contro-petizione che difende il diritto delle band di esibirsi e del pubblico di godersi un po’ di metal, senza essere etichettati come eretici in cerca di perdizione. Il testo è chiaro: “Chi va a questo concerto lo fa consapevolmente. Nessuno sta profanando chiese o scuotendo crocifissi.” In altre parole, libertà d’espressione batte crociata medievale.

                Censura e arte: un matrimonio che non s’ha da fare

                Il nocciolo della questione, come sempre, è uno: la libertà di espressione artistica. È davvero accettabile, nel 2025, che qualcuno voglia impedire l’esibizione di artisti perché non allineati a un pensiero religioso? E soprattutto, possiamo davvero permettere che una parte della popolazione decida cosa è giusto o sbagliato per tutti gli altri?

                Tornano alla memoria i roghi dei dischi dei Beatles

                ​Nel marzo del 1966, John Lennon dichiarò ironicamente che i Beatles erano “più popolari di Gesù”. Questa affermazione, che faceva parte del personaggio, sempre incline all’ironia specco anche feroce, inizialmente ignorata nel Regno Unito scatenò una forte reazione negli Stati Uniti quando fu ripresa da una rivista americana. In particolare, alcune stazioni radio del Sud promossero campagne per boicottare i Beatles, organizzando roghi pubblici dei loro dischi e memorabilia. Gruppi religiosi e membri del Ku Klux Klan parteciparono a queste manifestazioni, dando alle fiamme gli album della band e incitando al boicottaggio. Lennon si scusò pubblicamente, spiegando che non intendeva mancare di rispetto alla religione. Nonostante ciò, le proteste influenzarono la decisione dei Beatles di interrompere le tournée dal vivo

                Metal e democrazia: due concetti che fanno più rumore insieme

                Firmare la contro-petizione significa dire sì alla democrazia, alla pluralità e al diritto sacrosanto (quello sì!) di godersi un concerto. Non è questione di gusti musicali ma di civiltà. Perché oggi vietiamo il metal, domani magari i film horror, dopodomani i jeans strappati. E poi finisce che ci ritroviamo tutti a cantare Faccetta nera in chiesa. Meglio prevenire che doversi leccare poi le ferite…

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