Mistero
Dove si trova la tomba di Gesù? Ecco le nuove scoperte archeologiche
Le nuove scoperte hanno un valore sia scientifico che spirituale. La presenza di elementi compatibili con i racconti evangelici rafforza la connessione tra la narrazione biblica e le testimonianze archeologiche.

Nel cuore di Gerusalemme, sotto la superficie della Chiesa del Santo Sepolcro, recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce una serie di scoperte straordinarie che gettano nuova luce sulla storia del sito ritenuto il luogo della sepoltura di Gesù. Questi ritrovamenti intrecciano narrazione evangelica e testimonianze materiali, arricchendo la comprensione scientifica e spirituale del luogo. Gli archeologi hanno identificato tracce di ulivi e viti che cresceva nella zona circa duemila anni fa. Questi dati confermano i racconti del Vangelo di Giovanni, che menziona l’esistenza di un giardino nei pressi del Calvario, luogo della crocifissione. La presenza di queste piante suggerisce che l’area fosse originariamente coltivata, come descritto nei testi sacri.
Da semplice cava a necropoli
Il terreno su cui oggi sorge la Chiesa del Santo Sepolcro è stato originariamente una cava risalente all’età del Ferro (1200-586 a.C.). Dopo essere stata abbandonata, la cava venne trasformata in un’area funeraria. I sepolcri, scavati progressivamente nelle pareti rocciose, testimoniano un uso funerario antecedente all’epoca cristiana. Questa stratificazione storica rivela la millenaria trasformazione del luogo, che ha attraversato epoche e culture. Durante gli scavi, sotto l’attuale edicola, è stata rinvenuta una base circolare in marmo compatibile con rappresentazioni architettoniche del V e VI secolo. Inoltre, sono state trovate monete risalenti al IV secolo, che offrono un riferimento temporale preciso per la costruzione della prima chiesa cristiana, ordinata dall’imperatore Costantino. Questi elementi rafforzano la connessione del sito con le prime comunità cristiane.
Il complesso rituale dell’età del primo tempio
Un ritrovamento significativo è quello di un santuario risalente all’epoca del Primo Tempio (VIII secolo a.C.), composto da otto ambienti scavati nella roccia. Questo complesso include un altare, una pietra sacra e attrezzature per la produzione di vino e olio d’oliva. Secondo gli esperti, il santuario fu chiuso durante il regno di Ezechia, riformatore religioso e antenato diretto di Gesù, secondo il Vangelo di Matteo. Questo legame simbolico arricchisce ulteriormente la storia del sito. Le ricerche sono state rese possibili grazie a un accordo storico tra il Patriarcato Ortodosso, la Custodia di Terra Santa e il Patriarcato Armeno. I lavori di scavo, condotti con strumenti digitali avanzati, hanno permesso di ricostruire virtualmente il sito nella sua interezza, integrando storia e tecnologia. Questa cooperazione ha assicurato che il flusso dei pellegrini non fosse interrotto, evidenziando l’importanza spirituale e turistica del luogo.
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Mistero
L’incredibile storia di Charles Joughin, il fornaio sopravvissuto al naufragio del Titanic. Sarà vera?
Nonostante alcune incongruenze, la vicenda di Joughin, il capo panettiere del Titanic, continua a suscitare fascino e curiosità.

Chiariamo subito che ci sono alcune incongruenze nella storia di Charles Joughin, capo panettiere a bordo del Titanic, noto non solo per essere sopravvissuto alla tragedia ma per il curioso dettaglio del suo racconto. Joughin dichiarò che per resistere nelle acque gelide dell’Atlantico si sarebbe aiutato con l’alcol. Una storia che, seppur romanzata o alterata dai ricordi del momento, rimane affascinante e ci consegna il ritratto di un uomo comunque resiliente.
Ma chi era Charles Joughin?
Nato il 3 agosto 1879 a Birkenhead, Liverpool, mister Joughin era già un uomo esperto nella gestione delle cucine navali quando si arruolò per lavorare sul Titanic. Aveva lavorato come capo panettiere sulla nave gemella del Titanic, l’Olympic, e nel 1911 risultava residente a Elmhurst con la moglie Louise e i due figli piccoli, Agnes e Roland. A bordo del Titanic, Joughin era responsabile di una squadra di 13 panettieri.
