Cronaca
La mano oscura di Londra dietro il caso Equalize: hacker, spie e dossier segreti in un intreccio internazionale
Emergono nuovi retroscena sul presunto network di hacker legato a Equalize, con connessioni internazionali e una “mano oscura” che avrebbe guidato operazioni dall’estero. Massimiliano Camponovo, uno degli imputati, parla di una struttura superiore e di una paura costante.
Una fitta rete di sospetti, intercettazioni e segreti emerge dall’inchiesta su Equalize, la società diretta da Enrico Pazzali e ora al centro di uno dei casi più intricati di cyber-spionaggio in Italia. Con il contributo decisivo del tecnico informatico Massimiliano Camponovo, sentito per oltre nove ore dal pm Francesco De Tommasi della Dda milanese, si sono aperti nuovi scenari su ciò che appare sempre più come un’organizzazione stratificata, in cui un “livello superiore” muoveva le fila di attività sospette legate a dossier illegali e sorveglianza abusiva.
Camponovo, attualmente ai domiciliari, ha fornito una serie di dettagli che illuminano uno scenario da spy story internazionale, indicando un gruppo di persone basato a Londra che avrebbe “condizionato” le operazioni di Equalize. Durante il lungo interrogatorio, il tecnico ha descritto l’esistenza di un “livello esterno e sovraordinato”, un’organizzazione oscura e ben più potente rispetto ai vertici italiani noti dell’indagine, tra cui Carmine Gallo e Nunzio Samuele Calamucci. Ha parlato di una “mano oscura” che sembrava manovrare gli avvenimenti dall’estero, gettando un’ombra inquietante su una vicenda che appare sempre più articolata e pericolosa.
Secondo le rivelazioni di Camponovo, il suo ruolo sarebbe stato esclusivamente esecutivo. “A me fornivano i dati e io facevo i report,” ha affermato, cercando di dipingersi come una semplice pedina in un sistema ben più grande e complesso. Le sue parole sono state parzialmente confermate da intercettazioni e verbali letti durante l’interrogatorio, ma a sorprendere è stata la descrizione di Camponovo su questa “dimensione estera prevalente” che avrebbe “manovrato il sistema” senza mai comparire apertamente. Ha spiegato di sentirsi intrappolato in dinamiche più grandi di lui, condizionato da ordini provenienti da un livello superiore a cui, a suo dire, era impossibile sottrarsi. “So che ho sbagliato,” avrebbe ammesso con un tono di rassegnazione e consapevolezza durante l’interrogatorio, riferendosi al clima di costante pressione e alla “paura” per sé e per i suoi cari a causa di questa entità oscura e potente.
Secondo Camponovo, queste pressioni esterne si sarebbero manifestate attraverso “varie dinamiche interne ed esterne che hanno condizionato l’attività della società”. Egli descrive un ambiente dove l’obbedienza era la norma, dove le decisioni sembravano essere prese altrove, lontano dal controllo di chi, come lui, era semplicemente incaricato di eseguire le operazioni più delicate e riservate. Camponovo ha affermato di essere stato quasi “invisibile” nella rete, un tecnico chiamato solo a eseguire, mentre i piani venivano orchestrati “dall’alto”, da quella che descrive come una dimensione quasi irraggiungibile, basata a Londra.
Ma cosa collega Milano, Londra e il gruppo di cyber-spie intorno a Equalize? Per Camponovo, un “gruppo di persone all’estero” con collegamenti inquietanti avrebbe “contaminato” dall’esterno le operazioni della società. Ha parlato di una paura concreta, di pressioni costanti e di dinamiche interne ed esterne che rendevano il suo lavoro precario e complesso. Queste dichiarazioni, messe agli atti, fanno emergere presunti collegamenti con servizi segreti stranieri, gettando così nuova luce sulle possibili implicazioni internazionali di questa indagine.
