Mondo
Francesco con Carlo e Camilla: la foto che scalda il cuore
L’immagine mostra Francesco seduto e sorridente, senza i tubicini dell’ossigeno, mentre stringe la mano a Camilla e accoglie Carlo con un dono. Dopo il forfait ufficiale, la visita a sorpresa si è svolta in forma privata: un gesto di reciproco sostegno in un momento delicato per la salute di entrambi.

Papa Francesco seduto, sorridente, senza i naselli per l’ossigeno. Di fronte a lui la regina Camilla, lievemente inchinata mentre gli stringe la mano, e re Carlo, in piedi, con un dono tra le mani e un sorriso che sa di sollievo. È questa la foto, diffusa stamattina da Buckingham Palace e dal Vaticano, che racconta l’incontro privato avvenuto ieri pomeriggio a Casa Santa Marta, a Roma.
Un’immagine che smentisce i timori sulla salute del pontefice — dimesso solo il 23 marzo dopo trentotto giorni di ricovero per una polmonite bilaterale — e che conferma, al tempo stesso, l’importanza del legame personale tra il sovrano britannico e il capo della Chiesa cattolica. Nessuno dei presenti indossa la mascherina. Sullo sfondo, l’appartamento papale. In primo piano, venti minuti di cordialità e gesti simbolici, che vanno oltre il protocollo.
L’incontro, inizialmente previsto ma poi ufficialmente annullato, si è svolto in forma del tutto privata, quasi clandestina, lontano dai riflettori e dai comunicati ufficiali. Ma Carlo, a quanto pare, ci teneva troppo per rinunciare. E non solo per ragioni personali: il re da anni si definisce “multireligioso”, pur essendo formalmente a capo della Chiesa d’Inghilterra. Un’apertura che, insieme a quella della madre Elisabetta, ha favorito un graduale e significativo riavvicinamento tra anglicani e cattolici.
I rapporti tra la famiglia reale e il Vaticano, del resto, sono sempre stati intrecciati da una fitta trama di gesti e segnali. Basti pensare che, proprio vent’anni fa, il matrimonio tra Carlo e Camilla fu posticipato di un giorno per permettere al futuro re di partecipare ai funerali di Giovanni Paolo II. Una scelta che racconta molto del rapporto profondo — e personale — con la figura del Papa.
Ci sono poi episodi curiosi e meno noti, come quello rivelato dal biografo Robert Hardman: in occasione dell’incoronazione di Carlo, nel maggio 2023, la Chiesa anglicana si accorse di non avere abbastanza piviali per tutti i vescovi. Come si risolse l’impasse liturgica? Semplice: chiedendo in prestito le mantelle alla Chiesa cattolica della Westminster Cathedral. A due passi da Westminster Abbey, un gesto silenzioso ma eloquente.
Infine, c’è la questione della salute. Carlo e Francesco stanno attraversando entrambi un periodo delicato, con ricoveri e trattamenti che li hanno tenuti lontani dagli impegni pubblici. Questo incontro, allora, non è stato soltanto un atto formale o simbolico. Ma anche un momento umano, quasi confidenziale, per darsi forza a vicenda. Due figure diverse, due troni lontani, ma unite – per una volta – dallo stesso bisogno di conforto. E da una stretta di mano senza filtri.
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Mondo
Su le mutande, siamo in guerra! Gli Usa vietano il sesso con i cinesi per paura delle spie
La nuova direttiva americana vieta agli impiegati e contractor in Cina di avere qualsiasi rapporto sentimentale o sessuale con la popolazione locale. L’eco della Guerra fredda torna sotto le lenzuola, tra ambasciate, consolati e campus universitari. Pechino reagisce allertando studenti, turisti e persino aziende. Intanto i social si stringono attorno al cestista Cui Yongxi, temendo che anche lui finisca vittima collaterale del gelo Usa-Cina.

Altro che spionaggio cibernetico e dazi commerciali: la nuova frontiera del conflitto tra Stati Uniti e Cina passa dalla biancheria intima. E anche stavolta, l’intelligence ha deciso che non si può più “scendere a compromessi”: d’ora in poi, i funzionari americani che operano nel territorio cinese dovranno tenere chiuse le braguette oltre che la bocca. Vietatissimi i flirt, proibiti i baci, aboliti gli amori da esportazione: chi sgarra viene impacchettato e rispedito in patria, con buona pace della diplomazia… e dei sensi.
La direttiva — che sa più di castità forzata che di sicurezza nazionale — è stata varata a gennaio per volere dell’ambasciatore Nicholas Burns, poco prima di levare l’ancora. Ma la mano che stringe il nodo della cravatta è quella, neanche troppo invisibile, dell’apparato federale, da tempo in allarme per le cosiddette “honey trap”: trappole al miele che non si trovano nei barattoli, ma tra le lenzuola. Il rischio? Che una notte focosa si trasformi in un incubo da dossier classificato.
