Mondo
Tesla, scivolone in Borsa: Musk nel mirino, il marchio perde credibilità
JPMorgan taglia le stime sugli utili e parla di “danno senza precedenti” per il marchio. Tesla registra il peggior calo delle consegne da anni, mentre l’immagine dell’azienda soffre a causa delle scelte pubbliche del suo CEO. In Europa, crollano le vendite. E negli USA esplode la rabbia degli utenti.

Un “danno senza precedenti” per l’immagine del marchio. Così Ryan Brinkman, analista di JPMorgan tra i più critici nei confronti di Tesla, ha definito la situazione attuale del gruppo guidato da Elon Musk. Una valutazione impietosa che accompagna il drastico taglio delle stime sugli utili per azione: 0,36 dollari per il primo trimestre (da 0,40) e 2,30 dollari per l’intero 2025, contro i 2,70 stimati in media da Bloomberg.
A preoccupare gli investitori non è solo il calo delle consegne — il più marcato degli ultimi anni con un -13% su base annua nel primo trimestre — ma la frattura reputazionale che si sta aprendo nel cuore stesso del marchio. Tesla, da tempo simbolo della transizione green e del progresso tecnologico, oggi paga a caro prezzo le uscite pubbliche del suo fondatore.
Dagli showroom vandalizzati in California alle proteste davanti agli stabilimenti in Germania (dove le vendite sono crollate del 62%), fino all’impennata delle permute negli Stati Uniti, il sentimento nei confronti del brand sta cambiando rapidamente. E non bastano i buoni numeri registrati a marzo in Italia e Spagna a salvare un bilancio europeo in profondo rosso.
Tesla, nonostante tutto, resta l’azienda automobilistica più capitalizzata al mondo con 770 miliardi di dollari, ma nella seduta conclusiva della scorsa settimana ha perso oltre il 10%, segnando uno dei crolli peggiori degli ultimi tempi. Una discesa che ha coinciso con due eventi chiave: il comunicato ufficiale sulle consegne, e le nuove tariffe doganali globali da parte dell’amministrazione Trump.
L’impatto dei dazi è stato inizialmente attutito da indiscrezioni secondo cui Musk potrebbe lasciare temporaneamente il suo ruolo di “super consulente” politico per tornare a occuparsi a tempo pieno dell’azienda. Ma l’effetto è durato poco. I mercati sono tornati a vendere, scontando la sensazione che l’azienda stia perdendo il contatto con il suo pubblico di riferimento.
Brinkman è chiaro nel suo report: “Potremmo aver sottovalutato la reazione dei consumatori”. E non si tratta solo di dati, ma anche di simboli. Come quel cappello a forma di formaggio indossato da Musk durante un comizio in Wisconsin, dove ha anche distribuito assegni da un milione di dollari a due partecipanti. Gesti istrionici che, se una volta alimentavano il culto della personalità, oggi sembrano minare la fiducia in un marchio che aveva fatto dell’affidabilità il suo mantra.
Nonostante Tesla produca tutti i veicoli destinati al mercato americano tra California e Texas, anche l’azienda texana sarà costretta a fare i conti con l’aumento dei costi delle componenti importate. Musk stesso ha ammesso che ci sarà da “pagare un conto non trascurabile”. Una doccia fredda, soprattutto considerando che solo pochi mesi fa l’alleanza tra il miliardario e il nuovo inquilino della Casa Bianca sembrava rappresentare un vantaggio competitivo. La vittoria del tycoon repubblicano aveva infatti innescato un rally in Borsa che aveva portato Tesla fino a 1.500 miliardi di capitalizzazione.
Ora, invece, l’attivismo politico dell’imprenditore sudafricano si sta rivelando un boomerang. E il clima generale, tra delusione degli azionisti e fuga dei consumatori, conferma una crisi che va ben oltre i numeri.