L’immagine che emerge dalle sue parole è quella di un network di potere che sembra operare quasi come un “burattinaio”, muovendo fili invisibili e pianificando strategie senza mai apparire. Le allusioni a un “livello superiore” non restano solo nella sfera del sospetto ma si fanno più dettagliate nel verbale di Camponovo, in cui il tecnico informatico spiega di aver avvertito minacce non solo per sé, ma anche per la sua famiglia. “Sentivo di essere controllato,” ha affermato in aula, dipingendo un quadro che ricorda più un thriller di spionaggio che una semplice inchiesta di cyber-criminalità. Ha detto di aver visto, nel tempo, una “contaminazione” progressiva di Equalize, guidata da una “dimensione estera prevalente e sovraordinata” in cui avrebbe operato “un gruppo di persone all’estero”, un’entità organizzata che “non compariva apertamente ma era sempre presente”.
Con il caso Equalize ancora in fase di esplorazione, l’attenzione si concentra ora sulla possibilità di identificare i membri di questo misterioso “livello superiore”. Da Londra, la “mano oscura” sembra aver orchestrato non solo le operazioni italiane, ma anche le dinamiche che hanno portato a questa rivelazione scioccante. Camponovo, con il supporto del suo legale, continua a sottolineare il suo ruolo marginale, ma i dettagli rivelati sono sufficienti per dipingere un quadro inquietante e, per certi versi, distopico. Un mondo in cui il controllo e l’invasione della privacy rappresentano un rischio reale.
In questo panorama, dove il confine tra sicurezza e violazione dei diritti diventa sempre più labile, il caso Equalize apre inquietanti interrogativi su quanto le moderne tecnologie possano essere sfruttate per fini tutt’altro che legittimi. Le parole di Camponovo, con il loro carico di paura e di consapevolezza, sono un promemoria di quanto il controllo totale sulla vita privata possa diventare una realtà alla portata di chi sa come muoversi nelle pieghe oscure del web.
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Cronaca
«Abbiamo vinto, avrai 277 mila euro»: così Randi Ingerman è stata truffata dalla sua avvocata
L’avvocata Serena Grassi è stata rinviata a giudizio con le accuse di patrocinio infedele e falso. Secondo i magistrati, avrebbe ingannato la showgirl Randi Ingerman, facendole credere di aver vinto cause legali che, in realtà, non erano state nemmeno avviate o erano state perse. Per supportare le sue affermazioni, Grassi avrebbe persino mostrato sentenze false del Tribunale di Milano. Il caso è ora nelle mani della Procura di Brescia, che ha chiesto il rinvio a giudizio della legale.
Serena Grassi, avvocata 45enne, è stata rinviata a giudizio con gravi accuse di patrocinio infedele e falsificazione di atti. La vicenda ha preso il via quando la sua celebre cliente, la showgirl Randi Ingerman, 56 anni, si è resa conto di essere stata ingannata per anni. La Grassi avrebbe fatto credere alla Ingerman di aver vinto una serie di cause legali, alcune delle quali nemmeno avviate, mentre altre erano state realmente perse, ma falsificate per sembrare vittorie.
Il caso più emblematico è quello di una presunta causa contro una banca, nella quale la Grassi avrebbe comunicato alla Ingerman una vittoria con un risarcimento di 277.000 euro. In realtà, quella causa era stata persa, ma per nascondere la verità, l’avvocata avrebbe falsificato una sentenza del Tribunale di Milano, attribuendola al giudice Adriana Cassano Cicuto. Quest’ultima, ignara del tutto, si trova ora insieme alla giudice del lavoro Zenaide Crispino, coinvolta in un’altra presunta falsificazione, come parte offesa nel processo.
La vicenda non si limita a questa singola falsificazione. La Grassi avrebbe assicurato alla Ingerman di aver avviato ulteriori azioni legali contro una clinica e contro l’Inps, ma anche in questi casi si sarebbe trattato di pura invenzione o, quando effettivamente avviate, di cause perse senza informare la cliente del vero esito. In ogni caso, la realtà veniva mascherata con documenti contraffatti, mantenendo la Ingerman nell’illusione di vittorie inesistenti.
