Mondo
Fake news su Brigitte Macron: “Era un uomo!”. Due donne a processo per diffamazione
Questo caso evidenzia la pericolosità delle campagne di disinformazione e l’importanza di azioni legali per proteggere la reputazione delle persone. La sentenza del tribunale rappresenta un passo significativo nella lotta contro le fake news e un monito per coloro che cercano di manipolare l’opinione pubblica attraverso informazioni false.

Brigitte Macron, la Première Dame di Francia, è stata vittima di una grave fake news che ha iniziato a circolare sui social media nel 2021. La notizia falsa affermava che Brigitte Macron fosse in realtà nata uomo, con il nome di Jean-Michel Trogneux. Questa bufala è stata diffusa da ambienti vicini all’estrema destra e da gruppi anti-Macron, con l’intento di destabilizzare il presidente Emmanuel Macron in vista delle elezioni presidenziali del 2022.
Le responsabili
Le indagini hanno identificato due donne come principali responsabili della diffusione di questa fake news. Una delle donne, Natacha Rey, si è presentata come giornalista indipendente e ha pubblicato le false informazioni in un video su YouTube, dichiarando di avere prove documentarie e testimonianze di esperti che avrebbero confermato la notizia. La seconda donna coinvolta si è dichiarata una chiaroveggente.
Le conseguenze legali
Brigitte Macron ha risposto prontamente, denunciando le due donne per diffamazione. Il caso è stato portato davanti al tribunale giudiziario di Parigi, dove le imputate sono state processate e condannate a pagare una multa di 2.000 euro ciascuna. Durante il processo, è emerso che la fake news è stata ampiamente condivisa sui social media, raggiungendo oltre 57.000 condivisioni e contribuendo a una campagna di disinformazione mirata a danneggiare la reputazione della famiglia Macron.
Contesto e reazioni
La diffusione di questa notizia falsa ha suscitato indignazione e preoccupazione, non solo per l’attacco personale a Brigitte Macron, ma anche per le implicazioni più ampie sulla diffusione di disinformazione online. Emmanuel Macron ha difeso pubblicamente sua moglie, sottolineando la gravità delle accuse e l’importanza di combattere la diffusione di fake news.
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Mondo
Trump frena sui dazi (dopo aver fatto disastri): tregua da 90 giorni e panico in retromarcia
Le tariffe doganali scendono al 10% per tutti, ma solo temporaneamente. Con la Cina, invece, si sale fino al 125%. Una retromarcia in piena regola, causata dal panico sui mercati e dalla minaccia della Cina di scaricare i titoli di Stato americani. La credibilità? Rimandata a data da destinarsi.

Donald Trump ha pestato l’acceleratore, ha fatto sobbalzare i mercati e poi, come sempre, ha messo la retromarcia all’ultimo secondo. I dazi annunciati appena pochi giorni fa con toni da Far West vengono ora “sospesi” per 90 giorni, con le tariffe che si fermano al 10% per tutti — tranne che per la Cina, dove invece salgono fino a uno spavaldo 125%.
Una mossa che ha tutta l’aria di una toppa dell’ultimo minuto, cucita in fretta e furia quando l’amministrazione Usa si è accorta di aver alzato un po’ troppo la tensione. Il risultato? Una clamorosa marcia indietro che ha fatto rimbalzare le Borse, ma che lascia aperte tutte le incertezze.
La verità, sotto sotto, è che Trump si è preso paura. A mandarlo in panico è stato il comportamento dei mercati obbligazionari: i bond Usa, tradizionale porto sicuro, sono stati scaricati a raffica dagli investitori, con i rendimenti saliti alle stelle. Non esattamente il miglior segnale per un presidente che ama vendere ottimismo come se fosse gelato. “La gente stava diventando un po’ nervosa”, ha detto ieri, come se fosse uno spettatore esterno. Peccato che la gente fosse nervosa per colpa sua.