La notte del naufragio? Distribuiva pagnotte e lanciava in acqua le sedie sdraio
Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, quando il Titanic colpì l’iceberg alle 23:40, Charles Joughin si trovava nella sua cabina fuori servizio. Resosi conto della gravità dell’incidente, inviò i suoi panettieri a rifornire i passeggeri con 50 pagnotte destinate alle scialuppe di salvataggio. Dopo essersi assicurato che il suo staff fosse al lavoro, Joughin decise di bere un bicchiere di whisky. Più tardi raggiunse il ponte e aiutò donne e bambini a salire sulla scialuppa a lui assegnata, la numero 10, senza però prenderne posto per dare l’esempio. Con le scialuppe già partite e nessuna possibilità di salvezza apparente, Joughin si dedicò a lanciare sedie a sdraio in mare, con la speranza che potessero servire da appiglio per chiunque fosse caduto in acqua. Quando la nave si spezzò in due alle 2:10, fu una delle ultime persone a lasciare il Titanic, restando attaccato al relitto fino all’ultimo istante. Questo lo dice lui.
Come fece a sopravvivere mister Joughin
Joughin dichiarò di essere caduto in acqua poco prima che la nave affondasse completamente, sostenendo di non essersi nemmeno bagnato i capelli. Disse di aver nuotato per circa due ore nell’Atlantico gelido, fino a raggiungere una zattera di salvataggio pieghevole, la zattera B. Poiché questa era già sovraccarica, rimase in acqua fino a quando un collega dell’equipaggio, il cuoco Isaac Maynard, lo aiutò a salire a bordo. Successivamente venne tratto in salvo dalla nave Carpathia. Arrivò a New York il 16 aprile 1912, in buone condizioni fisiche, riportando solo un gonfiore ai piedi.
Le incongruenze del suo mirabolante racconto
La testimonianza di Joughin, pur avvincente che sia, presenta alcune incongruenze. Vediamo quali. La prima è il tempo di sopravvivenza nelle acque gelide dell’Atlantco. A temperature vicine agli 0°C, il corpo umano può resistere solo per pochi minuti prima che l’ipotermia diventi letale. Le due ore menzionate da Joughin sembrano davvero molto improbabili. Andiamo avanti. La seconda incongruenza è l’effetto dell’alcol. Contrariamente alla convinzione popolare, l’alcol non protegge dal freddo. Essendo un vasodilatatore, accelera la perdita di calore corporeo, aumentando il rischio di ipotermia. È possibile, però, che l’alcol abbia attenuato lo shock psicologico e fisico, dandogli un senso temporaneo di calore e coraggio. Alcuni esperti ipotizzano che Joughin possa non essere stato in acqua per tutto il tempo indicato o che il suo racconto sia stato influenzato dal trauma e dall’impatto emotivo. E fin qui ci siamo.
La sua testimonianza in un libro sulla tragedia
Dopo il naufragio, Joughin tornò in Inghilterra e partecipò come testimone all’inchiesta britannica sulla tragedia, che si tenne tra maggio e luglio 1912. Continuò a lavorare come panettiere su navi da crociera e, dopo la Prima Guerra Mondiale, si arruolò nella marina mercantile. Alla fine, si trasferì in New Jersey, negli Stati Uniti, dove visse fino alla sua morte, avvenuta il 9 dicembre 1956 a causa di una polmonite. Joughin lasciò un’impronta indelebile nella storia del Titanic, raccontando un’esperienza di sopravvivenza davvero unica che mescola tenacia, fortuna e tanta leggenda. Cos’ leggendario che la sua testimonianza venne inclusa nel libro A Night to Remember di Walter Lord, che ancora oggi resta una delle opere più autorevoli sulla tragedia.
Mistero
Il carro di bambù delle Alpi: mistero tra i ghiacci del Passo dello Spluga
Un antico manufatto riemerge nel cuore delle Alpi svizzere, riscrivendo le rotte storiche tra Italia e Svizzera.

Un escursionista svizzero, Sergio Veri, durante un trekking sul Passo dello Spluga, si è imbattuto in un ritrovamento davvero sorprendente. Un piccolo carro di bambù, un manufatto tanto semplice quanto enigmatico. Questo ritrovamento sta sconcertando archeologi e storici. Il bambù non è una pianta originaria dell’Europa, rendendo la sua presenza nel cuore delle Alpi un vero e proprio mistero. Come ci sarà arrivato fin lassù?
Un percorso millenario e un enigma moderno
Il Passo dello Spluga, a cavallo tra Svizzera e Italia, è noto per essere stato un’importante via di comunicazione sin dall’antichità. Utilizzato dai Romani per collegare il Cantone dei Grigioni alla Val San Giacomo e Chiavenna, questo passaggio ha testimoniato secoli di commerci, guerre e scambi culturali. Tuttavia, il carro ritrovato, realizzato con ruote e assi di bambù intrecciate con corde, non sembra appartenere a questo contesto storico. Il bambù fu introdotto in Europa solo tra il XVIII e il XIX secolo, suggerendo che il manufatto potrebbe essere stato portato da una regione lontana.
