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Dodici anni di Papa Francesco: un pontificato che ha diviso la Chiesa

Molto amato dai laici, meno dai tradizionalisti cattolici, Bergoglio ha segnato un’epoca con il suo approccio rivoluzionario. Oggi, però, celebra il suo anniversario più difficile dal letto d’ospedale.

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    Dodici anni fa, il 13 marzo 2013, il mondo assisteva a un evento storico: per la prima volta un sudamericano saliva al soglio pontificio, con il nome di Francesco, un nome che già nella scelta suonava come un manifesto programmatico. Un Papa “venuto dalla fine del mondo”, come lui stesso si definì, che da subito ha scardinato protocolli e certezze, conquistando il favore di molti e scatenando l’opposizione feroce dei tradizionalisti.

    Un pontificato segnato dalle fratture interne

    Se c’è una cosa che Papa Francesco non è mai stato, è un pontefice neutrale. Fin dal primo momento ha diviso la Chiesa, tra chi ha visto in lui un soffio di rinnovamento e chi lo ha vissuto come una minaccia per la tradizione. Il mondo laico lo ha amato, affascinato dal suo stile diretto, dalla sua attenzione per gli ultimi e dalla volontà di affrontare temi come povertà, ecologia e accoglienza, mai così centrali nel dibattito religioso prima del suo arrivo.

    I tradizionalisti cattolici, invece, non lo hanno mai accettato. Lo hanno accusato di relativismo, di voler smantellare la dottrina con aperture troppo progressive e, per anni, hanno continuato a mettere in discussione la legittimità della sua elezione. Fino alla morte di Benedetto XVI, il primo Papa emerito della storia moderna, il dualismo tra i due ha tenuto banco, alimentando un clima da Chiesa spaccata.

    Il Papa della misericordia (ma il Giubileo fu un flop)

    Uno dei concetti chiave del pontificato di Francesco è stato la misericordia. Un tema a cui ha dedicato un intero Giubileo, quello del 2015-2016, che però non ha avuto il successo sperato. La partecipazione fu inferiore alle attese, un segnale di come il messaggio papale non riuscisse a sfondare ovunque con la stessa intensità.

    Ma se il Giubileo non fu un trionfo, le sue prese di posizione su ambiente e disuguaglianze hanno avuto un impatto molto più forte. Con l’enciclica Laudato Si’, il pontefice ha spostato l’attenzione della Chiesa su clima e sostenibilità, un tema fino a quel momento quasi inesplorato dalla dottrina cattolica. La sua voce è stata tra le più ascoltate nei dibattiti internazionali su ambiente e migrazioni, tanto da meritargli il plauso di molti leader politici, anche non credenti.

    Un Papa che non ha paura di scontrarsi

    Francesco non ha mai avuto timore di esporsi, spesso andando controcorrente rispetto alle posizioni più rigide della Chiesa. Dai divorziati ai diritti delle coppie omosessuali, dai migranti alla lotta alla pedofilia nel clero, ha cercato di affrontare problemi che per decenni erano stati evitati o minimizzati.

    Ma proprio questi tentativi di modernizzazione gli hanno attirato accuse di eresia da parte dell’ala più conservatrice del clero. Alcuni cardinali, con lettere pubbliche e prese di posizione sempre più dure, hanno cercato di ostacolare il suo operato, creando una frattura interna senza precedenti nella Chiesa moderna.

    Un anniversario difficile

    Oggi, 13 marzo 2025, Papa Francesco si trova all’ospedale Gemelli, ricoverato da settimane per una polmonite bilaterale. Per la prima volta, il suo anniversario di pontificato non si celebra in Piazza San Pietro, ma in una stanza d’ospedale.

    La sua salute, negli ultimi mesi, ha alimentato speculazioni sempre più insistenti sulla possibilità che possa seguire l’esempio di Benedetto XVI e dimettersi. Per ora, il pontefice non sembra voler cedere, ma il futuro della Chiesa appare più incerto che mai.

    Dodici anni dopo quell’elezione che sconvolse il Vaticano, una cosa è chiara: Papa Francesco non è stato un Papa qualunque. Ha diviso, ha rivoluzionato, ha combattuto. Ha portato la Chiesa in luoghi dove prima non osava andare, ma ha lasciato dietro di sé una comunità ecclesiastica forse più spaccata di prima.

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      Mondo

      Deutsche Bank: un dipendente guadagna il doppio del boss dell’azienda. Come è possibile?

      Lo rivela il Financial Times, spiegando come nel 2024 oltre 600 tra impiegati e manager che lavorano per l’istituto hanno avuto una retribuzione superiore a 1 milione di euro.

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        La notizia che un dipendente di Deutsche Bank guadagni più del doppio del CEO Christian Sewing ha suscitato grande interesse e curiosità. Ma come è possibile che un dipendente superi il proprio amministratore delegato in termini di retribuzione? Ecco una spiegazione dettagliata.