A rincarare la dose ci si è messa anche la Cina, che oltre a subire dazi per il 125% (a questo punto è più guerra commerciale che commercio), resta il secondo maggiore detentore di titoli di Stato americani. Circa 760 miliardi di dollari che Pechino può decidere di vendere in qualunque momento, scatenando una tempesta perfetta sul debito Usa. Altro che “America First”.
Secondo il Washington Post, a far rinsavire Trump sarebbero stati alcuni senatori repubblicani, un paio di leader internazionali colti da sudori freddi e — ovviamente — i grafici di Wall Street che prendevano fuoco. A quel punto, il copione è quello di sempre: il segretario al Tesoro parla di “strategia”, la Casa Bianca finge che fosse tutto previsto e il presidente si spaccia per l’eroe moderato che evita il disastro da lui stesso innescato.
La tregua, comunque, è solo una pausa: i dazi restano sul tavolo, e se dopo i 90 giorni non arriveranno nuovi miracoli diplomatici, tutto potrebbe tornare come prima (o peggio). Intanto, su acciaio, alluminio e auto le tariffe restano in vigore, così come il 25% imposto a Canada e Messico, che non si capisce mai se siano partner, avversari o semplici comparse nella telenovela economica della Casa Bianca.
In sintesi: Trump ha fatto marcia indietro, ma solo perché ha visto l’abisso. E anche stavolta, più che una strategia, è sembrato il classico pasticcio improvvisato, tra proclami esagerati e panico da bot. Ma non c’è da illudersi: quando il presidente si mette al volante dell’economia mondiale, la retromarcia è l’unica manovra sicura.
Mondo
Francesco con Carlo e Camilla: la foto che scalda il cuore
L’immagine mostra Francesco seduto e sorridente, senza i tubicini dell’ossigeno, mentre stringe la mano a Camilla e accoglie Carlo con un dono. Dopo il forfait ufficiale, la visita a sorpresa si è svolta in forma privata: un gesto di reciproco sostegno in un momento delicato per la salute di entrambi.

Papa Francesco seduto, sorridente, senza i naselli per l’ossigeno. Di fronte a lui la regina Camilla, lievemente inchinata mentre gli stringe la mano, e re Carlo, in piedi, con un dono tra le mani e un sorriso che sa di sollievo. È questa la foto, diffusa stamattina da Buckingham Palace e dal Vaticano, che racconta l’incontro privato avvenuto ieri pomeriggio a Casa Santa Marta, a Roma.
Un’immagine che smentisce i timori sulla salute del pontefice — dimesso solo il 23 marzo dopo trentotto giorni di ricovero per una polmonite bilaterale — e che conferma, al tempo stesso, l’importanza del legame personale tra il sovrano britannico e il capo della Chiesa cattolica. Nessuno dei presenti indossa la mascherina. Sullo sfondo, l’appartamento papale. In primo piano, venti minuti di cordialità e gesti simbolici, che vanno oltre il protocollo.
L’incontro, inizialmente previsto ma poi ufficialmente annullato, si è svolto in forma del tutto privata, quasi clandestina, lontano dai riflettori e dai comunicati ufficiali. Ma Carlo, a quanto pare, ci teneva troppo per rinunciare. E non solo per ragioni personali: il re da anni si definisce “multireligioso”, pur essendo formalmente a capo della Chiesa d’Inghilterra. Un’apertura che, insieme a quella della madre Elisabetta, ha favorito un graduale e significativo riavvicinamento tra anglicani e cattolici.
I rapporti tra la famiglia reale e il Vaticano, del resto, sono sempre stati intrecciati da una fitta trama di gesti e segnali. Basti pensare che, proprio vent’anni fa, il matrimonio tra Carlo e Camilla fu posticipato di un giorno per permettere al futuro re di partecipare ai funerali di Giovanni Paolo II. Una scelta che racconta molto del rapporto profondo — e personale — con la figura del Papa.