La showgirl, assistita dall’avvocato Davide Steccanella, ha deciso di denunciare la Grassi, scoprendo così l’intero inganno che ha coinvolto anche le toghe del distretto giudiziario milanese. La competenza del caso è passata alla Procura di Brescia, dove il pm Giovanni Tedeschi ha chiesto il rinvio a giudizio per Serena Grassi.
Un sistema di falsificazioni e bugie
La gravità delle accuse rivolte alla Grassi si riflette nella complessità e nell’audacia delle sue azioni. Non si trattava solo di mentire alla cliente, ma di costruire un’intera realtà parallela fatta di documenti legali fasulli, mirata a mantenere una parvenza di successo professionale. È questo che rende il caso particolarmente eclatante, mettendo in luce i rischi legati alla fiducia cieca riposta in un professionista.
Il processo, che si annuncia lungo e complesso, dovrà fare chiarezza su tutte le circostanze e determinare la responsabilità dell’avvocata in un caso che ha lasciato una profonda ferita nella vita personale e professionale della sua ex cliente.
Cronaca Nera
“Meglio un figlio morto che come me”: la lettera di Filippo Turetta ai genitori dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin
Filippo, ora in attesa di giudizio, chiede ai genitori di rinnegare il loro legame e racconta il suo tentativo fallito di togliersi la vita. “Ho perso la persona più importante per me e tutto questo per colpa mia. Non esiste perdono, e non lo voglio”. La sentenza definitiva è attesa per il 3 dicembre.
“Ho perso la persona più importante, rinnegatemi”. Con queste parole Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, scrive ai suoi genitori dalla cella del carcere di Halle, in Germania, dove fu detenuto dopo essere stato arrestato. Una lettera che mostra tutta la disperazione di un giovane consapevole del gesto estremo che ha compiuto e del dolore che ha causato. La missiva è agli atti del processo che si è aperto ieri mattina a Venezia, dove Turetta è accusato di omicidio volontario aggravato da premeditazione, crudeltà, efferatezza, stalking e occultamento di cadavere.
Filippo si rivolge direttamente ai genitori, chiedendo loro di dimenticarlo e, se possibile, di rinnegare il loro legame: “Capirei e accetterei se d’ora in poi volete dimenticarmi e rinnegarmi come figlio… e probabilmente sarebbe la scelta migliore per la vostra vita. Probabilmente sarebbe meglio un figlio morto che un figlio come me”, scrive il 23enne nella lettera che risale al novembre del 2023, pochi giorni dopo l’omicidio della sua ex fidanzata, il cui corpo venne ritrovato sette giorni dopo, nella zona del lago di Barcis, in provincia di Pordenone.
Il tentativo di suicidio e il senso di colpa
Nella lettera, Filippo racconta anche di aver tentato il suicidio: “Ho provato a soffocarmi con un sacchetto di plastica in testa, ma all’ultimo l’ho strappato. Volevo fare un incidente mortale, un frontale contro un muro o albero, che non mi lasciasse scampo, ma neanche in questo sono riuscito”. Le sue parole tradiscono una consapevolezza amara e dolorosa: “Sono stato la maggior parte delle ore degli ultimi giorni seduto in macchina puntandomi il coltello alla gola o al torace, aspettando di riuscire a sferrare i colpi. Invidio molto chi ha avuto il grande coraggio di farlo, a differenza mia”.
La lettera continua con un’ammissione di colpa che cerca una sorta di giustificazione impossibile: “Ho perso la persona che è tutto per me e che da due anni penso ininterrottamente ogni giorno… e tutto questo per colpa mia. Non so perché l’ho fatto, non avrei mai pensato o voluto succedesse niente del genere. Io non sono cattivo, lo giuro… Vorrei tutto tornasse indietro e non fosse successo niente”.