Secondo alcuni analisti, una possibile via d’uscita per Tesla potrebbe arrivare da nuovi prodotti o annunci strategici. Un rimbalzo tecnico in Borsa non è escluso, ma servono fatti concreti. I mercati vogliono tornare a vedere Musk nella veste dell’innovatore, non del polemista da palcoscenico.
Le promesse fatte agli investitori devono ora fare i conti con la concorrenza feroce — su tutte la cinese BYD — e con la crescente diffidenza dei consumatori. In questo contesto, un’uscita di scena di Musk dalla politica, anche solo momentanea, potrebbe diventare un’opportunità: non solo per ridurre la pressione sul titolo, ma anche per provare a ricostruire quel legame emotivo che per anni ha fatto di Tesla molto più di una semplice casa automobilistica.
Il tempo però stringe. E per il visionario di Austin il conto sembra arrivato.
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Mondo
Su le mutande, siamo in guerra! Gli Usa vietano il sesso con i cinesi per paura delle spie
La nuova direttiva americana vieta agli impiegati e contractor in Cina di avere qualsiasi rapporto sentimentale o sessuale con la popolazione locale. L’eco della Guerra fredda torna sotto le lenzuola, tra ambasciate, consolati e campus universitari. Pechino reagisce allertando studenti, turisti e persino aziende. Intanto i social si stringono attorno al cestista Cui Yongxi, temendo che anche lui finisca vittima collaterale del gelo Usa-Cina.

Altro che spionaggio cibernetico e dazi commerciali: la nuova frontiera del conflitto tra Stati Uniti e Cina passa dalla biancheria intima. E anche stavolta, l’intelligence ha deciso che non si può più “scendere a compromessi”: d’ora in poi, i funzionari americani che operano nel territorio cinese dovranno tenere chiuse le braguette oltre che la bocca. Vietatissimi i flirt, proibiti i baci, aboliti gli amori da esportazione: chi sgarra viene impacchettato e rispedito in patria, con buona pace della diplomazia… e dei sensi.
La direttiva — che sa più di castità forzata che di sicurezza nazionale — è stata varata a gennaio per volere dell’ambasciatore Nicholas Burns, poco prima di levare l’ancora. Ma la mano che stringe il nodo della cravatta è quella, neanche troppo invisibile, dell’apparato federale, da tempo in allarme per le cosiddette “honey trap”: trappole al miele che non si trovano nei barattoli, ma tra le lenzuola. Il rischio? Che una notte focosa si trasformi in un incubo da dossier classificato.
Le agenzie americane in Cina — ambasciata di Pechino, consolati sparsi e persino Hong Kong — hanno ricevuto l’ordine tassativo: niente ammiccamenti, zero Tinder, nemmeno un caffè offerto per sbaglio. Solo chi è già regolarmente impegnato con un cittadino o una cittadina cinese può tirare un sospiro di sollievo e continuare a portare fiori. Tutti gli altri: muti, casti e controllati. I contractor della sicurezza si trovano così a fare la guardia con lo spray al peperoncino in una mano e il cilicio metaforico nell’altra.
La risposta di Pechino? Rapida, puntuale e vagamente passivo-aggressiva. Il Ministero della Cultura ha subito diffuso un messaggio rivolto a chi avesse in programma una gitarella negli Stati Uniti: “Valutate i rischi. Potreste incontrare un americano”. Come dire: se li riconoscete, evitateli. Se li amate, scappate. Meglio una vacanza in Siberia che in Florida, e non solo per il clima.
Ma non è finita qui. Il Ministero della Scuola ha lanciato un’allerta a tutti gli studenti cinesi che frequentano college e università a stelle e strisce. E il Ministero del Commercio ha affondato il colpo contro sei nuove compagnie americane accusate di vendere armamenti a Taiwan. Insomma: tu mi vieti il sesso, io ti taglio i droni.