Ci sono poi episodi curiosi e meno noti, come quello rivelato dal biografo Robert Hardman: in occasione dell’incoronazione di Carlo, nel maggio 2023, la Chiesa anglicana si accorse di non avere abbastanza piviali per tutti i vescovi. Come si risolse l’impasse liturgica? Semplice: chiedendo in prestito le mantelle alla Chiesa cattolica della Westminster Cathedral. A due passi da Westminster Abbey, un gesto silenzioso ma eloquente.
Infine, c’è la questione della salute. Carlo e Francesco stanno attraversando entrambi un periodo delicato, con ricoveri e trattamenti che li hanno tenuti lontani dagli impegni pubblici. Questo incontro, allora, non è stato soltanto un atto formale o simbolico. Ma anche un momento umano, quasi confidenziale, per darsi forza a vicenda. Due figure diverse, due troni lontani, ma unite – per una volta – dallo stesso bisogno di conforto. E da una stretta di mano senza filtri.
Mondo
Pena di morte record. I dati drammatici del 2024 e il lento cammino verso l’abolizione
Nel 2024 le esecuzioni capitali hanno toccato il livello più alto dal 2015, ma cresce anche il numero di Paesi che abbandonano questa pratica crudele e inumana.

Nel 2024 il mondo ha assistito a un triste record. Un record da guiness dei primati? Nulla di tutto questo. E’ record per numero di esecuzioni capitali che ha raggiunto il livello più alto dal 2015, con almeno 1.518 persone messe a morte in 15 Paesi. Questo dato, riportato da Amnesty International, evidenzia un aumento del 32% rispetto all’anno precedente. Nonostante il numero di Stati che hanno eseguito condanne a morte sia rimasto il più basso mai registrato per il secondo anno consecutivo, l’incremento delle esecuzioni in alcune regioni ha contribuito a questa drammatica crescita.
La maggior parte delle esecuzioni si è concentrata in Medio Oriente
Iran, Iraq e Arabia Saudita hanno rappresentato oltre il 91% delle esecuzioni documentate. L’Iran, in particolare, ha messo a morte almeno 972 persone, un aumento significativo rispetto al 2023. L’Arabia Saudita ha raddoppiato il suo totale annuo, mentre l‘Iraq ha quasi quadruplicato il numero delle esecuzioni. Questi tre Paesi, insieme, hanno totalizzato un impressionante 1.380 esecuzioni. L’Iraq ha quasi quadruplicato il numero delle esecuzioni (da almeno 16 ad almeno 63), l’Arabia Saudita ha raddoppiato il suo totale annuo (da 172 ad almeno 345), mentre l’Iran ha messo a morte 119 persone in più rispetto al 2023 (da almeno 853 ad almeno 972), totalizzando il 64% di tutte le esecuzioni note.
Il mistero Cina nasconde dati fuori controllo
La Cina, sebbene i dati ufficiali rimangano segreti, è considerata il principale boia al mondo, con stime che suggeriscono migliaia di esecuzioni. Anche in Corea del Nord e Vietnam, la pena di morte continua a essere ampiamente applicata, ma la mancanza di trasparenza rende difficile ottenere numeri precisi.
Barlume di speranza ce ne abbiamo?
Nonostante questi dati allarmanti, il 2024 ha visto anche segnali di speranza. Sempre più Paesi stanno abbandonando la pena di morte, con 113 Stati che l’hanno abolita completamente e 145 che l’hanno eliminata dalla legge o dalla prassi. Inoltre, casi come quello di Hakamada Iwao in Giappone e Rocky Myers negli Stati Uniti dimostrano che la mobilitazione internazionale può fare la differenza. Molte condanne a morte sono state commutate in ergastolo o nella liberazione dei prigionieri. Questo contrasto tra l’aumento delle esecuzioni in alcune regioni e il progresso verso l’abolizione sottolinea la complessità del dibattito globale sulla pena di morte. Mentre alcuni Stati continuano a ricorrere a questa pratica crudele e inumana, la tendenza generale sembra indicare un mondo che si sta gradualmente allontanando da essa.
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