A che cosa serviva quel carro ritrovato sullo Spluga
Le autorità del Canton Grigioni, dopo aver pubblicato le immagini del ritrovamento, hanno chiesto il contributo della comunità per raccogliere informazioni sull’origine e sull’uso del carro. Tra le ipotesi avanzate, si suppone che il carro potesse essere parte di un’operazione di contrabbando o utilizzato per il trasporto di provviste da caccia. La collocazione del manufatto, sepolto per secoli sotto il ghiaccio alpino, ne preserva il mistero. Gli archeologi ritengono che il carro potrebbe essere stato abbandonato durante un attraversamento o un viaggio disperato lungo le asperità del passo.
Ritrovamenti misteriosi
Il ritrovamento di oggetti insoliti lungo le antiche rotte alpine non è una novità. Nel 1991, la scoperta di Ötzi, l’Uomo del Similaun, tra Italia e Austria, portò alla luce una figura di cacciatore dell’Età del Rame con un arco e strumenti di selce. Similmente, nei pressi del Passo del Bernina, vennero rinvenuti frammenti di carri romani, prova dell’uso intensivo delle rotte alpine già in epoca imperiale. Il carro di bambù dello Spluga si inserisce in questo contesto di scoperte affascinanti che raccontano il ruolo cruciale delle Alpi come crocevia di culture, popoli e commerci. Gli esperti stanno ora analizzando il carro per determinarne l’origine esatta e il periodo storico di appartenenza. Il manufatto potrebbe gettare nuova luce sulle connessioni tra l’Europa e regioni lontane in epoche relativamente recenti, o addirittura svelare dettagli inaspettati sul contrabbando attraverso le Alpi.
Mistero
Quando fai un click e scopri una città Maya… “Valeriana” il sito archeologico scoperto con una semplice ricerca su Google
Uno studente dell’università di Tulane, negli Stati Uniti, analizzando dei dati di una ricerca che stava effettuando ha individuato, nella giungla messicana di Campeche, una città Maya.

In un’epoca dominata dalla tecnologia, a volte le scoperte più straordinarie nascono da gesti apparentemente banali. È il caso di Luke Auld-Thomas, un giovane studente di archeologia che, navigando tra le pagine dei risultati di una ricerca su Google, ha fatto una scoperta sensazionale: una città Maya mai vista prima, nascosta da millenni sotto la fitta vegetazione messicana.
Maya o non Maya? Quando la fortuna aiuta gli audaci (e i curiosi)
Mentre scorreva i risultati di una ricerca sul monitoraggio ambientale in Messico, Auld-Thomas si è imbattuto in una mappa della giungla dello stato del Campeche. Analizzandola attentamente e confrontandola con le sue conoscenze di archeologia, ha notato qualcosa di inusuale. Ovvero una serie di strutture geometriche che suggerivano la presenza di un antico insediamento.
La tecnologia al servizio della storia
La chiave di questa scoperta è stata una tecnologia innovativa chiamata LiDAR (Light Detection and Ranging). Questa tecnica, che utilizza impulsi laser per creare mappe tridimensionali ad alta risoluzione, ha rivoluzionato l’archeologia permettendo di “vedere” attraverso la vegetazione e il terreno. Grazie al LiDAR, i ricercatori sono stati in grado di individuare con precisione le strutture della città nascosta, dalle piramidi ai palazzi, dalle strade alle piazze.
Valeriana: una città Maya dimenticata
La città, battezzata Valeriana, si rivela essere un centro urbano di notevoli dimensioni, con una popolazione stimata tra i 30.000 e i 50.000 abitanti al suo apice. Le rovine, che si estendono per oltre 16 chilometri quadrati, testimoniano l’importanza di questo sito nella civiltà Maya. La scoperta di Valeriana getta nuova luce sulla complessità e sull’organizzazione sociale dei Maya, e ci permette di comprendere meglio la loro cultura e il loro modo di vivere. La scoperta di Valeriana è solo l’inizio. I ricercatori sono convinti che ci siano ancora molte altre città Maya nascoste sotto la giungla, in attesa di essere scoperte. Grazie alle nuove tecnologie e all’impegno degli archeologi, stiamo assistendo a una vera e propria rinascita dell’interesse per questa antica civiltà.
Cosa possiamo imparare da questa scoperta?
L’importanza della tecnologia. Il LiDAR ha dimostrato di essere uno strumento indispensabile per l’archeologia, aprendo nuove prospettive per la ricerca e la scoperta. Inoltre ci insegna che anche una semplice ricerca su Google può portare a scoperte straordinarie, se si ha la curiosità e la determinazione di andare oltre.
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