Sullo sfondo, l’ombra lunga della propaganda. Quella che qualche anno fa, ai tempi del “China Virus” targato Trump, aveva acceso le micce del sospetto e della paranoia. Cinque anni dopo, siamo di nuovo lì. Anzi: peggio. Perché ora, oltre alle dogane, ci sono i letti monitorati e i cuori sotto sorveglianza.
A farne le spese potrebbe essere anche un ragazzo di 21 anni, del tutto ignaro della bufera geopolitica: Cui Yongxi, alias Jacky Cui, primo cinese nella storia dei Brooklyn Nets, squadra NBA controllata dal miliardario taiwanese-canadese Joseph Tsai. Lui corre, schiaccia, sorride. Ma sui social già si leva il coro: “Per favore, non fischiatelo. È solo basket, non è una guerra fredda”.
Peccato che oggi, in tempi di sanzioni incrociate, restrizioni affettive e amore blindato, anche un tiro libero possa sembrare un gesto sovversivo.
Mondo
Scarpe da ginnastica sotto attacco: i dazi di Trump fanno tremare Nike e Adidas
Nike, Adidas e Puma producono in Vietnam per abbattere i costi, ma ora rischiano grosso con le nuove tariffe volute da Trump. Spostare la produzione non sarà facile né rapido. Intanto aumentano i prezzi, crollano le Borse e si moltiplicano i timori per la catena globale della sneaker.

La guerra commerciale a stelle e strisce colpisce anche ai piedi. Nike, Adidas, Puma e tutti i principali produttori di scarpe sportive sono finiti nel mirino delle nuove tariffe Usa, e a farne le spese rischiano di essere sia i marchi internazionali sia gli stessi consumatori americani.
Il presidente Donald Trump ha deciso di applicare una nuova tassa del 46% sulle scarpe importate dal Vietnam, attuale centro mondiale della produzione di calzature sportive. Un colpo durissimo per aziende che, da anni, hanno spostato l’intera filiera produttiva nel sud-est asiatico per ridurre i costi. Ora però, quelle stesse scarpe diventano improvvisamente troppo costose da importare negli Stati Uniti.
Il peso del Vietnam nel mondo delle sneaker
Nike, solo per citare il gigante del settore, ha avviato la produzione in Vietnam nel 1995 e oggi conta 130 fabbriche fornitrici nel Paese. Da lì arriva la metà della sua produzione di calzature. Anche Adidas dipende fortemente dal Vietnam, da cui importa quasi il 40% delle sue scarpe. Puma, stessa storia.
Il Vietnam è diventato un pilastro della sneaker economy dopo che, nel primo mandato di Trump, molte aziende avevano abbandonato la Cina per evitare i dazi dell’epoca. Un processo lungo e complesso, reso possibile grazie a fornitori locali e a investimenti di gruppi sudcoreani e taiwanesi. Ora, il rischio è di dover traslocare di nuovo. E in fretta.
Prezzi su, Borsa giù
Secondo l’American Apparel & Footwear Association, la tariffa del 46% voluta da Trump si somma a dazi già esistenti del 20% sulle scarpe con tomaia in tessuto. Per restare a galla, le aziende dovranno alzare i prezzi fino al 20%, stima Adam Cochrane della Deutsche Bank.
Nike ha già lanciato l’allarme nel suo rapporto trimestrale: “Navigare in questo ambiente incerto sarà complicato”, tra geopolitica, tariffe, valute e instabilità globale. Il risultato si è visto subito in Borsa: le azioni dell’azienda sono crollate ai minimi degli ultimi otto anni.
Nuovi hub produttivi? Non prima di due anni
Per chi vuole fuggire dal Vietnam, le opzioni non mancano: Messico, Brasile, Turchia ed Egitto sono tra i Paesi indicati dagli analisti come potenziali nuovi poli manifatturieri. Ma servono tempo, strutture, manodopera qualificata e soprattutto contratti.