        L’impennata dei profitti nell’investment banking di Deutsche Bank

        Il principale motivo dietro questa disparità salariale è l’impennata dei profitti nell’investment banking di Deutsche Bank. Nel 2024, i profitti dell’investment banking sono aumentati del 78% al lordo delle imposte. Questo incremento ha portato a bonus sostanziali per i dirigenti e gli impiegati del settore, che costituiscono una parte significativa della loro retribuzione totale. La retribuzione variabile legata alle prestazioni è una componente cruciale del pacchetto retributivo per molti dipendenti di Deutsche Bank, specialmente nell’investment banking. Questo significa che i bonus possono variare notevolmente in base ai risultati finanziari dell’anno. Nel 2024, un dipendente ha ricevuto un assegno da 18 milioni di euro, mentre il CEO Christian Sewing ha percepito 9,8 milioni di euro.

        Cresce il numero di dipendenti con retribuzioni elevate

        Nel 2024, il numero di dipendenti di Deutsche Bank che percepiscono una retribuzione annua superiore a 1 milione di euro è aumentato del 28%, passando da 505 a 647. Questo aumento è stato reso possibile dall’incremento dei profitti nell’investment banking e dalla conseguente distribuzione di bonus più elevati. Il mercato dei salari in Germania è influenzato da diversi fattori, tra cui l’industria, l’esperienza e la posizione geografica. Nel 2025, il salario medio annuo lordo in Germania è di circa 51.876 euro. Tuttavia, i salari possono variare notevolmente in base al settore. Ad esempio, i lavori nel settore finanziario, scientifico e tecnologico tendono a pagare di più rispetto a quelli nel settore del commercio al dettaglio o dell’ospitalità.

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          Mondo

          Ali di pollo, mutande e ostie: la lista dei dazi Ue contro Trump (e la guerra commerciale si infiamma)

          L’Unione europea risponde alle tariffe americane con una lista di 99 pagine di prodotti da colpire: dal pollo alle sigarette elettroniche, passando per i jeans e i bourbon

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            Altro che diplomazia: la guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione europea è ufficialmente entrata nel vivo. Dopo l’entrata in vigore dei dazi del 25% imposti da Donald Trump su alluminio e acciaio europei, Bruxelles ha deciso di rispondere con una lista di contromisure degna di una sceneggiatura da guerra fredda economica.

            Il piano dell’Unione europea è stato annunciato da Ursula von der Leyen, che ha chiarito i tempi della vendetta commerciale: “Le nostre controtariffe saranno introdotte in due fasi, a partire dal 1° aprile e pienamente operative entro il 13 aprile”. Il messaggio è chiaro: colpire gli Stati Uniti dove fa più male, economicamente e politicamente.

            Ma la domanda è: quali prodotti saranno coinvolti? La lista è lunga ben 99 pagine, e dentro c’è di tutto. Ali di pollo, mutande, bourbon, sigarette elettroniche, persino ostie.

            L’Europa risponde a Trump: una lista esplosiva

            Se qualcuno si aspettava un elenco di prodotti di nicchia, si sbagliava di grosso. Bruxelles ha messo a punto una vera e propria lista della spesa (o della non-spesa, in questo caso), che prende di mira alcuni tra i prodotti più tipici del mercato americano.

            Si parte dagli alimenti, e qui l’Unione europea ha deciso di puntare su prodotti che negli USA valgono miliardi di dollari di esportazioni. Oltre ai famosi polli (rigorosamente interi, a pezzi, con o senza testa), l’elenco include:

            • Anatre, oche, tacchini e faraone (non si sa mai, meglio essere completi).
            • Quarti di carne bovina, sia interi che separati meccanicamente.
            • Carne equina (perché no?).
            • Carne surgelata, con testa, senza testa, in ogni variante possibile.

            E poi c’è l’elemento più surreale della lista: le ostie. Sì, proprio quelle per la comunione. A quanto pare, anche la Chiesa dovrà fare i conti con la guerra commerciale.

            Ma non è tutto. Bruxelles ha inserito anche frutta, verdura, bevande alcoliche e una serie di prodotti alimentari strategici.

            Dazi sulle mutande e sulle Harley-Davidson: il piano per colpire gli Stati repubblicani

            Se pensavate che l’elenco fosse già abbastanza variegato, aspettate di leggere la sezione “prodotti vari”. Tra i beni colpiti dai dazi europei compaiono:

            • Sigarette elettroniche e cerotti alla nicotina (perché far smettere di fumare gli americani dovrebbe essere una priorità).
            • Jeans, pigiami, slip e mutande (sia da uomo che da donna, perché la parità di genere è importante anche nei dazi).
            • Dopobarba, shampoo e dentifrici (l’Europa non si fida dell’igiene personale degli americani?).
            • Spazzaneve, macchinari industriali e mobili di legno e metallo (per non farli stare comodi né caldi).