Le agenzie americane in Cina — ambasciata di Pechino, consolati sparsi e persino Hong Kong — hanno ricevuto l’ordine tassativo: niente ammiccamenti, zero Tinder, nemmeno un caffè offerto per sbaglio. Solo chi è già regolarmente impegnato con un cittadino o una cittadina cinese può tirare un sospiro di sollievo e continuare a portare fiori. Tutti gli altri: muti, casti e controllati. I contractor della sicurezza si trovano così a fare la guardia con lo spray al peperoncino in una mano e il cilicio metaforico nell’altra.
La risposta di Pechino? Rapida, puntuale e vagamente passivo-aggressiva. Il Ministero della Cultura ha subito diffuso un messaggio rivolto a chi avesse in programma una gitarella negli Stati Uniti: “Valutate i rischi. Potreste incontrare un americano”. Come dire: se li riconoscete, evitateli. Se li amate, scappate. Meglio una vacanza in Siberia che in Florida, e non solo per il clima.
Ma non è finita qui. Il Ministero della Scuola ha lanciato un’allerta a tutti gli studenti cinesi che frequentano college e università a stelle e strisce. E il Ministero del Commercio ha affondato il colpo contro sei nuove compagnie americane accusate di vendere armamenti a Taiwan. Insomma: tu mi vieti il sesso, io ti taglio i droni.
Sullo sfondo, l’ombra lunga della propaganda. Quella che qualche anno fa, ai tempi del “China Virus” targato Trump, aveva acceso le micce del sospetto e della paranoia. Cinque anni dopo, siamo di nuovo lì. Anzi: peggio. Perché ora, oltre alle dogane, ci sono i letti monitorati e i cuori sotto sorveglianza.
A farne le spese potrebbe essere anche un ragazzo di 21 anni, del tutto ignaro della bufera geopolitica: Cui Yongxi, alias Jacky Cui, primo cinese nella storia dei Brooklyn Nets, squadra NBA controllata dal miliardario taiwanese-canadese Joseph Tsai. Lui corre, schiaccia, sorride. Ma sui social già si leva il coro: “Per favore, non fischiatelo. È solo basket, non è una guerra fredda”.
Peccato che oggi, in tempi di sanzioni incrociate, restrizioni affettive e amore blindato, anche un tiro libero possa sembrare un gesto sovversivo.
Mondo
Scarpe da ginnastica sotto attacco: i dazi di Trump fanno tremare Nike e Adidas
Nike, Adidas e Puma producono in Vietnam per abbattere i costi, ma ora rischiano grosso con le nuove tariffe volute da Trump. Spostare la produzione non sarà facile né rapido. Intanto aumentano i prezzi, crollano le Borse e si moltiplicano i timori per la catena globale della sneaker.

La guerra commerciale a stelle e strisce colpisce anche ai piedi. Nike, Adidas, Puma e tutti i principali produttori di scarpe sportive sono finiti nel mirino delle nuove tariffe Usa, e a farne le spese rischiano di essere sia i marchi internazionali sia gli stessi consumatori americani.
Il presidente Donald Trump ha deciso di applicare una nuova tassa del 46% sulle scarpe importate dal Vietnam, attuale centro mondiale della produzione di calzature sportive. Un colpo durissimo per aziende che, da anni, hanno spostato l’intera filiera produttiva nel sud-est asiatico per ridurre i costi. Ora però, quelle stesse scarpe diventano improvvisamente troppo costose da importare negli Stati Uniti.
Il peso del Vietnam nel mondo delle sneaker
Nike, solo per citare il gigante del settore, ha avviato la produzione in Vietnam nel 1995 e oggi conta 130 fabbriche fornitrici nel Paese. Da lì arriva la metà della sua produzione di calzature. Anche Adidas dipende fortemente dal Vietnam, da cui importa quasi il 40% delle sue scarpe. Puma, stessa storia.
Il Vietnam è diventato un pilastro della sneaker economy dopo che, nel primo mandato di Trump, molte aziende avevano abbandonato la Cina per evitare i dazi dell’epoca. Un processo lungo e complesso, reso possibile grazie a fornitori locali e a investimenti di gruppi sudcoreani e taiwanesi. Ora, il rischio è di dover traslocare di nuovo. E in fretta.
Prezzi su, Borsa giù
Secondo l’American Apparel & Footwear Association, la tariffa del 46% voluta da Trump si somma a dazi già esistenti del 20% sulle scarpe con tomaia in tessuto. Per restare a galla, le aziende dovranno alzare i prezzi fino al 20%, stima Adam Cochrane della Deutsche Bank.