Il dolore dei genitori e l’attesa della sentenza
Non ci saranno testimoni durante il processo, ma questa lettera sarà uno degli elementi centrali del dibattimento. Il prossimo 25 ottobre, Filippo Turetta verrà interrogato in aula dai giudici della Corte d’Assise di Venezia. Seguiranno altre quattro udienze prima della sentenza, attesa per il 3 dicembre. Intanto, il padre di Giulia, Gino Cecchettin, continua a battersi perché la storia della figlia non venga dimenticata e diventi un simbolo di lotta contro la violenza sulle donne.
“Non sapevo e non avrei immaginato che sarei diventato così famoso e questo mi fa tanta paura. Ho generato tanto odio e tanta rabbia. E me lo merito”, scrive ancora Filippo ai suoi genitori. Un riconoscimento di colpa che, però, non attenua il dolore di una famiglia e di una comunità intera devastata dalla perdita di Giulia.
“Mi merito tutto questo dopo quello che ho fatto. Non sono neanche riuscito a uccidermi… vivrò la mia intera vita in carcere… non potrò più laurearmi, conoscere persone, avere una famiglia e godere di quello che ho già…”, conclude Filippo. Parole che non lasciano spazio a giustificazioni, ma che segnano l’inizio di un percorso giudiziario destinato a concludersi con una sentenza che sarà, inevitabilmente, una condanna per un gesto che ha tolto la vita a una giovane ragazza e distrutto molte altre esistenze.
Storie vere
Bodybuilding pensaci tu. Claudia a 47 anni, depressa e sovrappeso, ha trovato la forza per cambiare la sua vita grazie a questa pratica
Lo sport può essere una potente forma di terapia. E così lo è stato per Claudia Oliveira 52enne brasiliana che con la pratica del bodybuilding ha trasformato la sua vita in meglio.
Claudia oggi ha 52 anni e vive felice e contenta. Ma solo 5 anni fa non era così. Depressa e sovrappeso si sentiva una donna inutile, problematica sull’orlo di crisi di nervi continue. Insomma era infelice e non si piaceva per nulla. Poi è successo qualcosa che ha trasformato completamente la sua esistenza: ha iniziato a praticare il bodybuilding. Piano, piano giorno dopo giorno ha capito che quella pratica stava influenzando positivamente il suo umore. Ma soprattutto la sua autostima oltre naturalmente migliorare il suo corpo sia da punto di vista estetico sia dal punto di vista di resistenza neuromuscolare.
La passione per il bodybuilding e la voglia di trasmetterla
Dopo i primi positivi cambiamenti Claudia Oliveira ha deciso di raccontare quella sua avventura e pratica anche sui social. E così in poco tempo è diventata un punto di rifermento di quanti, nelle sue stesse condizioni, cercavano qualche idea e aiuto per migliorare il proprio benessere psico fisico. Poi man mano che i suoi follower crescevano di numero e le restituivano feedback positivi ha deciso di impegnarsi nel promuovere e divulgare i benefici di questa pratica corporea. Fino a diventare un vero e proprio punto di rifermento del settore. Insomma un testimonial dei benefici del bodybuilding.
La sua esperienza e motivazione come ispirazione per chi vuole cambiare
Claudia ci tiene proprio a fare conoscere la sua esperienza. “Il bodybuilding mi ha salvata. Credevo di meritare qualcosa di meglio, e ho iniziato a cambiare le mie abitudini alimentari e ad allenarmi,” scrive sui social. Il suo percorso non è solo fisico: oggi si sente più forte, sicura e realizzata, e spera che la sua storia possa ispirare chiunque lotti con problemi simili a trovare la forza per trasformare la propria vita. Si sente talmente coinvolta che dalla depressione di cinque anni fa si è aggiudicata il premio Fitness Newcomer in Brasile, mostrando che l’impegno e la passione possono rivoluzionare anche le sfide più difficili. “Sto vivendo la mia fase migliore: del mio corpo, della mia mente, della mia autostima e della mia forza,” racconta, spronando i suoi follower a credere in loro stessi. “Se ci sono riuscita io, puoi farcela anche tu,” aggiunge. Equesto è il messaggio che più conta.
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