            Ma il vero colpo di genio di Bruxelles sta nel colpire prodotti simbolo di specifiche aree politiche degli Stati Uniti. L’obiettivo? Mettere pressione sugli Stati governati dai repubblicani, quelli che hanno più da perdere in termini economici.

            Ecco perché tra i prodotti colpiti ci sono anche:

            • Il bourbon, il re degli alcolici americani, prodotto principalmente in Kentucky (terra repubblicana).
            • Le Harley-Davidson, un’icona americana fabbricata in Wisconsin, anch’esso roccaforte conservatrice.
            • I jeans, simbolo del Made in USA, prodotti in diversi Stati a guida repubblicana.

            Bruxelles colpisce Trump dove fa più male

            L’idea dell’Unione europea è geniale nella sua semplicità: non solo colpire l’economia americana, ma creare problemi politici a Trump. Se le industrie colpite dai dazi iniziano a perdere soldi, è probabile che gli elettori repubblicani inizino a fare pressione sul presidente.

            E questo potrebbe diventare un grosso problema per Trump in un anno elettorale.

            Non è la prima volta che l’Europa usa questa strategia. Già nel 2018, in risposta ai dazi di Trump, Bruxelles aveva colpito il bourbon e le motociclette Harley-Davidson, scatenando il malcontento di intere categorie produttive negli USA.

            E adesso? La guerra commerciale è appena cominciata

            Il rischio di un’escalation commerciale tra Unione europea e Stati Uniti è sempre più concreto. Se Trump deciderà di rispondere ai dazi europei con nuove misure punitive, lo scenario potrebbe diventare ancora più teso.

            Nel frattempo, in attesa che la guerra commerciale si plachi, le aziende americane produttrici di mutande, bourbon e pollo stanno già facendo i conti con un futuro meno roseo.

            E se pensavate che il prossimo capitolo delle relazioni USA-UE si sarebbe giocato su temi di grande rilevanza politica, be’, vi sbagliavate: la battaglia si combatte a suon di Harley-Davidson, sigarette elettroniche e ostie da messa.

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              Groenlandia al centrodestra: Trump è più lontano, ora si punta all’indipendenza

              Vittoria a sorpresa per Jens-Frederik Nielsen. Le divisioni tra i partiti sui tempi della secessione dalla Danimarca

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                Vittoria a sorpresa nelle elezioni in Groenlandia: i Democratici di centrodestra, guidati da Jens-Frederik Nielsen, hanno ottenuto un risultato clamoroso, triplicando i consensi e ribaltando le previsioni della vigilia. Un successo che apre un nuovo scenario politico per l’isola, sempre più proiettata verso l’indipendenza dalla Danimarca e sempre più nel mirino degli Stati Uniti.

                Nielsen, ex campione nazionale di badminton, ha saputo intercettare il malcontento di una popolazione divisa tra il desiderio di autonomia e la paura di un distacco troppo affrettato da Copenaghen. È stato il candidato più fermo nel respingere le mire di Washington, parlando apertamente di una minaccia alla sovranità groenlandese. Eppure, il suo approccio non è di rottura totale: ha promesso di mantenere un dialogo aperto con tutti gli attori in gioco, dagli alleati locali fino ai governi stranieri.

                La questione dell’indipendenza, da sempre al centro del dibattito politico groenlandese, resta aperta. Se da un lato tutti i partiti concordano sul distacco dalla Danimarca, dall’altro le tempistiche creano fratture interne. I Democratici, ora primo partito con il 29,9% dei voti, vogliono un percorso graduale, basato sul raggiungimento della sostenibilità economica prima di qualsiasi passo formale. Al contrario, il partito nazionalista Naleraq, che ha ottenuto il 24,5%, spinge per una separazione immediata, prendendo a modello la Brexit e il distacco della Groenlandia dall’Unione Europea nel 1985.

                La sfida adesso è trovare una coalizione stabile. Nessuno ha i numeri per governare da solo e la scelta dell’alleanza determinerà il futuro politico dell’isola. Se i Democratici si uniranno a Naleraq, il processo di indipendenza potrebbe subire un’accelerazione drastica, mentre un’alleanza con forze più moderate manterrebbe un equilibrio più prudente.

                Nel frattempo, la Danimarca osserva da vicino gli sviluppi, consapevole che l’eventuale indipendenza non sarà una transizione semplice. Oggi il 60% del PIL groenlandese dipende dai finanziamenti di Copenaghen e un distacco senza solide alternative potrebbe esporre l’isola alle pressioni di potenze come Stati Uniti e Cina, entrambe interessate alle risorse naturali dell’Artico.

                Nielsen, fresco di vittoria, ha dichiarato che la Groenlandia deve restare unita per affrontare questa nuova fase storica. Ma il cammino è appena iniziato e il finale resta tutto da scrivere.

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