Lo spostamento della produzione richiederà dai 18 ai 24 mesi, spiegano gli esperti. E nel frattempo, i dazi restano. Anche perché Trump ha imposto tariffe minime del 10% su quasi tutti i partner commerciali, con picchi ben più alti su Cina e Indonesia, altri due importanti produttori di scarpe.
Il paradosso della produzione americana
Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma la realtà è che gli Stati Uniti non hanno fabbriche attrezzate né forza lavoro qualificata per realizzare scarpe sportive di alta gamma. Per questo, molti osservatori temono che l’unico effetto immediato sarà l’aumento dei prezzi per i consumatori americani.
E intanto, in un mercato in cui il 99% delle calzature è importato, le grandi aziende valutano scenari alternativi: ridurre i volumi per gli Usa, dirottare i prodotti verso Europa, Medio Oriente o Cina, e tagliare i costi ovunque possibile. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica – osserva con amara ironia il Financial Times – quando la gente pagava i turisti per un paio di Levi’s originali.
Le sneaker, insomma, sono diventate l’ultima vittima della guerra commerciale made in Trump. Un altro tassello nella strategia dei dazi che, più che rilanciare la manifattura americana, rischia di affossare le aziende e svuotare i portafogli dei consumatori. A colpi di dogana.
Mondo
Le ultime ore di Maradona: per l’ex moglie Veronica troppi misteri sul decesso
L’ex moglie Veronica Ojeda racconta in tribunale la paura vissuta dal Pibe de Oro e accusa lo staff medico: “Lo tenevano sotto sequestro, mi chiedeva aiuto”. Un processo che scuote l’Argentina e fa emergere dettagli drammatici.

La testimonianza di Veronica Ojeda, ex moglie di Diego Armando Maradona , durante il processo sulla morte del leggendario calciatore argentino, ha portato alla luce dettagli drammatici e accuse pesanti.
Le pesanti accuse di Veronica Ojeda
La signora Ojeda ha dichiarato che l’ex marito viveva in una condizione di paura costante e si sentiva come se fosse tenuto sotto sequestro. Ogni volta che lo visitava, Diego le chiedeva aiuto e la implorava di portarlo via. La donna ha raccontato che il ricovero domiciliare presso l’appartamento di Tigre, dove suo marito è deceduto, era stato deciso dal neurochirurgo Leopoldo Luque e dal suo staff, ora sotto processo. Secondo Ojeda, le era stato garantito che Diego sarebbe stato seguito come in ospedale, ma la realtà si è rivelata ben diversa.
Abbandonato nel momento della morte
Ojeda ha descritto con grande emozione il momento in cui ha scoperto la morte dell’ex calciatore. Era in macchina con il figlio Dieguito quando ha sentito la notizia alla radio. Arrivata alla residenza di Tigre, ha trovato Diego in condizioni strazianti: gonfio e con la schiuma alla bocca. Dopo aver pregato, è uscita dalla stanza e ha perso i sensi.
L’autopsia ha rivelato che l’ex giocatore è morto per un edema polmonare acuto causato da insufficienza cardiaca congestizia e cardiomiopatia dilatativa. Secondo i periti, il quadro clinico si era aggravato nei giorni precedenti alla morte, durante i quali il campione non avrebbe ricevuto le cure necessarie. È emerso che Diego Armando avrebbe agonizzato per circa 12 ore prima del decesso.
Chi sono gli imputati
Il processo vede imputati sette membri dello staff medico, tra cui il neurochirurgo Leopoldo Luque, accusati di omicidio semplice con dolo eventuale. L’accusa sostiene che ci siano stati gravi errori nell’assistenza domiciliare, che potrebbero aver contribuito alla morte del campione. La testimonianza di Ojeda ha aggiunto un ulteriore livello di drammaticità al processo, evidenziando le presunte negligenze e il clima di paura in cui Diego ha vissuto i suoi ultimi giorni. Un caso che continua a scuotere l’Argentina e il mondo intero.
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