Nike ha già lanciato l’allarme nel suo rapporto trimestrale: “Navigare in questo ambiente incerto sarà complicato”, tra geopolitica, tariffe, valute e instabilità globale. Il risultato si è visto subito in Borsa: le azioni dell’azienda sono crollate ai minimi degli ultimi otto anni.
Nuovi hub produttivi? Non prima di due anni
Per chi vuole fuggire dal Vietnam, le opzioni non mancano: Messico, Brasile, Turchia ed Egitto sono tra i Paesi indicati dagli analisti come potenziali nuovi poli manifatturieri. Ma servono tempo, strutture, manodopera qualificata e soprattutto contratti.
Lo spostamento della produzione richiederà dai 18 ai 24 mesi, spiegano gli esperti. E nel frattempo, i dazi restano. Anche perché Trump ha imposto tariffe minime del 10% su quasi tutti i partner commerciali, con picchi ben più alti su Cina e Indonesia, altri due importanti produttori di scarpe.
Il paradosso della produzione americana
Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma la realtà è che gli Stati Uniti non hanno fabbriche attrezzate né forza lavoro qualificata per realizzare scarpe sportive di alta gamma. Per questo, molti osservatori temono che l’unico effetto immediato sarà l’aumento dei prezzi per i consumatori americani.
E intanto, in un mercato in cui il 99% delle calzature è importato, le grandi aziende valutano scenari alternativi: ridurre i volumi per gli Usa, dirottare i prodotti verso Europa, Medio Oriente o Cina, e tagliare i costi ovunque possibile. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica – osserva con amara ironia il Financial Times – quando la gente pagava i turisti per un paio di Levi’s originali.
Le sneaker, insomma, sono diventate l’ultima vittima della guerra commerciale made in Trump. Un altro tassello nella strategia dei dazi che, più che rilanciare la manifattura americana, rischia di affossare le aziende e svuotare i portafogli dei consumatori. A colpi di dogana.
Mondo
Le ultime ore di Maradona: per l’ex moglie Veronica troppi misteri sul decesso
L’ex moglie Veronica Ojeda racconta in tribunale la paura vissuta dal Pibe de Oro e accusa lo staff medico: “Lo tenevano sotto sequestro, mi chiedeva aiuto”. Un processo che scuote l’Argentina e fa emergere dettagli drammatici.

La testimonianza di Veronica Ojeda, ex moglie di Diego Armando Maradona , durante il processo sulla morte del leggendario calciatore argentino, ha portato alla luce dettagli drammatici e accuse pesanti.
Le pesanti accuse di Veronica Ojeda
La signora Ojeda ha dichiarato che l’ex marito viveva in una condizione di paura costante e si sentiva come se fosse tenuto sotto sequestro. Ogni volta che lo visitava, Diego le chiedeva aiuto e la implorava di portarlo via. La donna ha raccontato che il ricovero domiciliare presso l’appartamento di Tigre, dove suo marito è deceduto, era stato deciso dal neurochirurgo Leopoldo Luque e dal suo staff, ora sotto processo. Secondo Ojeda, le era stato garantito che Diego sarebbe stato seguito come in ospedale, ma la realtà si è rivelata ben diversa.
Abbandonato nel momento della morte
Ojeda ha descritto con grande emozione il momento in cui ha scoperto la morte dell’ex calciatore. Era in macchina con il figlio Dieguito quando ha sentito la notizia alla radio. Arrivata alla residenza di Tigre, ha trovato Diego in condizioni strazianti: gonfio e con la schiuma alla bocca. Dopo aver pregato, è uscita dalla stanza e ha perso i sensi.
L’autopsia ha rivelato che l’ex giocatore è morto per un edema polmonare acuto causato da insufficienza cardiaca congestizia e cardiomiopatia dilatativa. Secondo i periti, il quadro clinico si era aggravato nei giorni precedenti alla morte, durante i quali il campione non avrebbe ricevuto le cure necessarie. È emerso che Diego Armando avrebbe agonizzato per circa 12 ore prima del decesso.
Chi sono gli imputati
Il processo vede imputati sette membri dello staff medico, tra cui il neurochirurgo Leopoldo Luque, accusati di omicidio semplice con dolo eventuale. L’accusa sostiene che ci siano stati gravi errori nell’assistenza domiciliare, che potrebbero aver contribuito alla morte del campione. La testimonianza di Ojeda ha aggiunto un ulteriore livello di drammaticità al processo, evidenziando le presunte negligenze e il clima di paura in cui Diego ha vissuto i suoi ultimi giorni. Un caso che continua a scuotere l’Argentina e il mondo intero.
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